Chi ricorda l'emozione di scartare un CD nuovo, la soddisfazione di allineare le custodie dei videogiochi sulla mensola, magari dopo una caccia al tesoro in un negozio specializzato? Erano tempi in cui l'acquisto di musica o software significava possedere un oggetto fisico, tangibile. Dalle musicassette "piratate" vendute in spiaggia dai cosiddetti "vucumprà", fino all'acquisto di un videogioco come "UFO: Terror from the Deep" in un Virgin Megastore durante una vacanza studio, ogni scelta era ponderata, anche a causa di costi non sempre accessibili. Collezionare era un rito, un modo per dare valore ai propri interessi.
Oggi, questo scenario è radicalmente mutato. La fruizione di contenuti multimediali si è spostata prevalentemente sul digitale, trasformando l'esperienza d'acquisto in qualcosa di profondamente diverso, quasi una nicchia per nostalgici del supporto fisico. Non si tratta solo della comodità degli abbonamenti "all-you-can-eat", ma di una questione più fondamentale: nell'era digitale, stiamo progressivamente perdendo il concetto stesso di possesso.
Questo cambiamento solleva interrogativi cruciali: è una transizione giusta o problematica? Cosa succede se una piattaforma su cui abbiamo "acquistato" giochi o musica chiude i battenti? Se Apple, per un'ipotesi remota, dovesse fallire, che fine farebbero i nostri brani comprati su iTunes? E, scenario ben più plausibile per piattaforme minori, cosa accade ai nostri beni digitali se il nostro account viene cancellato, rubato o bannato a seguito di una violazione? Rischiamo di veder svanire nel nulla gli investimenti fatti?
Cosa acquistiamo realmente con un click?
Quando clicchiamo sul pulsante "acquista" e scarichiamo una canzone o un videogioco, cosa stiamo effettivamente ottenendo? Per rispondere a queste complesse domande, ci avvaliamo del contributo di Gaetano Dimita, esperto di proprietà intellettuale.
È evidente che l'acquisto di un bene digitale differisce sostanzialmente da quello di un bene fisico. Con quest'ultimo, la proprietà è chiara e inalienabile, salvo furto o distruzione. Nel mondo digitale, invece, ciò che spesso acquisiamo non è il bene in sé, ma una licenza d'uso, soggetta a termini e condizioni che raramente leggiamo con la dovuta attenzione. Questo ha implicazioni legali e pratiche significative.
"È chiarissimo dal punto di vista legale che noi non stiamo acquistando il videogioco, il brano musicale o l'ebook, stiamo soltanto acquisendo una licenza all'utilizzo."
Se è difficile immaginare la chiusura di colossi come iTunes, lo stesso non si può dire per la miriade di altre piattaforme che popolano un mercato sempre più competitivo. Esistono tutele concrete per i consumatori in caso di fallimento o chiusura del servizio, o i contratti che accettiamo – spesso implicitamente – conferiscono alle piattaforme un potere quasi assoluto?
L'istinto potrebbe suggerire che, avendo "acquistato" un contenuto, si abbia il diritto di salvarlo su un dispositivo personale, creando una copia di backup della propria collezione digitale per mettersi al riparo da eventuali chiusure. Ma è realmente così? Le piattaforme sono tenute a garantire una qualche forma di tutela per i nostri acquisti in questi scenari? La risposta, purtroppo, non è sempre scontata né rassicurante.
Account sospesi e beni digitali inaccessibili
Un'ulteriore complicazione sorge quando l'accesso ai nostri beni digitali è legato a un account utilizzato anche per interagire con community online o per il gioco multiplayer. Se questo account viene sospeso o bannato – per cheating, violazione dei termini di servizio o altri motivi – cosa ne è dei giochi, della musica o dei film regolarmente acquistati? È possibile trasferirli o si perde irrimediabilmente l'accesso a tutto ciò per cui si è pagato?
"...nel caso in cui tu abbia acquistato un ebook e nonostante la piattaforma ancora sia là, ma la licenza tra l'autore o il publisher dell'ebook dovesse finire con Amazon, tu all'ebook che hai acquistato... non potrai più accedere, anche se il file ce l'hai sulla piattaforma originale."
"Gli account non sono trasferibili. Non sono trasferibili perché hai accettato che il tuo account non sia trasferibile nel momento stesso in cui l'hai creato."
Una delle critiche più frequenti mosse al sistema dei beni digitali è l'impossibilità di rivenderli. Un CD, un DVD, un libro o un videogioco fisico, una volta terminato o non più desiderato, può essere ceduto, venduto, prestato. Questo non avviene, o avviene con enormi limitazioni, nel mondo digitale, dove la rivendita è spesso esplicitamente vietata dai termini di servizio.
Lo stesso discorso vale per gli account carichi di contenuti: è possibile vendere un account Steam con centinaia di giochi o un profilo di World of Warcraft con personaggi evoluti e oggetti rari accumulati nel tempo? La risposta, nella stragrande maggioranza dei casi, è negativa, o comunque si muove in una zona grigia non supportata ufficialmente.
Permettere la rivendita: un'opportunità mancata per i publisher?
Contrariamente a quanto potrebbero sostenere alcuni esperti, permettere un mercato dell'usato digitale potrebbe non essere così dannoso per i publisher, anzi. Se un utente non desidera più un gioco, impedirgli di rivenderlo non lo obbligherà necessariamente ad acquistarne uno nuovo a prezzo pieno. Potrebbe piuttosto rivolgersi alla pirateria, al mercato grigio, o semplicemente smettere di giocare.
Al contrario, un sistema di rivendita controllato, magari con una piccola commissione per il publisher su ogni transazione, potrebbe:
- Mantenere più viva e ampia la community attorno ai titoli.
- Attrarre nuovi giocatori che, provando un gioco usato, potrebbero diventare futuri acquirenti di nuovi capitoli o contenuti aggiuntivi.
- Contrastare efficacemente il mercato grigio, offrendo un'alternativa legale e sicura.
- Generare una fonte di guadagno aggiuntiva, considerando che il grosso delle vendite avviene al lancio, quando il mercato dell'usato sarebbe naturalmente limitato.
La progressiva perdita di proprietà e la società degli abbonamenti
Questa trasformazione del mercato riflette una più ampia tendenza verso la "società degli abbonamenti", dove l'accesso prevale sul possesso. Che piaccia o meno, il futuro sembra orientato verso una proprietà prevalentemente digitale, con una conseguente riduzione della possibilità di scelta per il consumatore nel momento in cui le alternative fisiche dovessero scomparire del tutto.
"La preoccupazione, se non c'è una un'attenzione generale a queste problematiche... è che la gente comune, non per mancanza di interesse, piano piano si faccia erodere i propri diritti, o partecipi all'erosione dei propri diritti."
"...è un algoritmo che ti suggerisce cosa vedere, che anticipa quello che ti può piacere, e poi basandosi su quei dati istruisce la produzione di altri contenuti esattamente di quel tipo... E a quel punto che fine ha fatto la creatività umana?"
Questa preoccupazione è forse più sentita dalle generazioni che hanno vissuto appieno l'era del possesso fisico. Per i nativi digitali, il dilemma potrebbe non porsi nemmeno, non avendo mai conosciuto l'esperienza di possedere un CD o una musicassetta. Tuttavia, questo cambiamento sistemico non è privo di rischi. Concentrare il controllo dei contenuti nelle mani di poche grandi aziende, che possono decidere prezzi, disponibilità e regole a loro discrezione, solleva legittime preoccupazioni sulla libertà del consumatore e sulla conservazione culturale. Possiamo realmente confidare che tali aziende operino sempre in modo equo e trasparente?
Come sottolinea Gaetano Dimita, il futuro della proprietà intellettuale e del consumo di contenuti digitali è un territorio in continua evoluzione, ricco di sfide e opportunità. È fondamentale che i consumatori siano consapevoli di cosa comporti realmente un "acquisto" digitale e che il dibattito su diritti, tutele e modelli di business rimanga aperto e costruttivo.