Il titolo che ha rivoluzionato la storia dei videogiochi

La storia dei videogiochi è un percorso lungo e ricco di momenti indimenticabili, ma qual è il titolo che ha davvero cambiato le carte in tavola?

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a cura di Michele Pintaudi

Editor

Il mondo dei videogiochi si sa, è bello perché è vario. Sembra una frase fatta e un po’ scontata ma, numeri alla mano, chiunque conosca un minimo questo medium sa che è la pura e semplice verità. Oggi infatti chiunque, ma proprio chiunque può contare su una scelta davvero incredibile in materia di generi, tematiche e storie di praticamente ogni tipologia. Come siamo arrivati a questo punto? Grazie a tante piccole o grandi opere capaci, ognuna a modo suo, di portare qualcosa di realmente rivoluzionario all’interno della concezione di ciò che è il videogioco: capolavori senza tempo ma anche titoli che si sono soltanto affacciati al mercato videoludico, lasciando però un segno indelebile.

Quello che vogliamo fare oggi è molto semplice. Abbiamo fatto a ogni membro della redazione di GameDivision una semplice domanda: «Qual è il titolo che ha rivoluzionato la storia dei videogiochi? E perché?». Il risultato finale è un mosaico ricco di elementi diversi e distinti tra loro, ma che ci aiutano a comprendere quanto il videogioco sia a conti fatti uno dei medium più potenti che siano mai esistiti. Come vedrete alcuni titoli andranno talvolta a ripetersi, a testimonianza di un ulteriore aspetto: esistono molti modi per vivere, godersi e concepire il medesimo gioco. Pronti?

Andrea Riviera - Another World

Se c'è un gioco che merita di essere definitivo rivoluzionario, quello è certamente Another World. Il capolavoro di Éric Chahi è uno dei titoli più pubblicati di sempre (non esiste piattaforma dove non sia uscito), vero e proprio punto di riferimento non solo per i platform adventure, ma anche e soprattutto per le esperienze artistiche e cinematografiche. Si, perché Another World può essere considerata coma una delle prime vere produzioni videoludiche a stampo cinematografico, grazie a scelte registiche importanti e momenti capaci di rimanere nell'immaginario di qualunque giocatore.

Another World raccontava con l'arte, con la musica, con i suoni. Ci immergeva in un mondo alieno affascinante, ricco di mistero e capace di emozionarci, lasciarci senza fiato, facendoci riflettere senza guidarci, ma soprattutto regalandoci una delle storie migliori degli anni '90. L'epopea del giovane fisico Lester Knight Chaykin e la meravigliosa intro con l'indimenticabile Ferrari 288 GTO è una delle cose che non dimenticheremo mai, capace di divenire un vero e proprio cult e dare vita a molte delle avventure che oggi conosciamo.


Fabio Canonico - The Legend of Zelda: Ocarina of Time

Pochi momenti nella storia dei videogiochi hanno la potenza del primo istante nel quale lo sguardo di Link, e quindi quello del giocatore, si staglia sulla piana di Hyrule in The Legend of Zelda: Ocarina of Time. L'avventura del giovane è ancora ai primi passi e si ha per la prima volta la percezione della sua portata: dopo aver completato un importante incarico nel villaggio nel quale è cresciuto, Link si trova per la prima volta all'esterno, un esterno che diventa immediatamente il luogo del viaggio, dell'avventura, dell’impresa.

A comunicarlo è soprattutto la vastità dell'ambientazione, che oggi, al tempo dell'open world più sfrenato, sembra un giardinetto, ma allora era un qualcosa di inaudito, di mai visto prima. Super Mario 64 aveva mostrato con fierezza e pionerismo quanto potesse essere giocosa la ludica anche in un mondo tridimensionale, quanto i tradizionali salti del suo baffuto protagonista potessero essere efficacemente traslati anche in un nuovo contesto, producendo una clamorosa evoluzione. Ocarina of Time, similmente, dava un nuovo luogo, una nuova dimensione, a tutti gli elementi fondamentali della serie: l'esplorazione dell'overworld e dei dungeon, la risoluzione di enigmi ambientali, il combattimento. Tutto è rivoluzionario nel gioco per Nintendo 64, perché tutto è nuovo: non assomiglia a niente di già visto, ma allo stesso tempo è perfettamente e totalmente coerente con l'identità della saga.

Non è un caso se per moltissimi Ocarina of Time è tra i migliori videogiochi di sempre, se non il migliore in assoluto, se è una ineluttabile presenza nei listoni che occasionalmente propongono i vari siti di informazione videoludica. Ci sono altre iterazioni tridimensionali della serie che gli sono superiori, ma nessuno, nemmeno Breath of the Wild, è stato rivoluzionario in una maniera così deflagrante. Nessuno, infatti, ha avuto l'onore e l'onere di essere l'araldo di un passaggio fondamentale nella storia della saga, quello dalle due alle tre dimensioni, secondo canoni, dinamiche e meccaniche che poi furono ripresi da tutta la produzione del genere action adventure, e non.


Massimo Costante - Metal Gear Solid

Che Hideo Kojima fosse un autentico visionario col pallino per la cultura pop, cresciuto appunto a pane, cinema e videogiochi lo abbiamo sempre saputo. Oppure no? Perché in effetti, noi poveri giocatori del Vecchio Continente (ma anche negli U.S.A. non erano messi tanto meglio eh), abbiamo impiegato la bellezza di undici anni per comprendere e assaporare con avidità il genio creativo di Kojima. Abbiamo avuto bisogno di quella chiave di volta che è stato Metal Gear Solid. Infatti, videogiochi con trame degne dei migliori film di fantascienza, come Snatcher e lo stesso Metal Gear, avevano visto la luce su MSX 2 già nella fine degli anni ’80 in Giappone, e poi con una breve capatina anche in Europa grazie a Nintendo.

Ma la genesi della serie di Snake e soci passò assolutamente inosservata, nonostante l’enorme potenziale e il taglio cinematografico che provava con forza a trasudare da quei pochi pixel messi in campo dal NES. Per emergere e far destare i giocatori di tutto il mondo occorrevano maggiori possibilità di espressione. Un po’ come accadde per Grand Theft Auto più tardi su PS2, la serie di Metal Gear ha raggiunto il suo livello di espressione ottimale grazie all’avvento del 3D e quindi di Sony PlayStation, che ha ospitato per prima l’indimenticabile Metal Gear Solid, che non era altri che il terzo episodio della serie in ordine cronologico. Eppure, si tratta dell’autentico inizio della saga per molti videogiocatori, il capitolo che ha segnato “il cambiamento” non solo del franchise di Konami, ma nell’intera storia del videogioco.

Vi state chiedendo perché? Perché avviando il disco di Metal Gear Solid sulla vecchia e cara PlayStation, al tempo, si veniva colpiti dall’intro cinematografica del gioco, che snocciolava autori e produttori del team di Kojima alla stregua di una pellicola su schermo, con delle sequenze in 3D accompagnate da musiche indimenticabili grazie al mix di archi ed elettronica. “È un film o un videogioco?”. “No, signore e signori, questa è arte, la mia arte fatta videogioco” avrebbe potuto rispondere Hideo. Questo tipo di arte è frutto di quella passione di Kojima per la cultura pop, per il cinema e la musica, come detto poc’anzi. Poi, da buon cineasta mancato, Kojima mette in campo storie di fantapolitica, meccaniche da film d’azione da far impallidire il miglior e più famoso agente al servizio di Sua Maestà, il tutto in silenzio in perfetto stile “Stealth”, dando vita appunto a un vero e proprio genere a se stante.

Eppure, andando da Splinter Cell a Hitman, non c’è mai stato nessun franchise di genere in grado di partorire una simile caratterizzazione dei suoi personaggi. Prendendo in considerazione Metal Gear Solid, Solid Snake e Liquid Snake, Revolver Ocelot, Meryl Silverburgh, Sniper Wolf, Psycho Mantis (davvero avete dimenticato come avete sconfitto questo geniale villain? Eppure senza memory card e controller wired sarebbe stato impossiible), Vulcan Raven… ci si rende conto che solo con un universo come quello di Metal Gear e con i successivi capitoli, era possibile sollazzarsi con cotanta bellezza. Personalmente, con le emozioni che riuscì a trasmettermi all’epoca e guardando indietro i passi da gigante fatti nell’industria videoludica, trovo impossibile trovare un esempio tanto rappresentativo come Metal Gear Solid in termini evolutivi.


Andrea Dall’Oglio - Metal Gear Solid

Quando si prova a definire “il videogioco che ha rivoluzionato di più il medium” spesso si va a ricercare un titolo che, oltre al consenso unanime di pubblico e stampa, riesce ad introdurre qualcosa di nuovo - in termini di interazione - all’interno di un mercato ormai saturo. Sebbene Metal Gear Solid rientri assolutamente in quanto sopra descritto, da un punto di vista squisitamente personale fa molto di più; l’opera magna di Hideo Kojima non solo riesce a stupire capitolo dopo capitolo con un gameplay sì fedele alle sue origini ma in continua evoluzione, riesce addirittura a trasmettere un messaggio legato a un’idea che non può che essere considerata altro se non nobile: il desiderio di un mondo privo di conflitti e lo smantellamento totale degli armamenti nucleari.

Ciò lo rende uno dei pochi titoli “antiguerra” capace di far riflettere il giocatore sulle sue azioni, non si verrà mai premiati per aver ucciso qualcuno, nemmeno i boss; il fatto che ci venga data la possibilità di togliere la vita ad un soldato o a un individuo che segue degli ideali diversi dai nostri non ne legittima l’atto. Per citare una famosa saga di film da cui questo gioco prende ispirazione “La licenza di uccidere è anche la licenza di non uccidere”; non a caso Metal Gear Solid nasconde i suoi premi più grandi e “giocosi” dietro a sfide come, ad esempio, effettuare una partita senza uccisioni oppure non farsi mai scoprire dal nemico, tutte “prove” che non prevedono alcun spargimento di sangue.

Hideo Kojima ha raggiunto l’obiettivo di creare una saga che è riuscita a cambiare per sempre non solo il medium, grazie al suo approccio cinematografico e ad un gameplay sempre fluido e divertente, ma anche le persone stesse, facendole riflettere sullo stato del pianeta che abitano.


Giuseppe Licciardi - The Last of Us

Per la maggior parte di noi i titoli che cambiano il media, sono sicuramente quelli più amati. Ognuno di noi ha un'emotività diversa ed essere allineati su di uno stesso pensiero è sicuramente difficile. Eppure ci sono titoli che sono riusciti anche nell'unire la critica e i videogiocatori. Non solo per le storie raccontate ma anche per come i protagonisti di esse sono caratterizzati.

Inutile non pensare a The Last of Us, che nel 2013 ha letteralmente cambiato il modo di vedere i titoli che raccontassero di un apocalisse "zombie". Il paradigma completamente invertito, tante domande e poche risposte. La storia raccontata non parlava di un eroe, ma di persone che si sono trovate in una "nuova normalità". Il mondo come lo conoscevamo è morto definitivamente, non c'è una via di scampo e ora tutto è diverso. La sopravvivenza dell'io è più importante della pluralità e dei gruppi, e non tutti riescono a sopravvivere.

I più deboli scappano, e solo chi è forte di animo riesce a trovare una via di fuga. I protagonisti dell'avventura sono vittime di quello che è accaduto al nostro mondo, il loro viaggio è un epopea di redenzione e cambiamento che porterà a fare delle scelte azzardate che cambieranno le vite di tante altre persone. The Last of Us è tutt'altro che un viaggio speranzoso, nelle sue battute finali riesce a mettere in scena una sequenza di emozioni contrastanti. La narrazione del media dopo la grandezza nella scrittura di questo titolo è profondamente cambiata, se non radicalmente, ha comunque imposto dei nuovi standard, soprattutto per chi ricerca delle storie in cui immergersi completamente.


Marco Padovese - Dark Souls

Capita spesso, anche in campi diversi da quelli che bazzichiamo noi videogiocatori, di scoprire qualcosa di “rivoluzionario” soprattutto se prendiamo in considerazione l’enorme sfera scientifica. Lo scienziato del resto è tenuto a domandarsi come funziona il mondo, e sono proprio quelle domande alla base di ogni ricerca, che creano la scintilla per poter riuscire a raggiungere obiettivi magari prima solo immaginari. Ovviamente essendo una testata videoludica un’apertura del genere può stranire, eppure molte volte si tende a credere che tutto sia già stato scoperto, tutto abbia già una risposta e che bisogna guardare ad altri mondi, dimenticando che anche nel nostro piccolo c’è ancora molto da dire. Tornando a noi, al nostro mondo, il medium videoludico è sicuramente giovane, eppure pare che i generi di cui fanno parte i videogiochi siano stati già tutti classificati, tanto che un prodotto, anche magari totalmente nuovo, dovrà rientrare a forza in una determinata categoria.

Ma sappiamo bene come categorizzare tutto non sia sempre facile (vedi la problematica remake e remastered) e ci sarà sempre modo di poter creare qualcosa di unico e magari sconvolgente seppur partendo da idee neanche troppo originali. Ad oggi parlare di souls like è cosa di tutti i giorni, chi magari naviga un po’ di più in questi lidi e magari ha alle spalle una dignitosa quantità di giochi alle spalle, guarda titoli dalla natura action RPG, con un po’ di esplorazione e notando il proprio avatar fare una deflezione (o più comunemente: parry) esclama a gran voce “è un souls like!!!”. Eppure nel 2009 difficilmente si poteva classificare come originale Demon’s Souls; dopotutto un action RPG medievaleggiante dalla difficoltà così proibitiva era cosa di tutti i giorni, o no?

La nascita e lo sviluppo dei souls like lo abbiamo già trattato quindi non mi dilungo troppo, però va fatta una premessa e magari spiegare un po’ cosa sia Demon’s ma soprattutto cosa sia stato Dark Souls. Se l’esclusiva Sony non riscosse un successo clamoroso all’inizio, riuscì lo stesso a creare nel corso del tempo una folta schiera di fan attratti da quello che pareva essere un gioco old school in un periodo in cui esplose la moda dei QTE (Quick Time Event) e dei giochi “facilitati” per riuscire a raggiungere il trofeo di platino nel minor tempo possibile. Il gioco non era perfetto e presentava molti problemi, oltre che ad uno sviluppo piuttosto travagliato, ma Bandai Namco ne riconobbe il potenziale e riuscì a percepirlo, e come fece decenni prima con la serie di Gundam producendo le famose action figure, puntò su questo brand chiedendo a from software di sviluppare un nuovo capitolo originale che riprendesse la spiritualità di Demon’s Souls.

Project Dark prese dunque forma e se prima doveva chiamarsi Dark Ring, la scelta di tenere un collegamento con il predecessore fu geniale: Dark Souls uscì per PlayStation 3 e Xbox 360 il 22 Settembre 2011 in Giappone e i primi di Ottobre nel resto del mondo e come si suol dire la storia ebbe inizio. La narrazione criptica, il mondo interconnesso, l’atmosfera oscura e la difficoltà brutale pose le basi di quello che divenne un vero e proprio genere e in qualche maniera un movimento, non sempre pacifico e pacato. Si formarono dei gruppi di fan piuttosto estremisti che solo per aver giocato o finito il gioco si atteggiavano a superiori, sminuendo qualsiasi altro titolo reo del fatto di non poter essere degno a confronto di Dark Souls. Le community tendono a estremizzare molto lo spirito originale e diventare un po’ troppo elitarie, ma è proprio sul fronte interattivo che i Souls hanno dato una spinta unica.

Il gameplay online peculiare nel quale è possibile vedere segni lasciati da altri giocatori, le invasioni e le cooperazioni resero i giocatori più uniti e diedero anche il via ad una serie di iniziative per poter scoprire e capire meccaniche o semplicemente la narrativa stessa. La lore è diventata centrale in questi titoli, incrociando un periodo storico in cui la fruizione di internet era più alla portata di tutti, ciò diede il via alla creazione di forum, siti e zone in cui la gente speculava, si aiutava e ingannava tra di loro. Non è un caso che questo genere di gameplay online sia ora stato sdoganato e utilizzato anche in generi molto diversi, il poter invadere i “mondi” degli altri giocatori oppure indurli ad errori o trappole rende un gioco già di per sé piuttosto lungo, molto più rigiocabile. L’anima RPG poi, derivata da predecessori decisamente più altolocati quali gli Elder Scrolls o il famoso gioco di ruolo cartaceo Dungeons and Dragons, dava modo ad ognuno di noi di potersi creare il guerriero che più gli piaceva o poter ricominciare una partita conoscendo già qualche trucchetto per poter procedere più spediti; si riuscì in sintesi a rendere questo titolo quasi un 2 giochi in 1: la prima partita (o run) incentrata sulla esplorazione, sul mistero e con l’ansia e la cattiveria degna di un gioco “impossibile”, mentre la seconda più consapevole in cui magari era possibile esplorare zone che prima non si conosceva gestite al meglio delle proprie risorse.

La difficoltà di un Souls non è e non deve essere mai fine a sé stessa ma deve tradirsi come una spinta a migliorarsi e capire di cosa siamo capaci, un insegnamento che bene o male è presente in molti fattori della nostra vita ma che in campo videoludico si tendeva a dimenticare. Una difficoltà, quindi, che può essere aggirata o affrontata nella maniera che più ci piace, rendendo il gioco ancora più nostro. Sminuire il lavoro di From Software è sbagliato, ma al contempo elogiarlo e basta può indurre ad errore ugualmente, bisogna cercare di trovare un equilibrio, ma consapevoli del fatto che se una piccola società che è in piedi dagli anni '90 è riuscita oggi a essere sulla bocca di tutti, allora forse qualcosa di importante l’avrà pure fatto. Creare un genere da zero è cosa molto difficile e seppur in molti non considerano a tutti gli effetti i souls like un genere, è innegabile che molti elementi tipici di queste opere sono diventate nel tempo icone decisamente distinguibili e riconoscibili.


Marco Patrizi - Castlevania: Symphony of the Night

Ci sono giochi il cui impatto si riconosce subito, capolavori accolti dal clamore unanime di critica e pubblico. E ce ne sono altri, invece, la cui importanza è come una silenziosa onda lunga. Negli anni delle ruggenti produzioni 3D che si susseguivano su PlayStation, Castlevania: Symphony of the Night dimostrò che i giochi in 2D avevano ancora molto da dire, lasciando un’impronta indelebile nel medium.

Ho sempre ammirato come Koji Igarashi, da assistant director, seppe guidare un team di sviluppo che aveva ormai raggiunto una certa maestria nel creare Castlevania "classici", e supervisionare molti dei cambiamenti cruciali che hanno permesso quell’evoluzione che, partendo dalla formula di Super Metroid, diede definitivamente vita al sottogenere che oggi conosciamo come metroidvania. Gli autori di Symphony of the Night sono stati capaci di creare un titolo che combinava in modo perfettamente bilanciato le meccaniche più raffinate dell'era 2D: progressione non lineare, dinamiche platform, combattimenti action ed elementi RPG. Il tutto incorniciato da una realizzazione tecnica eccezionale.

Mentre i giochi tridimensionali potevano vantare l'effetto "cool", l'opulenza della pixel art del nuovo Castlevania mi aveva lasciato affascinato per la qualità dei dettagli e delle animazioni; la maestosa colonna sonora di Michiru Yamane pervadeva il castello di Dracula di un’atmosfera indimenticabile che non dimenticherò mai. Per me Symphony of the Night è il titolo che per eccellenza ha fatto da ponte tra due generazioni, alzando gli standard di come andrebbe realizzato un videogioco.

Ne ho sempre ammirato la sua capacità di aver "sfondato il soffitto" e aver compiuto un'evoluzione così magistrale, oltre al fatto che la sua influenza si è estesa inarrestabile nel medium. Tanto che oggi non solo possiamo goderci i vari Hollow Knight, Ori, Axiom Verge ecc. ma possiamo trovare elementi metroidvania in molti titoli moderni come Control. Symphony of the Night è insomma rimasto un punto di riferimento non solo per Castlevania e per il genere che rappresenta, ma anche in quanto a game design in generale.


Michele Pintaudi - Grand Theft Auto IV

Lo ammetto: la tentazione di parlare di Metal Gear Solid era tanta e fino all'ultimo sono stato parecchio indeciso, anche alla luce di quanto già detto da due miei cari amici nelle righe precedenti. Pensandoci e ripensandoci ho però decido di optare per un altro titolo che, a modo suo e in maniera molto più silenziosa, ritengo abbia davvero rivoluzionato la storia dei videogiochi: sto parlando di Grand Theft Auto IV, a mio parere uno dei capitoli più importanti e certamente più sottovalutati della serie targata Rockstar Games.

Partiamo dalla premessa: a metà degli anni Duemila Rockstar arrivava da una trilogia di videogiochi - GTA III, Vice City e San Andreas - dal successo davvero incredibile, e non solo a livello di vendite. Si trattò infatti di tre prodotti capaci di trascendere la dimensione del "semplice" intrattenimento, portando qualcosa di realmente nuovo nell'industria e nel modo di concepire il medium videoludico. Da questo punto di vista, a essere onesti, potremmo considerare l'intera saga di Grand Theft Auto come una delle più rivoluzionarie del settore. Perché ho scelto il quarto capitolo? Per il fatto che, con la sua uscita nell'aprile 2008, Rockstar Games dimostrò nuovamente e ancora di più un coraggio senza precedenti.

Assestarsi su quanto già costruito sarebbe stato facile, ma GTA IV non fu così. La storia, i personaggi, l'atmosfera: è tutto nuovo e unico e, pur mantenendo intatto lo spirito della serie, riesce a distinguersi da ciò che era venuto prima. Il gioco costruì solide basi anche da un punto di vista tecnico dato che fu il primo titolo a utilizzare il motore RAGE, creato apposta per il quarto capitolo di GTA e da allora continuamente perfezionato per raggiungere ciò che abbiamo visto in Red Dead Redemption 2.

Ritengo da sempre che il quarto capitolo di Grand Theft Auto sia quello più bistrattato, e al quale troppo spesso non vengono riconosciuti i meriti che invece gli appartengono eccome. I tre predecessori sono dei capolavori indiscussi e su questo c'è ben poco da dire, ma l'avventura di Niko Bellic riesce a catturare e a colpire come nessuna delle altre era riuscita prima: volendo estremizzare possiamo quasi definire il gioco come il momento in cui, dopo anni e anni di esperimenti, Rockstar Games è riuscita a creare il perfetto connubio tra l'anima scanzonata di GTA e una sceneggiatura degna di un prodotto di intrattenimento di primo livello.


Lorenzo Quadrini - Super Metroid

Scegliere un gioco fondamentale, imprescindibile, rivoluzionario (e chi più ne ha più ne metta) è un compito quasi impossibile, soprattutto in un panorama come quello videoludico, contraddistinto da un’evoluzione costante ed esponenziale. Vero è, però, che rimane possibile segnalare produzioni con il merito di aver lasciato un segno talmente profondo da non poter essere dimenticate o ignorate. Personalmente ritengo Super Metroid (Super Nintendo, 1994) il titolo per eccellenza all’interno di un articolo corale come questo. Sebbene sia il terzo capitolo di una saga di per sé iconica, Super Metroid introduce dinamiche di gioco e di narrazione talmente tanto potenti da essersi imposte come standard per le produzioni a venire.

Dall’esplorazione libera (fino ad un certo punto ed approfittando di alcuni fisiologici escamotage di design), passando per i numerosi power-up, arrivando all’azione frenetica e incalzante, Super Metroid rappresenta un punto di arrivo nella storia del Super Nintendo, nonché un punto di partenza (assieme a Castlevania: Symphony of the Night) per il genere Metroidvania. Ovvio, si potrebbero passare ore ed ore a parlare di chi ha inventato cosa o di cosa sia davvero un metroidvania, ma personalmente ritengo innegabile che la sublimazione delle dinamiche di questi due titoli particolari rappresenti il vero file rouge di un genere di gameplay incredibilmente fortunato e variegato. L’importanza del titolo quindi va oltre la mera esperienza dell’epoca, ma arriva ai giorni nostri, imponendosi soprattutto nel panorama indipendente, che deve tantissimo in termini di game design a Super Metroid ed al suo approccio capace di offrire da un lato un’esperienza di gioco piena, dall’altro dinamiche di sviluppo abbordabili anche senza budget milionari (chiaro, sto semplificando per questioni di chiarezza un processo creativo comunque molto complesso, budget o non budget).

Ma il peso storico del videogioco è solo una parte dell’incredibile potenza di Super Metroid. Abbiamo davanti infatti un vero highlander del medium, un gioco capace di appassionare ancora oggi, senza soffrire che di poche ed insignificanti rughe (quasi tutte inerenti ad una UI certo datata e a delle mancanze naturali legate all’aspetto grafico). Aspetto grafico comunque talmente tanto curato nel dettaglio (e coerente con la narrazione ed il gameplay) da rimanere comunque di grande impatto, superate alcune resistenze iniziali che potrebbero sperimentare soprattutto i più giovani tra i gamer. Metroid Dread d’altronde è un prosieguo naturale più di Super Metroid che di Metroid Fusion (anche lui comunque encomiabile), a dimostrazione dell’impatto incredibile ed eternamente giovane del titolo all’interno del panorama videoludico globale.


Pietro Spina - Wii Sports

A cavallo tra la fine dell’era Yamauchi e la gestione del mai abbastanza compianto Satoru Iwata, Nintendo provò con successo a trasformare il mondo del gaming grazie all’introduzione di nuovi modi di concepire il rapporto uomo-macchina. La prima grande rivoluzione avvenne nel 2004 grazie alla “Touch Generation” di Nintendo DS, ma il colpo definitivo alle convenzioni fu assestato con l’arrivo di Nintendo Wii e il suo rivoluzionario telecomando.

In un settore in cui i competitor facevano a spallate per dimostrare chi fosse fautore del più cospicuo avanzamento tecnico, Nintendo decise di presentarsi con un hardware che faceva dell’accessibilità il suo punto di forza. Il software simbolo di questo cambiamento fu Wii Sports, vero e proprio showcase per le potenzialità di controller motion che venne inserito in ogni SKU di Nintendo Wii.

Preciso quanto bastasse per entusiasmare e coinvolgere chiunque, il nuovo sistema di controllo basato su giroscopi e accelerometri offriva sfide capaci di mettere sullo stesso piano ragazzi, genitori, zii, nonni e qualsivoglia partecipante occasionale - giusto il tempo di spiegare come l’obiettivo non fosse centrare il nuovo TV LCD con il WiiMote e di conseguenza costringere tutti a mettere il laccetto al polso.

Wii Sports poteva essere limitato nei contenuti, avendo dalla sua solo 5 discipline (Tennis, Golf, Boxe, Bowling e Baseball) ma offriva una freschezza dirompente che trasportò Wii in una dimensione del tutto inattesa, ritagliandosi un importante spazio nella pop culture e aprendo la rotta ad un enorme “oceano blu” ricco di potenziale utenza. Potremmo dire che Matt ed Elisa, i Mii campioni di Wii Sports, furono da soli capaci forzare Sony e Microsoft ad esplorare questo nuovo mondo, costringendoli a investire nei controlli di movimento con risultati neanche lontanamente paragonabile a quelli ottenuti da Nintendo.

Con il lancio del Wii MotionPlus (e in seguito del telecomando Wii Plus) venne anche realizzato un sequel, che portò a 12 le discipline totali e aumentò sensibilmente la precisione dei controlli. Wii Sports Resort fu un trionfo di vendite, riuscendo a piazzare 33.14 milioni di copie nel mondo. Forse il videogioco non è davvero cambiato grazie a questo buffo software, come la stessa Nintendo ha dimostrato decentralizzando i controlli di movimento dalla propria offerta, ma ilsegno lasciato nei ricordi della gente e sui portafogli dei competitor rimarrà in eterno a testimonianza del suo incredibile successo.


Abbiamo visto come una domanda così “semplice” si presti a risposte molto diverse tra loro, e come l’elemento legato alla soggettività sia una componente predominante per ogni videogiocatore coinvolto. Del resto ricordate la frase con cui è iniziato questo articolo? La parola passa ora a voi: indicateci nei commenti quella che per voi è la risposta a questa domanda, raccontandoci la vostra esperienza con quello che considerate il titolo più importante nella storia dei videogiochi.

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