Ricerca scientifica in Italia, un miracolo con pochi fondi

Lo stato della ricerca scientifica italiana, a corto di fondi ma fra le migliori nell'Unione Europea. Il commento del Rettore dell'Università degli Studi dell'Insubria, professor Alberto Coen Porisini.

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a cura di Elena Re Garbagnati

La ricerca scientifica dovrebbe essere un interesse anche finanziario per il Paese. Perché come abbiamo avuto modo di sottolineare più volte gli investimenti della ricerca si convertono in un indotto fortemente positivo per il sistema scientifico del Paese. Nonostante questo la ricerca scientifica italiana soffre della perenne carenza di finanziamenti, come emerso anche ieri dal convegno tenutosi a Roma, organizzato dalla Consulta dei Presidenti degli Enti Pubblici di Ricerca e dalla CRUI-Conferenza dei Rettori delle Università Italiane.

Invece di snocciolare dati poco indicativi per chi non è addentro a questo sistema complesso e poco organico vi proponiamo alcune chiavi di riflessione insieme al Magnifico Rettore dell'Università degli Studi dell'Insubria, professor Alberto Coen Porisini.

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Foto: © alexraths / Depositphotos

Gli esempi che dimostrano come gli investimenti nella ricerca scientifica si convertano in utili altissimi per il Paese sono molti. A titolo indicativo: Nicolò D'Amico, Presidente dell'INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica) ci aveva spiegato che gli investimenti italiani nell'astronomia "generano un ritorno industriale pauroso [...] negli ultimi 10-15 anni c'è stato un ritorno per l'industria nazionale che lavora in sinergia con noi (per la costruzione di telescopi, specchi, tecnologie) nell'ordine di 800 milioni di euro".

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Giovanni Bignami, ex Presidente dell'Agenzia Spaziale Italiana, aggiunge che in Europa per ogni dollaro investito nel settore Spazio (compresa la ISS per esempio) ne tornano fra 3 e 4, il che significa che lo Spazio è un ottimo investimento.

Nonostante questo l'Italia investe meno di altri Paesi in Ricerca e Sviluppo (1,33% del PIL nel 2015 contro una media europea pari a 2,03% - Fonte EUROSTAT) e ha un numero inferiore di ricercatori rapportato alla popolazione (nel 2015 la percentuale dei ricercatori ogni mille occupati in Italia era pari al 4,73% contro una media europea del 7,40% - Fonte OECD).

Cos'è quindi che non va?

tizio JPG"Questa è una bella domanda. Forse perché il concetto di investimento in questo paese fa un po' di fatica a passare. Perché l'investimento nella ricerca è qualcosa che non ha un ritorno immediato, lo dà più avanti nel tempo. Non è un caso che i Paesi che stanno uscendo e sono usciti dalla crisi siano quelli che hanno più investito in ricerca e sviluppo. In Italia purtroppo si pensa ancora che la competizione vada fatta sul costo del lavoro, dove invece la battaglia è persa perché non potremo mai competere con Paesi che hanno situazioni socio economiche diverse dalle nostre. La competizione da noi va fatta sulla tecnologia e sulla qualità, e questo richiede ricerca e sviluppo, non si scappa.

Poi la ricerca deve essere fatta a 360 gradi, da quella di base a quella applicata, a quella industriale: il mondo della ricerca ha bisogno di tutte queste componenti, non si può eliminarne una.

Quello che è accaduto in Italia, che è la cosa preoccupante, è che ci siamo persi delle generazioni. Nelle università ci sono persone dai 40 - 50 anni in su. I trentenni li abbiamo preparati e se ne sono andati, quindi non ci stiamo preparando per il domani. In questo momento il sistema universitario italiano prepara giovani ricercatori per il resto del mondo. Non li teniamo da noi perché non ci sono le risorse, perché tenerli significherebbe investire su noi stessi e non siamo in grado di farlo. La scelta è fra tenere aperte le strutture o fare degli investimenti, ma fare gli investimenti significherebbe chiudere le strutture"

Qual è il discostamento fra quello che sarebbe almeno indispensabile e quello che arriva?

tizio JPG"Gli specialisti non ci mancano, così come gli scienziati di altissima caratura - e lo dimostra il fatto che molti se ne vanno all'estero, altri restano e ci permettono (nonostante tutto) di mettere a segno un risultato eccellente: se andiamo a vedere il posizionamento internazionale del BelPaese in termini di performance della ricerca pubblica, emerge che la quota sul totale della produzione scientifica italiana delle pubblicazioni su riviste eccellenti (presenti nella top 5% internazionale in base al fattore di impatto) è superiore alla media mondiale (Fonte Report ANVUR 2016)".

Il professor Porisini fa notare che "qualcuno parla anche di paradosso italiano, nel senso che il sistema della ricerca italiana è decisamente sotto finanziato rispetto agli altri paesi. Questo è dovuto a due fattori:  da un lato c'è un finanziamento pubblico che è molto basso rispetto agli altre nazioni con cui vogliamo confrontarci. Se guardiamo verso l'Europa del Nord (Svezia e Finlandia) c'è da spaventarsi, ma anche se si guardano i Paesi emergenti. La percentuale di investimento sul PIL arriva a 3-4 volte quella italiana. Mediamente la nostra è un po' meno della metà di quella di altre realtà.

 In secondo luogo dal punto di vista privato, il tipo di tessuto produttivo che c'è in Italia - costituito da tante aziende piccole e piccolissime - rende più difficili investimenti in ricerca, tranne i settori di nicchia più competitivi.  Il risultato è che le risorse a disposizione per ricerca e sviluppo in questo Paese sono molto basse.

Nonostante questo l'impatto della produzione scientifica italiana risulta significativamente superiore alla media europea.  Dati di qualche anno fa riferiti agli investimenti sul mondo delle università - che in Italia sono una delle principali sedi di ricerca -  ci posizionano al 32mo posto sui 37 Paesi OCSE"

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Nella vostra esperienza di ateneo che forma giovani scienziati, quali sono le percentuali di chi emigra e di chi resta?

tizio JPG"Ci sono dei fattori locali, come nel nostro caso la vicinanza della Svizzera, che porta un discreto numero di nostri laureati ad andare a lavorare lì, soprattutto nelle professioni sanitarie. Il mondo della ricerca è sostanzialmente rappresentato dai ragazzi che mirano a proseguire il dottorato di ricerca, e quelli che restano, che riusciamo a trattenere, sono a spanne neanche il 10 percento, considerati anche gli scambi universitari. C'è un evidente problema di prospettiva: ai miei tempi si andava a fare esperienza all'estero con la prospettiva di tornare, oggi è diverso. Alcuni vanno a lavorare nelle aziende e questo va benissimo, chi vuole provare a fare il bellissimo lavoro del ricercatore deve avere chiaro che ha davanti anni di incertezza".

Sempre dalla relazione ufficiale dell'evento di ieri si apprende che nel periodo 2011-2014 l'impatto della produzione italiana risulta superiore alla media dell'Unione Europea. Non solo: l'Italia è posizionata poco sotto agli Stati Uniti per impatto medio, ma con valori molto superiori per quota di pubblicazioni su riviste di eccellenza. In sintesi, se si guarda alla qualità della produzione scientifica italiana, essa risulta elevata in rapporto alla spesa pubblica e privata in ricerca.

Il fatto è che siamo bravi ad arrangiarci con il poco che abbiamo. Quei pochi investimenti in ricerca che lo stato veicola sugli Enti e sulle Università italiane hanno un immediato effetto moltiplicatore grazie alla capacità di acquisire risorse europee e da Agenzie internazionali, oltre che da privati. Resta però il fatto che tutti i finanziamenti dello Stato vengono spesi fino all'ultimo euro e spesso non consentono neppure di coprire interamente i costi di funzionamento degli Enti e degli Atenei.

Il professore Porisini conferma: "Se non ci fosse la contribuzione studentesca saremmo tutti chiusi. Con le risorse pubbliche arriviamo forse a pagare gli stipendi del personale di ruolo. Le bollette della luce, la pulizia delle aule e gli altri servizi sono pagati con altre risorse. E soprattutto non c'è la possibilità di crescere. Il nostro ateneo ha i conti in ordine, però ci sono i vincoli quindi le risorse che abbiamo non possiamo investirle in capitale umano perché non possiamo assumere (c'è il blocco del turnover), questo significa che man mano che le persone vanno in pensione la sostituzione è solo parziale e siamo sempre di meno".

A parte il dato presentato a Roma, qual è la realtà da parte di chi la vive ogni giorno, e cosa servirebbe?

tizio JPG"Per iniziare a dare un po' di ossigeno al sistema basterebbe probabilmente aumentare gli investimenti del 15-20 percento rispetto a quelli odierni, ossia riportarli al livello di qualche anno fa. Sarebbe un risultato molto significativo".

Il Presidente del CNR Massimo Inguscio, promette "proposte concrete per un miglior funzionamento della ricerca pubblica italiana, dalla valutazione al reclutamento".

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Lei cosa vorrebbe?

tizio JPG"Ogni tanto i nostri governanti si inventano i piani straordinari: non risolvono il problema perché tamponano la situazione lasciando intatte le carenze. La realtà è che è sbagliato questo approccio: non ci vogliono piani straordinari, serve una situazione di normalità, che si avrebbe mettendo un po' più di benzina nel motore (il famoso 15-20% in più).  L'Italia investe sul sistema universitario poco meno di 7 miliardi di euro all'anno, a fronte del doppio o del triplo che investono in Francia, in Germania. E parliamo di percentuali - se guardassimo il valore assoluto sarebbe altro che doppio o triplo.  Il sistema per stare in piedi avrebbe bisogno di 8 o 9 miliardi di euro, non di stanziamenti straordinari una tantum.

Poi ci sarebbe una semplice riforma da fare: togliere le università dalle pubbliche amministrazioni. Non privatizzarle (cosa a cui sono contrarissimo), ma togliere le università dalle regole delle PA, che sono folli. Per fare un esempio, io ho il tetto di spesa sul mobilio, non posso comprare le sedie per i laboratori. Devo acquistare i reagenti da laboratorio dalla Consip, da fornitori diversi, rischiando di inficiare i risultati degli esperimenti perché non è detto che i reagenti siano del tutto identici e comparabili. Fino allo scorso anno c'era un tetto di spesa che impediva di fare formazione ai dipendenti. Tutto questo rende l'università tremendamente inefficiente. Bisognerebbe semplificare e chieder conto di come si usano le risorse.

Nonostante gli investimenti restiamo ai primi posti nel mondo come qualità e quantità di produzione scientifica (più per qualità che per quantità), il che indica che le risorse non vengono sprecate, anzi vengono sfruttate il più possibile. Il problema è che se non permettiamo ai giovani  di entrare stabilmente nel mondo della ricerca, li formiamo a beneficio degli altri Paesi, dove non hanno difficoltà a trovare impiego e dove contribuiranno alla crescita.  

Le riforme, che periodicamente vengono fatte, non centrano il problema di un mondo che ai più è sconosciuto e poco capito. Quello che serve quindi non è una riforma o un provvedimento temporaneo, ma le risorse. Il mio slogan è 'non servono riforme, servono risorse', due parole abbastanza simili per assonanza, ma con un significato ben diverso".