Tutti i siti italiani di informazione sono a rischio censura

Le sezioni Piemonte e Toscana di Indymedia sono state oscurate perché contenevano presunti documenti diffamanti conto la multinazionale Coe Clerici. Ancora una volta i giudici hanno preferito censurare gli interi siti invece che procedere con rogatoria internazionale.

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a cura di Dario D'Elia

L'oscuramento online delle sezioni Piemonte e Toscana di Indymedia, la rete di informazione indipendente nata da una costola dei no-global, mette a rischio la libertà di espressione. Ancora una volta la mancanza di una normativa adeguata consente a presunti diffamati di far chiudere interi siti web. È il caso della multinazionale Coe Clerici, specialista nel trading delle materie prime e della logistica portuale, che a giugno ha querelato un redattore di Indymedia e ottenuto il sequestro di intere sezioni del rispettivo portale - nello specifico Toscana e Piemonte - a causa di 4 articoli diffamanti pubblicati fra il 2008 e oggi.

In pratica il Giudice delle indagini preliminari di Milano, il 13 giugno, ha chiesto a tutti provider italiani di procedere con l'oscuramento, considerata anche la diffusione di materiale riservato. Gli articoli di Indymedia infatti mostrano fax interni dell'azienda e altro materiale.

Censura preventiva

Ora, la questione di fondo è che nessuno si è mai interessato alle pubblicazioni fino a quando alcune testate nazionali hanno iniziato a riportare qualche dettaglio sulla vicenda. Coe Clerici ha reagito immediatamente, ma forse non si aspettava di ottenere come effetto collaterale il ricorso dell'associazione Assoprovider e il provider Cwnet. "Se il tribunale ci darà ragione, andremo alla Corte di Giustizia UE, insieme con Aiip, l'altra associazione provider, e Alcei, la storica associazione per le libertà digitale", ha spiegato l'avvocato Fulvio Sarzana, che si sta occupando del caso.

Il problema è chiaro a tutti: gli oscuramenti violano i diritti costituzionali del cittadino, ancor di più se motivati con l'accusa di diffamazione. "È una minaccia alla libertà d'espressione - tra l'altro Indymedia aveva concesso a Coe Clerici il diritto di replica", ha spiegato Sarzana. Insomma, una volta concesso spazio al presunto diffamato (manca la sentenza) e considerato che i provider non possono oscurare i singoli articoli ma devono agire sull'intero sito o dominio, è evidente che qualcosa nel meccanismo non funzioni".

"Questo episodio è l'ennesima dimostrazione che quando c'è di mezzo Internet, leggi, regolamenti e provvedimenti giudiziari in Italia sono presi a prescindere da una effettiva conoscenza delle tecnologie", ha aggiunto Paolo Nuti, presidente di Aiip (Associazione Italiana Internet Provider). "I problemi di ordine pubblico in rete, si possono risolvere esclusivamente alla fonte, anche quando il sito è all'estero e non attraverso il cosiddetto oscuramento, vera e propria una benda sugli occhi del cittadino che va ben oltre la censura".

La soluzione sarebbe quella di affidarsi o potenziare la rogatoria internazionale online, in modo da poter togliere i contenuti illegali dai server esteri, invece che oscurare siti. Quindi di fatto intervenendo sul contenuto incriminato, ovunque esso si trovi e non impedendo a terzi di raggiungerlo. "Siamo diventati il laboratorio europeo per il blocco dei siti, per quanti ne facciamo", sostiene Sarzana.

"A partire dal caso di The Pirate Bay si sono succeduti a raffica gli oscuramenti mascherati da sequestri preventivi di risorse di rete localizzate al di fuori dell'Italia", ha aggiunto Andrea Monti, avvocato esperto di diritti digitali e presidente di Alcei. "Si tratta di provvedimenti illegittimi e contrari alla convenzione europea sul cybercrime, ratificata nel 2008 anche dall'Italia. Oscurare un sito impedendo agli utenti di raggiungerlo non è un sequestro ma una forma di intercettazione che nelle sue versioni più estreme può giungere addirittura al filtraggio del traffico".