Video-insulti a un disabile: Google in Appello a Milano

Il 21 dicembre è prevista la sentenza della Corte di Appello di Milano sul caso Vivi Down. A distanza di 6 anni dai fatti la difesa indica nella professoressa dell'istituto l'unica responsabile dell'omesso controllo sugli studenti.

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a cura di Dario D'Elia

Il caso Vivi Down è nuovamente protagonista nel Tribunale di Milano con l'atteso processo di Appello. Come molti ricorderanno si tratta di una vicenda che risale al 2006, quando venne pubblicato, prima su Google Video e poi su YouTube, il filmato di un ragazzo disabile insultato e vessato dai compagni di classe. Nel 2010 i tre manager di Google che ai tempi avevano responsabilità dirette nel servizio Video vennero condannati a sei mesi di reclusione (con il beneficio della sospensione) per violazione della legge sulla privacy.

Adesso con l'Appello i legali della difesa tirano nuovamente in ballo il tema delle responsabilità. "Se c’era un obbligo di controllo sui ragazzini che filmavano un loro compagno disabile, questo doveva essere esercitato dalla professoressa presente in classe e non da Google che poi ha caricato le immagini", ha ribadito ieri nell'arringa l'avvocato Giuseppe Vaciago. "Non esiste nell’ordinamento italiano un obbligo per Google di controllare il contenuto dei video. La professoressa non ha mosso un dito mentre i ragazzi filmavano, ha guardato impassibile una scena riprovevole. A differenza nostra che non avevamo un obbligo giuridico di controllo, lei ce l’aveva".

Tribunale di Milano

Google sostiene fin dal 2006 di aver rimosso il video a distanza di due ore dalla segnalazione della Polizia Postale. Dettaglio per altro confermato dal giudice di Primo Grado che però, come ha spiegato l'avvocato Giulia Bongiorno, "non se l’è sentita di assolvere e ha parlato di un obbligo di controllo". Insomma, tutta la vicenda è stata probabilmente condizionata dalle lacune del nostro ordinamento, dal clamore del caso sui giornali e dal dibattito sul controllo preventivo sui video. Prova ne sia che a Google è stata imputata una carenza di informazione sul trattamento dei dati personali. Nella sentenza si leggeva che Google Italia "trattava i dati contenuti nel video scaricati sulla piattaforma e ne era responsabile quindi perlomeno ai fini della legge sulla privacy".

"In parole semplici la scritta sul muro non costituisce reato per il proprietario del muro. Ma il suo sfruttamento commerciale può esserlo, in determinati casi e determinate circostanze", aveva  spiegato il Giudice di Milano Oscar Magi.

"Quello che manca in questo processo è la chiarezza, vi chiedo di contestualizzare il codice della privacy nella normativa europea. Non è vero che siamo in una prateria senza obblighi in questo settore", ha concluso l'avvocato Buongiorno, chiedendo infine l'assoluzione per i tre imputati.

Non resta che attendere la sentenza prevista per il 21 dicembre.