C’è un fattore determinante che ha fatto nascere un odio, da parte di molti, verso le auto elettriche. Non si tratta della componente ecologica, né del prezzo, e in realtà nemmeno dell’autonomia, ma della velocità di ricarica.
Perché certo per molti pesano anche gli altri fattori menzionati, per alcuni manca anche il “piacere” acustico del motore, ma è indubbio che se oggi si potesse ricaricare la batteria in pochi minuti, un tempo paragonabile a quello necessario per un rifornimento di carburante tradizionale, molte più persone accetterebbero la mobilità elettrica, che si diffonderebbe molto più velocemente.
Non per niente la maggior parte delle novità riguardo queste vetture, e la differenza che stanno marcando i vari brand cinesi, riguarda la velocità di ricarica delle batterie.
Cerchiamo di capire quanto è lontano il momento in cui potremo ricaricare la batteria di un’auto elettrica nello stesso tempo in cui oggi si fa il pieno di benzina, e quali sono tutte le sfide e i problemi legati a questo argomento.
Come è fatta una batteria di un’auto elettrica?
Per comprendere davvero come funziona la ricarica, e soprattutto perché ricaricare in fretta è così complicato, bisogna partire dalla batteria. O meglio, dal pacco batteria, perché non si tratta di un unico grande elemento, ma di un sistema complesso composto da centinaia o migliaia di celle collegate tra loro, controllate da un’elettronica di gestione che ha il compito di proteggerle, monitorarle, bilanciarle e, in alcuni casi, perfino raffreddarle o riscaldarle.
La base di partenza è la cella, che è l’unità più piccola del sistema. Ogni cella funziona in modo molto simile a una pila ricaricabile, ed è composta da due elettrodi, un catodo e un anodo, immersi in un elettrolita che consente agli ioni di litio di muoversi da una parte all’altra. Quando l’auto è in marcia, gli ioni si spostano dall’anodo verso il catodo, generando elettricità. Durante la ricarica, accade l’opposto: gli ioni tornano indietro, rientrano nell’anodo e si accumulano lì sotto forma di energia chimica.
A livello strutturale, queste celle vengono assemblate in moduli, e i moduli a loro volta compongono il battery pack vero e proprio. La disposizione cambia da costruttore a costruttore, ma oggi la tendenza è quella di usare architetture “cell-to-pack” o addirittura “cell-to-body”, cioè sistemi in cui le celle sono inserite direttamente nella scocca o nel telaio dell’auto, riducendo peso, migliorando la densità energetica e ottimizzando il raffreddamento.
Non tutte le celle sono uguali: la tecnologia più diffusa oggi nelle auto elettriche è quella agli ioni di litio, ma sotto questo nome si nascondono diverse varianti chimiche. Le più comuni sono le NMC (Nichel-Manganese-Cobalto), che offrono un buon equilibrio tra capacità, potenza e durata, ma richiedono una gestione termica molto attenta. Ci sono poi le LFP (Litio-Ferro-Fosfato), che sono meno dense dal punto di vista energetico, ma più stabili e resistenti, il che le rende ideali per le ricariche frequenti e per mercati come quello cinese, dove infatti sono molto diffuse. In alcuni casi, come sulle Tesla Model 3 Standard prodotte a Shanghai o sulle BYD, le batterie LFP permettono di ricaricare fino al 100% tutti i giorni, proprio per la loro maggiore robustezza chimica.
All’interno del pacco batteria troviamo un altro componente fondamentale: il BMS, acronimo di Battery Management System. Questo sistema elettronico è una sorta di cervello che controlla costantemente lo stato di ogni cella, ne verifica la temperatura, la tensione, la carica residua e la salute generale. È il BMS a decidere quanta potenza si può erogare o ricevere in ogni istante, quanto bisogna rallentare la ricarica per non surriscaldare il pacco, o se serve attivare il sistema di raffreddamento. Senza un buon BMS, la batteria durerebbe pochissimo.
Proprio per via della sensibilità di questi materiali, è fondamentale anche il sistema di gestione termica. Quando si carica una batteria ad alta potenza, buona parte dell’energia in ingresso viene dispersa sotto forma di calore. Se non si raffredda in fretta, le celle rischiano di deteriorarsi o addirittura di innescare una reazione termica pericolosa. Ecco perché molte auto, soprattutto quelle progettate per la ricarica veloce, integrano circuiti di raffreddamento a liquido che mantengono la temperatura entro limiti di sicurezza. In alcuni casi, come nelle Porsche Taycan, ci sono addirittura sistemi a doppio circuito per gestire in modo indipendente la temperatura delle batterie e dell’elettronica di potenza.
Infine, è importante capire un concetto chiave: la capacità nominale di una batteria, espressa in kWh, non è tutto. Due auto con batterie da 77 kWh potrebbero comportarsi in modo completamente diverso in termini di autonomia, prestazioni e velocità di ricarica. Questo perché conta la tensione operativa, la corrente massima accettabile, la gestione del calore, ma anche la percentuale effettivamente utilizzabile della batteria, che spesso viene limitata dal software per preservare la durata nel tempo. Alcune case, infatti, lasciano un margine di sicurezza che l’utente non può utilizzare (la cosiddetta “buffer zone”), e questo impatta direttamente sui tempi di ricarica dichiarati e reali.
Abbiamo quindi a che fare con un sistema complesso, non una semplice “batteria” come quella che abbiamo nello smartphone. Ogni sua parte, dalla chimica alla gestione elettronica, dal raffreddamento alla forma delle celle, ha un impatto diretto su quanto sarà veloce, sicura e sostenibile la ricarica.
Cosa succede durante la ricarica?
Dal nostro punto di vista ricaricare l’auto significa solo collegare il cavo alla corrente. Quando lo facciamo diamo inizio a un processo fisico e chimico complesso, regolato da leggi precise e da una serie di limiti strutturali che non si possono aggirare aumentando semplicemente la potenza.
Per prima cosa, bisogna distinguere tra corrente alternata (AC) e corrente continua (DC). Le colonnine domestiche o da parcheggio pubblico in genere forniscono corrente alternata, che deve essere poi convertita in corrente continua attraverso l’inverter di bordo dell’auto, che ha una potenza massima limitata. Le colonnine ultraveloci, invece, forniscono direttamente corrente continua, bypassando l’inverter interno e consentendo di immettere energia molto più rapidamente, a patto che la batteria sia in grado di accettarla.
In questo processo, gli ioni di litio, che durante la scarica si erano mossi dall’anodo al catodo, ritornano nel verso opposto. Passano attraverso l’elettrolita e vanno a depositarsi nuovamente tra gli strati di grafite dell’anodo, pronti per essere liberati di nuovo quando servirà energia. A muovere questi ioni è la differenza di potenziale elettrico, cioè la tensione applicata ai capi della cella. Più è alta questa tensione, più gli ioni si muovono rapidamente. Tuttavia, questo movimento non è privo di effetti collaterali. Più veloce è il flusso di ioni, più calore si genera per effetto Joule, e più aumenta il rischio che gli ioni non si “inseriscano correttamente nella struttura dell’anodo”.
È un po’ come se cercassimo di infilare sabbia in un tubo molto stretto usando un getto d’aria troppo potente: una parte della sabbia potrebbe rimbalzare o incastrarsi male. Nel caso delle batterie, questo significa degradazione precoce o formazione di depositi indesiderati, come il temuto litio metallico, che può danneggiare irreversibilmente le celle. Per questo motivo, la ricarica non è mai uniforme.
Chi ha osservato una curva di ricarica reale lo sa: all’inizio la potenza può salire molto rapidamente, ma dopo una certa soglia tende a calare progressivamente. Questo comportamento è gestito dal BMS, che in base allo stato di carica (il cosiddetto State of Charge, o SoC), regola la quantità di corrente immessa nella batteria. La fase iniziale, da 0% a circa 30%, è quella in cui si può spingere di più. Tra il 30% e l’80% si inizia a rallentare, mentre oltre l’80% l’ingresso di energia si fa molto più lento. Questo perché man mano che l’anodo si riempie, diventa sempre più difficile “trovare spazio” dove sistemare gli ioni in arrivo, e aumentano i rischi di danneggiamento per sovraccarico o surriscaldamento.
Oltre a questo effetto “meccanico” interno alla cella, c’è un secondo fattore determinante: la temperatura. Le batterie agli ioni di litio funzionano in un intervallo termico piuttosto ristretto, che idealmente va dai 20 ai 40 gradi centigradi. Se la temperatura è troppo bassa, gli ioni si muovono con difficoltà e il rischio di depositi metallici aumenta. Se è troppo alta, i materiali interni si degradano più rapidamente e la resistenza interna cresce. Ecco perché molti veicoli, prima di una ricarica rapida, attivano un sistema di “pre-conditioning”, ovvero riscaldano o raffreddano la batteria per portarla alla temperatura ottimale. Lo fanno automaticamente, spesso in comunicazione con il navigatore, che sa quando si sta per arrivare a una stazione di ricarica.Il tutto avviene in una manciata di minuti o in un’ora, a seconda della potenza disponibile, ma anche della capacità della batteria e della sua tecnologia interna. Perché non basta avere una colonnina da 350 kW per ottenere davvero una ricarica a 350 kW. Serve che la batteria possa reggere quella potenza, che sia raffreddata in modo adeguato, e che il cablaggio, la rete elettrica, la centralina dell’auto e il software siano progettati per lavorare a quei livelli senza compromettere la sicurezza.
In molti casi, la potenza di ricarica dichiarata dal costruttore è un valore di picco teorico raggiungibile solo in condizioni ideali: batteria quasi scarica, temperatura perfetta, colonnina adeguata e nessun altro veicolo in carica nei paraggi nel caso si potenza condivisa.
Il dettaglio tecnico
Per comprendere in profondità i limiti della ricarica rapida in una batteria agli ioni di litio, bisogna guardare dentro le celle e considerare i fenomeni fisici e chimici che regolano il comportamento degli ioni e degli elettroni. Il vero collo di bottiglia non è la disponibilità di energia elettrica, ma la cinetica elettrochimica che governa l’intercalazione degli ioni litio negli elettrodi.
Durante la ricarica, la corrente in ingresso al pacco batteria induce il movimento degli ioni di litio dal catodo all’anodo attraverso l’elettrolita, mentre gli elettroni scorrono nel circuito esterno fino ad arrivare anch’essi all’anodo. Qui, entrambi devono inserirsi nei siti interstiziali della struttura cristallina dell’anodo, attraverso un processo appunto chiamato intercalazione.
Questo processo ha tre principali colli di bottiglia:
1 - La Diffusione degli ioni nella parte interna di ogni particella dell’elettrodo, cioè gli ioni devono attraversare lo spessore della particella di grafite per raggiungere i siti in cui si posizioneranno e rimarranno. Questa diffusione segue una legge di Fick e ha un coefficiente che dipende fortemente dalla temperatura e da come è fatto il materiale.
2 - Limitazioni da trasporto ionico nell’elettrolita: il nostro elettrolita non può far passare attraverso tutti gli ioni che vuole, diciamo che è come un tubo la cui capacità è finita, quindi quando si aumenta la corrente, per velocizzare la ricarica, si raggiunge un limite che crea uno squilibrio. Immaginatelo come una sorta di ingorgo in autostrada, e ciò porta quindi a una perdita di efficienza e un riscaldamento maggiore, limitando il potenziale di ricarica veloce.
3 - Resistenza di trasferimento di carica all’interfaccia elettrodo elettrolita: con interfaccia “elettrodo/elettrolita” s’intende proprio quello spazio di contatto che c’è tra l’elettrolita e l’elettrodo, nel nostro caso l’anodo perché è li che tutti gli ioni di litio vanno quando si ricarica. La “resistenza di trasferimento di carica” è l’energia che lo ione deve avere per entrare nell’anodo, cioè la molecola deve vincere una certa resistenza, una barriera, per entrare nel materiale in cui si deposita. Qui entra in gioco un fenomeno descritto dal modello di Butler-Volmer, che in parole povere dice che più corrente cerchi di far passare, cioè più ricarichi in fretta, più devi “spingere” per far si che gli ioni completino il loro viaggio. Questa maggiore spinta richiede una sovratensione, quindi un extra di tensione per completare il viaggio. E il problema è che non si tratta di una sovratensione lineare, ma esponenziale, quindi più si vuole ricaricare più velocemente, molta, molta più energia serve per combattere questo fenomeno fisico, e si arriva al punto in cui tutto il sistema diventa inefficiente, perché non solo una parte di quell’energia in più non finisce nella batteria, ma viene dissipata sotto forma di calore, che come abbiamo visto è un grave problema e una limitazione. Immaginate di dover spingere un masso su una salita, più la salita si fa ripida, più forza dovrete metterci per spingere quel masso.
Un ulteriore effetto collaterale, come se tutto ciò non bastasse, è la cosiddetta placcatura del litio. Questo fenomeno accade quando gli ioni di litio non riescono più a intercalarsi nella grafite ma iniziano a depositarsi sotto forma di metallo, formando strati di litio solido sulla superficie. Questo fenomeno può accadere anche durante la ricarica veloce perché il BMS porta il potenziale a zero volt per forzare gli ioni a entrare più velocemente. O può accadere perché la batteria è troppo fredda, solitamente sotto i 10°C, situazione in cui la velocità di diffusione degli ioni si riduce, o quando la batteria è degradata o sbilanciata, cioè le celle non si comportano più in maniera uniforme.
Per mitigare questi problemi, si stanno sperimentando diverse soluzioni tecnologiche:
- Si stanno cercando materiali alternativi alla grafite per l’anodo, come il silicio (in forma di compositi nano-strutturati), che permette di aumentare la capacità specifica e migliorare la cinetica.
- Si stanno sviluppando elettroliti con maggior conducibilità ionica e stabilità termica, unito all’uso di additivi, che consentono di creare interfacce SEI più sottili e stabili, riducendo la resistenza di interfaccia e i fenomeni di decomposizione.
- Si studiano sistemi avanzati di gestione termica, con raffreddamento attivo per ogni modulo o sezione del pacco batterie, consentono di mantenere uniforme la temperatura tra le celle, evitando punti caldi localizzati che accelerano l’invecchiamento e il rischio di plating.
- Si utilizzano, questi li vediamo già applicati, sistemi a tensione più alta (ad esempio da 400 a 800 Volt o oltre), poiché è possibile trasferire la stessa potenza con una corrente inferiore, riducendo le perdite resistive e alleggerendo i requisiti su cavi, inverter e raffreddamento.
- Controllo attivo del SoC e dei profili di ricarica, cioè l’uso di algoritmi predittivi basati su machine learning o modelli elettrochimici che permettono di ottimizzare in tempo reale la corrente e la tensione applicata, adattandosi allo stato interno della batteria e riducendo al minimo i danni da ricariche aggressive.
E guardando in prospettiva, le batterie allo stato solido, che oggi sono in fase di testing, promettono di superare molti di questi limiti: non avendo un elettrolita liquido, consentono una maggiore stabilità termica, una densità energetica più elevata e una riduzione drastica del rischio di cortocircuiti interni.
Le soluzioni in sviluppo
Se le problematiche sono di natura fisica e chimica, le soluzioni per un futuro più rapido si concentrano su una combinazione di architettura elettrica, chimica delle celle e gestione elettronica.
Uno dei primi problemi da superare riguarda l’architettura elettrica del veicolo. Oggi, la maggior parte delle auto elettriche funziona con impianti a 400 Volt, ma i modelli più avanzati, come le Porsche Taycan, le Hyundai Ioniq 5 e 6, le Kia EV6 e alcune Lotus, adottano architetture a 800 Volt o superiori.
Aumentare la tensione ha un vantaggio fisico diretto: a parità di potenza, la corrente richiesta è più bassa, e questo significa meno calore generato, meno stress sui cavi e sui connettori, e maggiore efficienza complessiva del sistema. Non solo: abbassando la corrente, si possono usare componenti più compatti e leggeri, migliorando anche il packaging del veicolo. Ma la tensione non è l’unica variabile in gioco.
Altrettanto cruciale è la chimica della batteria, e qui si sta giocando una partita molto più complessa. Le celle agli ioni di litio oggi dominanti, soprattutto nella versione NMC (Nichel-Manganese-Cobalto), non sono ideali per le ricariche ad altissima potenza. Sono sensibili al calore e soffrono nel lungo periodo se sottoposte a cicli aggressivi. Le batterie LFP (Litio-Ferro-Fosfato), pur essendo meno dense in termini di energia, offrono una resistenza termica maggiore e una durata più elevata: per questo vengono oggi utilizzate su moltissimi modelli cinesi e su alcune auto prodotte in Cina.
La vera promessa, però, è rappresentata dalle batterie allo stato solido. Invece di usare un elettrolita liquido, infiammabile e limitante in termini di tensione massima, queste nuove batterie usano un elettrolita solido, spesso ceramico o polimerico.
Questo cambiamento è rivoluzionario: permette di eliminare quasi del tutto il rischio di incendio, aumentare la densità energetica, ridurre lo spessore delle celle e soprattutto caricare più rapidamente senza rischio di plating, perché l’interfaccia tra elettrodo ed elettrolita è molto più stabile anche sotto forte corrente. Tuttavia, siamo ancora nella fase pre-industriale, con problemi di produzione, durata dei cicli e fragilità meccanica del materiale solido da risolvere.
Ci sono poi tecnologie in studio, che per ora restano in laboratorio ma che potrebbero arrivare sul mercato nei prossimi anni. Le batterie al litio-zolfo, per esempio, promettono una densità energetica due o tre volte superiore rispetto alle celle odierne. Le batterie al sodio, invece, offrono una via d’uscita al problema delle materie prime critiche: il sodio è molto più abbondante e sostenibile del litio, e alcune aziende cinesi stanno già portando sul mercato batterie al sodio con prestazioni modeste, ma costi e stabilità promettenti.
Un altro approccio per accelerare la ricarica, senza modificare troppo la chimica delle celle, è quello di lavorare sull’elettronica e sulla logica di gestione. Molte auto stanno integrando sistemi di pre-conditioning termico, che portano la batteria alla temperatura ottimale prima di iniziare la ricarica. I BMS stanno diventando sempre più sofisticati, con modelli predittivi che imparano dalle abitudini di guida e ricarica dell’utente per ottimizzare ogni ciclo.
Infine, ci sono soluzioni architetturali ancora più radicali. Una di queste è il battery swap, il cambio batteria automatico, già attivo in Cina grazie a NIO. In questo modello, non si aspetta la ricarica: si entra in una stazione, la batteria scarica viene rimossa meccanicamente e sostituita con una carica in meno di cinque minuti. È una visione che elimina del tutto il problema della ricarica veloce, ma impone standard comuni, batterie modulari e una rete capillare di infrastrutture, difficili da implementare fuori da un mercato centralizzato come quello cinese.
Cosa succederà nei prossimi 5 anni?
A questo punto possiamo domandarci: ma quando arriveranno queste soluzioni ai problemi che abbiamo evidenziato e che ben conosciamo?
E soprattutto: quanti anni serviranno per vedere migliorie sul mercato consumer?
Oggi, un’auto elettrica di fascia media ha un’autonomia reale compresa tra 350 e 450 chilometri su ciclo WLTP, che nella pratica corrispondono spesso a 250-350 km di guida effettiva, a seconda dello stile di guida, della temperatura esterna e del tipo di strada. Le vetture più efficienti, come Tesla Model 3, Hyundai Ioniq 6 o Mercedes EQE, possono arrivare a 500-550 km reali, ma restano eccezioni nella fascia premium.
Oltre a questo c’è da considerare il fattore psicologico dell’autonomia residua: cioè, se avete 400 km di autonomia reale, probabilmente quando arriverete a 50 Km rimanente cercherete al più presto una colonnina, quindi possiamo dire che anche il chilometraggio reale è anche influenzato da questo fattore.
Sul fronte della ricarica, la situazione è ancora più variegata. Le auto con architettura a 400 Volt si attestano su picchi di ricarica tra 120 e 150 kW in corrente continua, con tempi tipici di 25-30 minuti per passare dal 10% all’80%. Le piattaforme a 800 Volt, come quelle di Hyundai-Kia o Porsche, consentono invece picchi di 230-270 kW (in teoria anche oltre), con tempi che possono scendere sotto i 20 minuti, ma solo in condizioni ideali: batteria calda, colonnina adeguata, e stato di carica iniziale basso.
La potenza media reale durante la ricarica (cioè quella che effettivamente si mantiene per tutta la sessione, non solo il picco) è però ben più bassa: intorno ai 70-90 kW per i veicoli a 400V, e ai 130-150 kW per quelli a 800V, a causa del cosiddetto tapering, il calo fisiologico della potenza man mano che la batteria si riempie.
Della disponibilità delle colonnine è invece inutile parlarne. Oggi come oggi ce ne sono sempre di più, e molto dipende da dove abitate e dove viaggiate.
Le tendenze più probabili nei prossimi 5 anni, già visibili nei progetti delle case automobilistiche e nei piani delle gigafactory, indicano un miglioramento costante ma graduale, senza salti quantici, almeno fino alla diffusione industriale delle batterie allo stato solido. Sul piano dell’autonomia, ci si aspetta che i veicoli di fascia media raggiungano stabilmente 550-600 km WLTP, che nella pratica corrisponderanno a 400-450 km reali anche in inverno o in autostrada.
Questo sarà possibile grazie a:
- Miglioramento della densità energetica delle celle.
- Architetture “cell-to-pack” e “cell-to-body”, che aumentano lo spazio utile per la batteria.
- Software di gestione dell’energia sempre più efficienti.
Ma il vero salto, come già accennato, arriverà sul fronte della velocità di ricarica. Entro il 2030, sarà realistico aspettarsi che le architetture a 800V diventino lo standard per i modelli di fascia medio-alta, permettendo ricariche rapide anche per batterie di grandi dimensioni.
La potenza di picco salirà verso i 300-350 kW reali, con alcuni modelli che toccheranno anche i 400 kW nelle condizioni ideali. La potenza media (quella che davvero conta per l’utente) potrà attestarsi attorno ai 180-220 kW, permettendo ricariche 10-80% in 12-15 minuti su batterie da 80-100 kWh. Per esempio, una batteria da 90 kWh, con una potenza media di 200 kW, potrà ricaricare il tratto utile da 10% a 80% (circa 63 kWh) in circa 19 minuti. Ma ci sono già obiettivi ancora più ambiziosi in cui si punta a ricaricare in meno di 10 minuti.
Un altro aspetto da considerare sarà l’arrivo sul mercato delle prime batterie allo stato solido, che sebbene non avranno una diffusione di massa entro 5 anni, inizieranno a comparire su modelli di nicchia o ad alte prestazioni. Queste celle potrebbero:
- Aumentare la densità energetica fino a 400-500 Wh/kg, permettendo più autonomia con lo stesso peso.
- Accettare correnti più elevate, riducendo i rischi di plating e surriscaldamento.
- Portare la ricarica 10-80% a valori inferiori ai 10 minuti, con temperature operative più sicure e stabili.
Insomma, entro il 2030 non avremo ancora auto che si ricaricano in 2 minuti come se fossero benzina, ma ci saremo avvicinati a una soglia psicologica che potremmo definire importante: fare una pausa di 10-15 minuti per ottenere 400 km reali di autonomia, sempre che la rete di ricarica continui a svilupparsi nella maniera corretta.