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Polinesia, il clima guidò le grandi migrazioni oceaniche

Uno studio su Nature rivela come un cambiamento nelle piogge del Pacifico abbia favorito la colonizzazione delle remote isole polinesiane.

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Avatar di Antonello Buzzi

a cura di Antonello Buzzi

Senior Editor @Tom's Hardware Italia

Pubblicato il 16/12/2025 alle 09:00

La notizia in un minuto

  • Un cambiamento climatico naturale tra 1.100 e 400 anni fa spostò le precipitazioni verso est nel Pacifico, creando siccità nelle isole occidentali e condizioni più umide in quelle orientali
  • Le popolazioni polinesiane potrebbero aver "inseguito la pioggia" migrando verso est alla ricerca di acqua dolce, risorsa vitale per agricoltura e sopravvivenza
  • Lo studio combina analisi paleoclimatiche di sedimenti lacustri con modelli climatici per spiegare l'enigma della colonizzazione delle remote isole della Polinesia orientale

Riassunto generato con l’IA. Potrebbe non essere accurato.

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Il popolamento delle remote isole della Polinesia orientale, avvenuto circa mille anni fa, potrebbe essere stato guidato non solo dall'audacia degli antichi navigatori, ma anche da un profondo cambiamento climatico che ridisegnò la distribuzione delle piogge nell'Oceano Pacifico meridionale. Una ricerca coordinata dall'Università di Southampton e dall'Università dell'East Anglia, pubblicata sulla rivista Nature: Communications Earth and Environment, documenta come un progressivo spostamento verso est delle precipitazioni abbia creato condizioni ambientali favorevoli alla colonizzazione di arcipelaghi prima considerati marginali, mentre rendeva più difficile la vita nelle isole occidentali dove le popolazioni erano già insediate da secoli.

Lo studio si inserisce nel progetto PROMS (Pacific Rainfall over Millennial Timescales), un'ambiziosa collaborazione scientifica che ricostruisce le variazioni delle precipitazioni nel Pacifico su scale temporali millenarie. I ricercatori hanno analizzato carote di sedimento estratte da laghi e torbiere di Tahiti e Nuku Hiva, nella Polinesia francese, applicando tecniche di paleoclimatologia avanzate per decifrare le tracce chimiche lasciate dalla vegetazione del passato. In particolare, hanno esaminato le cere vegetali, molecole lipidiche che si depositano sulla superficie delle foglie e che, una volta preservate nei sedimenti, forniscono indicatori precisi delle condizioni di umidità ambientale durante la crescita delle piante.

L'analisi di laboratorio di questi composti organici ha permesso di ricostruire con elevata risoluzione temporale le variazioni pluviometriche degli ultimi 1.500 anni. Integrando questi dati con altri archivi paleoclimatici disponibili per l'area polinesiana e con simulazioni di modelli climatici computazionali, il team ha identificato un periodo critico compreso tra 1.100 e 400 anni fa, durante il quale la distribuzione delle precipitazioni nel Pacifico meridionale subì una trasformazione radicale.

Le isole della Polinesia occidentale, come Samoa e Tonga, sperimentarono un progressivo inaridimento, mentre quelle orientali, tra cui l'arcipelago di Tahiti, divennero gradualmente più umide

Il meccanismo responsabile di questa riorganizzazione climatica sarebbe da ricercare in un cambiamento naturale nei pattern di temperatura superficiale dell'oceano, che avrebbe provocato uno spostamento verso est della Zona di Convergenza del Pacifico Meridionale (SPCZ). Questa struttura meteorologica, che si estende per oltre 7.000 chilometri dalla Papua Nuova Guinea fino oltre le Isole Cook, rappresenta una delle caratteristiche più importanti del sistema climatico globale, concentrando precipitazioni intense lungo una fascia diagonale che attraversa l'oceano. Lo spostamento documentato dalla ricerca avrebbe determinato condizioni di siccità crescente nell'estremità occidentale di questa banda pluviometrica, mentre l'estremità orientale riceveva apporti idrici sempre più abbondanti.

Secondo il professor David Sear, principale responsabile del progetto PROMS, le popolazioni della regione si trovarono effettivamente a "inseguire la pioggia" verso est, adattandosi alle pressioni imposte da un periodo di condizioni più aride che si sviluppava nel Pacifico occidentale, in presenza di popolazioni in crescita. Questo scenario suggerisce una correlazione tra stress ambientale e mobilità umana: la diminuzione della disponibilità di acqua dolce nelle isole occidentali avrebbe agito come fattore "push", rendendo più difficile il sostentamento di comunità già stabilite, mentre il miglioramento delle condizioni idriche a est avrebbe costituito un fattore "pull", incentivando l'esplorazione e la colonizzazione di nuovi territori.

Il dottor Mark Peaple dell'Università di Southampton sottolinea come la tempistica e la natura del cambiamento idroclimatico si allineino con l'ultima ondata di insediamenti umani nella Polinesia orientale, iniziata circa mille anni fa. L'acqua, risorsa fondamentale per il consumo diretto e per un'agricoltura di sussistenza basata su colture come taro e patata dolce, avrebbe dunque rappresentato il fattore determinante nelle scelte migratorie, spingendo intere comunità a intraprendere viaggi oceanici rischiosi verso arcipelaghi sconosciuti ma potenzialmente più ospitali dal punto di vista della sicurezza idrica.

La ricerca offre una prospettiva scientifica rigorosa su uno dei grandi enigmi dell'archeologia del Pacifico: come popolazioni dotate di tecnologie di navigazione relativamente semplici abbiano potuto colonizzare isole remote separate da migliaia di chilometri di oceano aperto. L'ipotesi tradizionale privilegiava spiegazioni culturali e tecnologiche, come il perfezionamento delle imbarcazioni a bilanciere e delle tecniche di orientamento astronomico. Questo studio aggiunge una dimensione ambientale cruciale, suggerendo che i cambiamenti climatici naturali abbiano creato finestre di opportunità e, contemporaneamente, necessità che resero inevitabile l'espansione verso est.

Il dottor Daniel Skinner dell'Università dell'East Anglia evidenzia come l'integrazione tra archivi paleoclimatici e modelli climatici abbia fornito intuizioni fondamentali su come e perché una regione criticamente poco studiata del mondo sia cambiata negli ultimi 1.500 anni. Questa metodologia multidisciplinare, che combina geologia, chimica organica, modellistica climatica e archeologia, rappresenta un approccio sempre più necessario per comprendere le complesse interazioni tra sistemi naturali e società umane nel passato.

Il professor Manoj Joshi, co-responsabile del progetto presso l'UEA, sottolinea le implicazioni contemporanee della ricerca: comprendere meglio come il clima del Pacifico meridionale sia stato influenzato dai cambiamenti climatici su scala più ampia nel corso dei millenni passati permette di costruire previsioni più accurate su come i cambiamenti climatici futuri impatteranno la regione. Le isole del Pacifico sono oggi tra le aree più vulnerabili del pianeta agli effetti del riscaldamento globale, minacciate dall'innalzamento del livello del mare, dall'acidificazione oceanica e dalle modifiche nei regimi pluviometrici. La prospettiva storica fornita da questo studio dimostra che le popolazioni insulari hanno già dovuto affrontare e adattarsi a trasformazioni climatiche significative, offrendo potenzialmente lezioni per le strategie di resilienza contemporanee.

Fonte dell'articolo: www.sciencedaily.com

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