Quando la Cina spazzò via un milione di posti di lavoro
Era il 2013 quando Autor e i suoi colleghi pubblicarono una ricerca che sconvolse il mondo accademico e politico americano. I dati erano impietosi: l'apertura commerciale con la Cina aveva cancellato un milione di posti di lavoro nel settore manifatturiero e 2,4 milioni complessivamente entro il 2011. Quello che gli economisti mainstream avevano sempre predicato - il libero commercio come fonte di prosperità generale - si rivelò una catastrofe per intere comunità americane, concentrate soprattutto in quelle che i ricercatori definirono "città esposte al commercio", come i produttori di mobili della North Carolina.
La ricerca di Autor demolì decenni di ortodossia economica, dimostrando che l'ondata di importazioni cinesi a basso costo non aveva portato solo "alcuni vincitori e perdenti", ma aveva letteralmente distrutto la linfa vitale manifatturiera di molte comunità americane. Queste scoperte contribuiscono ancora oggi a spiegare almeno parte dell'agitazione politica contemporanea, alimentando richieste di protezionismo e la nostalgia per i giorni perduti della gloria manifatturiera domestica.
Le cicatrici che non si rimarginano
Vent'anni dopo, gli effetti del primo shock cinese continuano a manifestarsi in modo sorprendente. Analizzando i dati dal 2000 al 2019, Autor ha scoperto che le aree più colpite hanno vissuto trasformazioni radicali ma non nel senso sperato. "Una volta che il settore manifatturiero inizia a declinare, non torna mai più", spiega l'economista. Dopo il 2010, queste zone hanno registrato una ripresa dell'occupazione, ma in settori completamente diversi: educazione, servizi sanitari, logistica e ospitalità - tutti lavori a basso salario.
Il dato più sconcertante riguarda la mobilità della forza lavoro. Contrariamente alle aspettative, le persone nelle aree più colpite sono diventate meno propense a trasferirsi altrove. "Il presupposto era che si sarebbero semplicemente trasferiti per trovare terreno più fertile. Non è affatto quello che è accaduto", osserva Autor. Gli uomini bianchi senza istruzione universitaria, che rappresentavano la spina dorsale del manifatturiero, non hanno partecipato a questa rinascita occupazionale, che ha invece coinvolto principalmente donne, ispanici nativi e giovani.
Oltre i numeri: l'identità perduta
L'impatto sproporzionato del primo shock cinese rispetto al numero effettivo di posti di lavoro persi si spiega con la natura concentrata del manifatturiero americano. "Se lo shock commerciale cinese ci fosse costato alcuni milioni di posti di lavoro distribuiti tra drogherie, vendita al dettaglio e stazioni di servizio, non ce ne saremmo accorti più di tanto", spiega Autor. Il manifatturiero invece era l'attività trainante di specifiche comunità, e il suo collasso è stato "come sganciare una bomba economica nel centro della città".
Questo spiega perché, a differenza della perdita di posti di lavoro d'ufficio negli ultimi decenni, nessuno parla di uno "shock degli impiegati". I lavoratori manifatturieri erano concentrati geograficamente, e la loro scomparsa ha cancellato non solo posti di lavoro ma un'intera identità locale. Il manifatturiero offriva salari relativamente alti ai lavoratori senza istruzione universitaria, rappresentando "l'ancora di uno stile di vita".
L'incubo del secondo shock
Mentre l'America continua a elaborare il trauma del primo shock cinese, Autor avverte che siamo nel mezzo di una competizione completamente diversa con la Cina, molto più importante della precedente. Non si parla più di "mobili standardizzati e calzini", ma di semiconduttori, droni, aviazione, veicoli elettrici, energia da fusione, tecnologie quantistiche, intelligenza artificiale e robotica. Questi sono settori dove gli Stati Uniti mantengono ancora competitività, ma sono estremamente minacciati.
"La capacità della Cina per la manifattura high-tech, a basso costo, incredibilmente veloce e innovativa è semplicemente incredibile", osserva Autor. Se l'America perdesse Boeing, GM, Apple e Intel - "e questo è del tutto possibile" - l'impatto sarebbe economicamente devastante, molto più del primo shock cinese che, pur distruggendo comunità locali, non compromise l'economia statunitense nel suo complesso.
La strada verso il futuro manifatturiero
La soluzione non consiste nel tornare al passato. L'idea di assemblare iPhone negli Stati Uniti, come vorrebbe Trump, è "folle" secondo Autor: nessuno vuole fare quel lavoro orribile e tedioso che renderebbe i telefoni del 20% più costosi. Il focus deve essere sulla manifattura avanzata: "Abbiamo bisogno di costruire aerei migliori. Questo richiede tantissima competenza. Assemblare iPhone no".
Le priorità per scongiurare il secondo shock cinese sono chiare: investire in settori strategici come semiconduttori, automobile, aviazione, droni, energia da fusione e robotica. "Potrei elencare 15 settori dove penso che il denaro pubblico sia giustificato", afferma Autor, che non esclude protezioni commerciali mirate, purché intelligenti.
Le lezioni del primo shock cinese sono amaramente semplici: "L'abbiamo fatto troppo velocemente. Non abbiamo fatto abbastanza per supportare le persone, e abbiamo fatto finta che non stesse succedendo niente". Oggi, mentre il secondo shock è già in corso, l'America sta "gestendo male questa sfida", generando "molte risposte politiche, ma non serie". Il rischio è che questa volta, invece di perdere l'identità di alcune comunità, si perda la leadership economica globale.