L'ipertensione arteriosa potrebbe danneggiare il cervello molto prima che la pressione sanguigna raggiunga livelli clinicamente rilevabili. Una ricerca preclinica pubblicata il 14 novembre sulla rivista Neuron dimostra che alterazioni molecolari nei vasi cerebrali, nei neuroni e nella sostanza bianca si manifestano già nei primissimi stadi della patologia, quando la pressione è ancora nella norma. Questa scoperta, frutto del lavoro del team guidato dal dottor Costantino Iadecola del Feil Family Brain and Mind Research Institute presso la Weill Cornell Medicine, potrebbe spiegare perché chi soffre di ipertensione presenta un rischio aumentato dal 20 al 50% di sviluppare deterioramento cognitivo vascolare o malattia di Alzheimer rispetto alla popolazione normotesa.
Il paradosso clinico che ha stimolato questa ricerca è noto da tempo agli specialisti: i farmaci antipertensivi riescono efficacemente a normalizzare la pressione arteriosa, ma raramente mostrano benefici significativi sulle funzioni cognitive dei pazienti. Questa dissociazione suggeriva che il danno cerebrovascolare potesse verificarsi attraverso meccanismi indipendenti dall'aumento pressorio in sé, un'ipotesi che il gruppo di ricerca ha ora confermato utilizzando tecnologie avanzate di analisi cellulare.
Gli scienziati hanno indotto ipertensione in modelli murini somministrando angiotensina, un ormone che eleva la pressione sanguigna con modalità analoghe a quelle osservate nell'uomo. Attraverso tecniche di sequenziamento dell'RNA a livello di singola cellula, hanno poi esaminato le modificazioni nell'espressione genica di diverse popolazioni cellulari cerebrali in due momenti critici: dopo tre giorni dall'induzione dell'ipertensione, quando la pressione arteriosa non era ancora aumentata, e dopo 42 giorni, quando sia l'ipertensione che i deficit cognitivi erano ormai evidenti.
I risultati hanno rivelato cambiamenti molecolari precoci e sorprendentemente estesi. Le cellule endoteliali che rivestono i vasi sanguigni cerebrali hanno mostrato segni di invecchiamento accelerato già al terzo giorno: riduzione del metabolismo energetico, accumulo di marcatori di senescenza cellulare e indebolimento della barriera emato-encefalica, quella struttura che normalmente regola il passaggio di nutrienti verso il tessuto nervoso impedendo l'ingresso di sostanze potenzialmente nocive. Il dottor Anthony Pacholko, ricercatore post-dottorato in neuroscienze presso la Weill Cornell e co-autore dello studio, ha sottolineato come l'estensione delle alterazioni precoci indotte dall'ipertensione sia stata davvero sorprendente.
Parallelamente, gli interneuroni, cellule nervose fondamentali per bilanciare i segnali eccitatori e inibitori nel cervello, hanno subito danni che ricordano gli schemi precoci osservati nella malattia di Alzheimer. Questo squilibrio compromette la corretta elaborazione delle informazioni nervose. Anche gli oligodendrociti, responsabili della produzione di mielina, la guaina isolante che avvolge le fibre nervose permettendo la trasmissione efficiente degli impulsi elettrici, hanno manifestato una ridotta espressione dei geni necessari per mantenere e rigenerare la mielina. Al quarantaduesimo giorno, quando la pressione arteriosa era stabilmente elevata, le alterazioni nell'espressione genica si erano moltiplicate, accompagnate da un declino cognitivo misurabile nei test comportamentali.
La ricerca ha anche esplorato possibili strategie terapeutiche. Il losartan, un farmaco già ampiamente utilizzato nella pratica clinica per trattare l'ipertensione, agisce bloccando i recettori dell'angiotensina. Nel modello sperimentale, questa molecola ha dimostrato di invertire i danni precoci nelle cellule endoteliali e negli interneuroni. Il dottor Iadecola, che ricopre anche il ruolo di professore di neuroscienze e direttore dell'Anne Parrish Titzell Professor of Neurology, ha evidenziato come alcuni studi clinici suggeriscano che gli inibitori dei recettori dell'angiotensina potrebbero essere più benefici per la salute cognitiva rispetto ad altri farmaci antipertensivi, sebbene siano necessarie ulteriori conferme.
Il concetto centrale emerso da questa ricerca rappresenta un cambio di paradigma nella comprensione dei rapporti tra ipertensione e cervello: il danno neurovascolare non sarebbe semplicemente una conseguenza meccanica dell'aumento pressorio, ma deriverebbe da complesse alterazioni molecolari che l'ipertensione innesca nelle cellule cerebrali, anche quando i valori pressori sono ancora normali. Questo spiegherebbe perché il semplice controllo farmacologico della pressione, pur essenziale per prevenire danni a cuore e reni, spesso non basta a proteggere le funzioni cognitive.
Il gruppo di ricerca sta ora approfondendo i meccanismi attraverso cui l'invecchiamento accelerato dei piccoli vasi cerebrali causato dall'ipertensione possa propagarsi agli interneuroni e agli oligodendrociti. L'obiettivo è identificare le strategie più efficaci per prevenire o invertire le conseguenze cognitive a lungo termine dell'ipertensione. Comprendere le fasi molecolari più precoci della malattia potrebbe aprire la strada a interventi terapeutici mirati, capaci non solo di normalizzare la pressione arteriosa ma anche di bloccare i processi neurodegenerativi prima che diventino irreversibili. Come ha sottolineato il dottor Iadecola, è coinvolto qualcosa che va oltre la semplice disregolazione della pressione sanguigna, e questa comprensione rappresenta la chiave per sviluppare terapie realmente neuroprotettive.