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Meta sfida AgCom sulle regole per le CDN

Agcom classifica le CDN come reti di telecomunicazione, imponendo obblighi di autorizzazione. Meta, Netflix, Amazon e Cloudflare contestano la decisione al Tar.

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Avatar di Antonello Buzzi

a cura di Antonello Buzzi

Senior Editor

Pubblicato il 14/11/2025 alle 15:10

La notizia in un minuto

  • Agcom classifica le CDN come reti di telecomunicazione, prima autorità europea a farlo, scatenando ricorsi al Tar da parte di Meta, Netflix, Amazon e Cloudflare contro obblighi di autorizzazione che potrebbero ridefinire gli equilibri tra big tech e operatori telco
  • Le aziende denunciano vaghezza normativa e rischio di frammentazione del mercato unico digitale, minacciando la delocalizzazione dei server con conseguente degradazione delle prestazioni per gli utenti italiani
  • La controversia anticipa il Digital Networks Act europeo (previsto per il 2026) e pone il dilemma su chi debba finanziare le infrastrutture che veicolano oltre il 60% del traffico internet continentale
Riassunto generato con l'IA. Potrebbe non essere accurato.

Il panorama delle infrastrutture digitali europee si trova di fronte a un punto di svolta normativo che potrebbe ridefinire gli equilibri tra giganti tecnologici e operatori di telecomunicazioni. Agcom, l'autorità italiana per le garanzie nelle comunicazioni, ha deciso di classificare le Content Delivery Network (CDN) come reti di telecomunicazione, imponendo obblighi di autorizzazione generale che tradizionalmente si applicano solo agli operatori telco. Una mossa che ha scatenato una battaglia legale senza precedenti, con Meta che si unisce a Netflix, Amazon Web Services e Cloudflare nel contestare formalmente la decisione davanti al Tar. La posta in gioco va ben oltre i confini nazionali: si tratta di stabilire chi controlla, regola e finanzia l'infrastruttura che veicola streaming video, cloud computing e la maggior parte del traffico internet moderno.

Le CDN rappresentano l'ossatura invisibile del web contemporaneo, una rete distribuita di server e nodi di cache posizionati strategicamente all'interno delle infrastrutture degli operatori per ridurre latenza e migliorare throughput. Quando un utente italiano avvia uno streaming su Netflix o carica contenuti su Facebook, i dati non attraversano oceani ma vengono serviti da server locali gestiti dalle stesse piattaforme. Questo modello ha permesso l'esplosione del traffico video in 4K e ridotto drasticamente i tempi di risposta, ma ha anche creato una zona grigia normativa: chi gestisce queste infrastrutture ibride opera come fornitore di contenuti o come operatore di rete?

La delibera di Agcom, approvata durante l'estate dopo una consultazione pubblica, estende il Codice delle comunicazioni elettroniche alle CDN, richiedendo autorizzazione generale e sottoponendo queste infrastrutture a vincoli operativi analoghi a quelli degli Internet Service Provider. L'autorità italiana è la prima in Europa ad adottare questo approccio, anticipando il dibattito sul Digital Networks Act che la Commissione Europea dovrebbe presentare nel 2026, con un anno di ritardo rispetto alla tabella di marcia iniziale. La decisione è stata influenzata dal precedente Dazn: durante la stagione calcistica 2021-2022, i disservizi nello streaming della Serie A avevano esposto le criticità di un ecosistema privo di supervisione regolamentare sulle piattaforme di distribuzione.

Meta nel suo ricorso al Tar denuncia una violazione delle direttive europee e paventa conseguenze devastanti per l'ecosistema digitale italiano. Secondo il colosso di Menlo Park, la normativa introduce oneri non previsti dal quadro comunitario e rappresenta un tentativo mascherato di imporre la network usage fee, quel contributo obbligatorio dai fornitori di contenuti agli operatori telco che Bruxelles ha finora respinto. "Se applicata, la decisione spingerebbe i provider ad appoggiarsi a infrastrutture estere, con peggiori prestazioni e un'esperienza inferiore per gli utenti italiani", recita il documento legale. La minaccia è concreta: delocalizzare i server CDN fuori dall'Italia aumenterebbe latenza e bandwidth utilizzata sulle dorsali internazionali, degradando qualità dello streaming e tempi di caricamento.

Le contestazioni tecniche sollevate dalle quattro big tech convergono su un punto critico: la vaghezza definitoria del testo normativo. La delibera non specifica con precisione cosa costituisca una CDN soggetta ad autorizzazione, quali attività rientrino nel perimetro regolamentare e chi sia il fornitore responsabile in architetture multi-tier dove provider di contenuti, CDN specializzate e operatori telco collaborano. Cloudflare, che gestisce una delle più estese reti di edge computing globali con oltre 300 punti di presenza, sottolinea l'impossibilità tecnica di tracciare confini netti in un'infrastruttura distribuita dove caching, routing e delivery sono integrati a livello di protocollo.

Nessun altro regolatore europeo tratta le CDN come reti di telecomunicazioni, creando il rischio concreto di frammentazione normativa nel mercato unico digitale

Amazon Web Services aggiunge una dimensione cloud alla controversia: AWS CloudFront, la CDN integrata nei servizi di cloud computing, serve non solo contenuti consumer ma applicazioni enterprise, API e workload mission-critical. Applicare vincoli da operatore telco a un servizio cloud nativo potrebbe creare precedenti pericolosi per l'intero comparto Infrastructure-as-a-Service, settore dove l'Europa cerca faticosamente di recuperare terreno rispetto agli hyperscaler americani e cinesi. La distinzione tra edge computing, CDN tradizionale e rete di telecomunicazione si assottiglia sempre più con l'avvento di tecnologie come 5G edge e Multi-access Edge Computing (MEC).

Sul fronte opposto, Agcom difende la misura come necessaria per garantire trasparenza e parità di condizioni in un settore strategico. L'autorità evidenzia che le CDN occupano spazio fisico nei data center degli operatori, utilizzano interconnessioni privilegiate e veicolano quote crescenti di traffico totale – secondo alcune stime, oltre il 60% del traffico internet europeo passa attraverso CDN gestite da poche grandi piattaforme. Senza supervisione regolamentare, sostiene Agcom, si creano asimmetrie competitive dove i fornitori di contenuti beneficiano di infrastrutture telco senza contribuire proporzionalmente ai costi di manutenzione e upgrade della rete.

Alcuni operatori di telecomunicazioni italiani hanno accolto favorevolmente la decisione, pur con cautela. Il nodo centrale è il modello di interconnessione: le telco sostengono di dover continuamente espandere capacità e bandwidth per sostenere la crescita esponenziale di traffico generato da streaming video, gaming cloud e applicazioni data-intensive, mentre le piattaforme ribattono che i loro investimenti in CDN alleviino proprio questo carico, migliorando efficienza complessiva della rete. Il ministero delle Imprese e del Made in Italy dovrà ora emanare un regolamento attuativo che definisca con precisione perimetro e obblighi, un passaggio tecnico-giuridico cruciale che determinerà se l'approccio italiano sarà proporzionato o eccessivamente gravoso.

Il timing della controversia non è casuale. Il Digital Networks Act europeo, inizialmente previsto per fine 2025, dovrebbe affrontare proprio queste questioni a livello comunitario, stabilendo regole armonizzate per interconnessione, neutralità della rete e rapporti tra fornitori di contenuti e operatori di telecomunicazioni. Il ritardo nell'adozione lascia spazio a iniziative nazionali potenzialmente divergenti: se altri stati membri seguissero percorsi differenti, il mercato unico digitale rischierebbe una balcanizzazione normativa con costi di compliance moltiplicati e arbitraggi regolamentari che favorirebbero chi può permettersi strutture legali complesse.

L'esito del contenzioso italiano potrebbe influenzare il dibattito europeo in modo determinante. Se il Tar dovesse confermare l'approccio di Agcom, altri regolatori potrebbero essere incentivati a seguire, creando pressione su Bruxelles per un quadro comune più incisivo. Se invece dovesse bocciare la delibera per violazione del diritto comunitario, si rafforzerebbe la posizione delle piattaforme che rivendicano lo status di fornitori di contenuti senza obblighi regolamentari da operatore. Una terza via, quella di una regolamentazione leggera e proporzionata, richiederebbe innovazione giuridica per catturare la natura ibrida delle CDN moderne senza soffocare investimenti in infrastrutture edge che sono cruciali per tecnologie emergenti come realtà aumentata, veicoli connessi e Internet of Things ad alta densità.

Fonte dell'articolo: www.corrierecomunicazioni.it

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