Days Gone: la difficile narrativa di un'apocalisse zombie

La trama di Days Gone nasconde molte sfaccettature e idee, lasciando che la profondità narrativa sia una costellazione di tematiche di spessore.

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a cura di Alessandro Palladino

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Quando si parla di zombie e apocalisse, è ormai difficile riuscire a creare un’opera in grado di raccontare qualcosa di diverso, o completamente originale. Days Gone si cimenta in quest’ardua impresa, promettendoci di vivere la redenzione di un biker nelle verdeggianti montagne di un Oregon pieno di non-morti. Nella nostra recensione abbiamo sottolineato come la narrativa del gioco possa soddisfare il palato dei giocatori attraverso diversi punti di forza indiscutibili. Eppure è altrettanto impossibile non mettere a paragone il lavoro di Sony Bend Studio con le produzioni culturali a cui fa palesemente riferimento - tra cui citiamo The Walking Dead e Sons of Anarchy - e non proiettare su di esso anni e anni di cultura zombie.

Tra il citazionismo e un’eccessiva voglia di dilatazione per fuggire dalla linearità, l’anima della narrazione risulta comunque pregna di sfaccettature e idee diverse. Deacon, il protagonista del gioco, è un’interessante prospettiva duplice per il giocatore: interna e riflessiva quando si parla della relazione d’amore o delle crudeli pulsioni dell’animo umano, esterna e critica quando si vanno a colpire le strutture sociali pre/post-apocalittiche o l’atteggiamento del biker verso gli agenti esterni. Un mosaico di temi così pieno di “tessere” da essere dispersivo, lontano per certi versi dall’esperienza cinematica tipica delle esclusive Sony e che ogni tanto fa capolino tra le cutscene più concitate del titolo.

E dov’è la forza di questa strategia? Qual è la carica creativa della trama di Days Gone? La risposta non può essere completamente compressa in un numero, alto o basso che sia, ma necessita di uno sguardo forse più ravvicinato e personale, magari indossando la giacca di pelle logora del signor St. John.

Oregon, agente attivo

Prima del protagonista stesso, è bene soffermarsi innanzitutto sull’ambientazione della trama e lo specifico utilizzo dell’Oregon. La centralità della costruzione ambientale (e con questo intendiamo anche dal punto di vista della sceneggiatura) è spesso uno dei requisiti chiave per costruire un open world intrigante e pregno di dettagli da far scoprire al giocatore. La terra americana presenta essa stessa una serie di caratteristiche che creano interazioni importanti, come per esempio l’utilizzo della fauna come nemico comprimario alle orde di zombie (stratagemma che abbiamo visto fare anche in altre produzioni). C’è anche tutto un background culturale legato ai nativi americani e a un certo misticismo nostalgico delle realtà rurali, oltre che a tutta una serie di strade principali calcate spesso dalla cultura dei bikers.

Il team di sviluppo di Sony Bend ha sede proprio in Oregon e dipingere la propria casa è sempre una grande spinta verso un livello qualitativo di spessore. I bikers e la religione della motocicletta erano già interni allo studio e sono stati approfonditi con aiuti esterni e racconti locali, mentre il lavoro strettamente geografico/sociale è stato agevolato dalla vicinanza con laghi e montagne mozzafiato. Scenari riprodotti “fedelmente” nel gioco e così incontaminati da darci uno sguardo sul mondo unico, un potere percepibile semplicemente osservando le vallate da una cima rocciosa, digitale o reale che sia.

La bellezza naturale diventa la vera metafora della situazione dei suoi abitanti. L’apocalisse corrode gli animali e le piante, simboleggiando l’ostilità che gli americani dell’Oregon di Days Gone fronteggiano ogni giorno al proprio interno. Morte, disperazione e decadenza trasudano tanto dagli alberi spogli quanto dai cultisti/banditi che tendono agguati a Deacon, creando un parallelismo che a fatica vuole farsi passare come subliminale. Lo stesso rider è segnato dall’apocalisse, vedendo la sua già difficile vita andare a rotoli e aggrappandosi alla poca speranza rimasta, rapporto che nelle prime ore di gioco appare più che evidente.

Il terreno di gioco si fonde con le sue pedine, non per surclassare o per creare un miscuglio ma piuttosto per esaltarne la crescita narrativa, lasciando che il panorama delle distanti montagne sia un monito nel ricordare al giocatore che la salvezza è ormai troppo lontana per essere raggiunta.

Deacon, spettatore e attore

Al centro della cornice rimane Deacon St. John, o il guscio di quello che un tempo era conosciuto con quel nome. Il collasso della società e la fuga dalle metropoli ha portato il biker a mutare nel carattere e a indurirsi nel tentativo di erigere delle contromisure contro il caos che lo circonda. La perdita di Sarah, dal fato ignoto fino a metà gioco, lo getta in un baratro che si alimenta della disperazione provata nell’afferrare costantemente l’ultima speranza rimasta sulla sorte della donna. Chiaro che a livello psicologico questa dinamica è fortemente destabilizzante per il protagonista e gli rende difficile riuscire a giostrarsi tra i valori umani di sempre e le spietate esigenze post-apocalittiche.

La moralità di Deacon è stata aspramente criticata e, sotto un certo punto di vista, le critiche non sono certo campate per aria. A partire dalla metà del gioco, c’è una brusca trasformazione nell’etica del personaggio e delle sue azioni più o meno collegate alla trama. Gli autori prendono visibilmente le redini e accelerano il ritmo “evolutivo” del pensiero del biker, portandolo perfino ad abbracciare il discutibile modo di vivere della novella società apocalittica. La mano calante di Sony Bend può risultare di difficile digestione da parte del giocatore affine agli open world, soprattutto se si trova davanti a così netti “cambi di rotta” che spezzano l’astratta libertà.

Dall’altro lato però, se ci si infila direttamente nella prospettiva di Deacon, il suo percorso è piuttosto chiaro se si prende in considerazione anche un certo grado di analisi emotiva e soggettiva. Non ci si può aspettare che un personaggio reagisca in maniera logica o coerente in un ambiente fatto di razzia e morte, sarebbe strano il contrario. A livello personale, Deacon funziona ed è tanto un agente attivo quanto una sorta di naufrago fatto dondolare dalle onde della sceneggiatura. Il problema è proprio l’increspatura di quest’ultime, così poco omogenea e definita da farci perdere lo spessore interno del biker.

Anche il concetto della morte stesso viene svilito dal protagonista, inizialmente incapace di premere il grilletto. Ma non è una stortura di trama: l’oltretomba perde di qualsiasi valore quando i cadaveri camminano sulla terra e la sopravvivenza del più forte è l’unica legge esistente. Scenari del genere spogliano di qualsiasi significato l’omicidio ed è quindi giusto vedere Deacon “perdere” il peso della propria pistola fumante.

Le sue qualità più pure escono fuori nei momenti con la sua amata, Sarah, la quale rappresenta l’ancora di salvataggio per la sua sanità mentale. Come tale, è l’oggetto della sua ossessione e l’unica motivazione dietro le sue azioni. L’amore porta a buttare via la razionalità, soprattutto se esso è l’unico elemento rimasto di una vita ormai scomparsa tra le macerie delle metropoli. L’amicizia con Boon non è da sottovalutare nel quadro generale, ma rimane quasi da contorno nei meandri del pensiero del protagonista. Nelle scene dedicate alla coppia di Days Gone, Decon mostra effettivamente il suo vero colore e, a scanso di scene leggermente infelici nella scelte delle parole, l’alchimia tra gli sposini funziona abbastanza da ricordarci tutte quelle qualità che non possiamo vedere tra una strage di zombie e l’altra.

Inoltre, il lato “umano” del biker rende ancora più marcate le decisioni prese nei confronti di banditi e altri personaggi secondari di spessore. Questi sono i veri parametri morali su cui Sony Bend ha investito per perpetrare la propria visione creativa per Deacon, lasciando che sia il giocatore stesso a concludere quanto di buono o efficiente ci sia nella storia del protagonista. Un risultato dimostratosi divisivo, esattamente come dovrebbe apparire una qualsiasi storia nell’Oregon di Sony Bend.

Zombie, NERO e la piaga di Days Gone.

L’altro punto focale di Days Gone è ovviamente l’apocalisse zombie e lo svolgersi della sua trama, la quale possiamo dire rappresenti il vero corpo del “secondo atto” del racconto. Anche in questo caso, la percezione è stata quella di un’affrettata chiusura, una sorta di distacco dal ritmo forse più ragionato del primo atto. Da un lato la lentezza delle fasi iniziali serve, almeno nelle intenzioni ideali, a dare il tempo al giocatore di assimilare la totalità dell’ambientazione e della situazione pregressa che l’ha mutata. Conoscere i personaggi e il loro percorso è importante per una nuova IP, specialmente quando si parla di un’apocalisse zombie: uno scenario che più e più volte abbiamo visto esplorato in ogni media.

Il paragone con The Last of Us non rende chiaramente giustizia alla produzione di Sony Bend, ma è indubbio che si possano tracciare dei parallelismi almeno nell’impianto della narrazione. Entrambe le produzioni puntano infatti sull’importanza di una specifica relazione umana e non disdegnano l’utilizzo dei banditi come aghi morali su cui sottolineare l’evoluzione dei personaggi. Inoltre c’è sempre una prospettiva dualistica sul mondo e sulla sceneggiatura, incentrata spesso però sulla possessione e sull’appartenenza. Days Gone, più di altri punti, si distacca dalla centralità della ricerca del protagonista per andare invece a parare nella cospirazione governativa. Uno sforzo fortemente derivativo ma che ha i suoi pregi.

Innanzitutto, la funzione della NERO serve a dare un’idea del perché e del come sia nata l’apocalisse. Questo aiuta il fruitore a capire effettivamente se abbia senso o meno aggrapparsi a una qualche speranza o se invece tale sforzo sia vano. Tale aspetto è una delle più grandi debolezze delle produzioni zombie moderne, le quali hanno ormai perso il senso di sorpresa nel vedere i morti camminare per motivi sconosciuti. La Ragazza che Sapeva Troppo, World War Z o The Crazies (La Città verrà Distrutta all’Alba) sono due esempi lampanti di come l’infezione possa essere usata in maniera creativa nei limiti del coinvolgimento del governo e affini. Days Gone non delude su questo, soprattutto se si è arrivati ad assistere alla fine del viaggio di Deacon.

Non è tanto l’utilizzo dei zombie e dei banditi a darci questo feeling, quanto i concetti dietro di essi a funzionare nella narrativa. Le Orde sono un test per l’abilità del giocatore ma gli ricordano anche la virulenza della piaga e il fatto che ogni cadavere scaturito dalle sue azioni finisce per diventare parte delle stesse legioni di non-morti che sfoltisce. Il peccato di un circolo vizioso, una voglia di redenzione che non fa altro che generare ulteriori nemici da abbattere. Un quadro ribadito e simboleggiato dall’unico membro NERO vicino a Deacon e che si rivela una chiave di lettura estremamente significativa per il discorso dell’umanità corrotta, portandoci a chiedere se tale marciume sia nato prima o dopo la fine dei tempi.

Days Gone (come The Last of Us del resto) è una titolazione che rimanda a uno specifico sentimento o narrazione che esula dalla lotta tra gli “eroi” e i cadaveri ambulanti. La piaga zombie assume i connotati di un artefatto strumentale adibito solamente al mandare avanti la vera storia da raccontare e in Days Gone i pericoli vanno ben oltre le orde dei non-morti, specialmente se si considera lo sfondo fanatico dei vari culti presenti nel folklore delle fazioni nemiche.

La società non è completamente annientata – sono passati pochi anni - e non rimangono solo i trapassati a vagare per le strade dell’Oregon, un dettaglio estremamente focale per capire che di The Walking Dead lo scenario di Days Gone riprende più la dinamica tra i sopravvissuti delle ultime stagioni, lasciando da parte la pura lotta alla sopravvivenza e le storie di cacciatori di zombie. Ed è in questo frangente che possiamo inquadrare la costruzione narrativa della NERO, la quale non è stata trattata come il classico contingente governativo rimasto attivo nell’ombra, bensì è un vero e proprio agente attivo al pari di Deacon e Sarah. Anzi, senza la NERO non sarebbe stato affatto possibile ricreare il feeling di Days Gone, in quanto spesso la scrittura, coadiuvata da audiolog e altri collezionabili, indugia moltissimo sul mistero e sullo scopo dell’organizzazione al fine di preparare il colpo di scena finale.

Ed è proprio nella conclusione che la struttura del titolo di Sony Bend sembra voler comunicare un tentativo di “osare oltre” che sembra essere stato smorzato in questo primo capitolo. Il finale è forse la parte più originale dell’epopea di Deacon, non tanto per la “sorpresa” quanto per il modo in cui la situazione viene posta nel quadro dello status dei vari personaggi.

I titoli di coda ci fanno riflettere sulla forte evoluzione interiore del biker e del mondo calcato dalla sua moto, una corsa che sicuramente è valsa la pena vivere e che ha effettivamente una forte impronta autoriale nella sua anima grezza. La benzina però è finita forse proprio quando si doveva premere l’acceleratore a tavoletta, forzandoci un pit-stop poco prima di assistere alla sfrontatezza della strada creata da Sony Bend. Quando torneremo in sella però, ci attenderà un viaggio tanto pericoloso quanto adrenalinico.

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