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Pro
- Un ritorno alle origini che farà piacerà ai fan
- Visivamente davvero bello
- Passi in avanti sul gameplay
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Contro
- Chi ha amato la verticalità di Dying Light 2 rimarrà molto deluso
- Alcune attività decisamente riempitive
Il verdetto di Tom's Hardware
Informazioni sul prodotto
Dying Light: The Beast
Molti fan lo hanno pensato, e Techland sembra averli ascoltati. Che in Dying Light 2, tra le corse a perdifiato sui tetti di una Villedor quasi solare, si fosse persa per strada un'anima. Quell'anima più sporca, disperata e claustrofobica che aveva reso il capostipite un'esperienza indimenticabile. Dying Light: The Beast è la risposta, brutale e senza compromessi, a quel sentimento.
È un'opera che consapevolmente rinuncia alla grandiosità per riscoprire il terrore. Via le architetture imponenti, dentro un inferno di fango, radici contorte e acquitrini dove il pericolo non viene dall'alto, ma striscia al tuo fianco, invisibile. Si tratta di un coraggioso e riuscito ritorno al passato, un'immersione totale nell'orrore che pone una domanda fondamentale: è questo il capitolo che riconcilierà l'intera community con la saga?
La Lotta Interiore di Kyle Crane
L'intera architettura narrativa di Dying Light: The Beast si fonda su un'unica, potente premessa: il ritorno di Kyle Crane. Non si tratta di un semplice cameo o di un pretesto per riavvicinare i fan storici, ma del vero e proprio motore emotivo e tematico dell'esperienza. Il gioco riprende coraggiosamente il finale ambiguo dell'espansione The Following, trasformando quella che era una tragica possibilità in una cruda realtà: Kyle è sopravvissuto, ma a un prezzo terribile. È diventato un ibrido, un Volatile senziente che lotta disperatamente per non soccombere all'istinto omicida che il virus gli impone.
Questa lotta interiore è il cuore pulsante del gioco, un'esperienza tangibile e costante. La narrazione è infatti costellata dal dialogo interiore lacerante di Kyle, dove i ricordi, i rimorsi per gli eventi di Harran e il disperato aggrapparsi alla propria identità si scontrano con un sussurro primordiale, una fame predatoria che lo spinge alla violenza. Il tema centrale è la disintegrazione del sé, con Kyle che si chiede costantemente se le sue azioni siano frutto della sua volontà o degli impulsi del virus. Questa incertezza si riflette nelle sue interazioni con i pochi sopravvissuti, la cui paura e diffidenza non fanno che alimentare il suo tormento.
Di conseguenza, la sua missione contro il Barone non è solo un tentativo di salvare ciò che resta del mondo, ma un disperato percorso di espiazione, una ricerca di redenzione quasi impossibile per dimostrare a se stesso, prima che agli altri, che l'uomo può ancora prevalere sulla bestia.
Questa scissione della sua natura si traduce in un sistema di gioco a due facce, geniale nella sua implementazione. Giocare nei panni dell'umano significa rivivere le classiche meccaniche di Dying Light, ma elevate da un senso di vulnerabilità ancora maggiore, facendo affidamento sul parkour per fuggire, sul crafting per creare armi improvvisate e sull'astuzia per tendere trappole. Ogni scontro è un rischio calcolato.
Attivare la forma "bestia", d'altro canto, cambia completamente le regole, trasformando Kyle in un predatore alfa dotato di forza bruta, agilità sovrannaturale e attacchi feroci. L'uso di questi poteri, tuttavia, ha un costo enorme: ogni secondo passato in questa forma erode la sanità mentale di Kyle, rendendo il controllo sempre più difficile e portando a conseguenze narrative tangibili. Siamo quindi costretti a una gestione costante del rischio, decidendo se scatenare il mostro per sopravvivere o se resistere per preservare un briciolo della propria umanità.
Insomma, sebbene la sceneggiatura non si discosti da certi canoni del genere, riesce a tessere una storia matura e coinvolgente, incentrata su temi intimi come il rimorso, la perdita d'identità e la disperata ricerca di redenzione.
L'Evoluzione della specie
Come da tradizione, il gameplay di Dying Light: The Beast poggia saldamente sui due pilastri che hanno definito la serie: il parkour e il combattimento corpo a corpo. Tuttavia, definirli semplicemente "revisionati" sarebbe riduttivo. Entrambi i sistemi sono stati oggetto di una profonda e coraggiosa reimmaginazione, volta a servire la nuova, opprimente atmosfera del gioco.
La novità più eclatante è senza dubbio l'abbandono della verticalità urbana, che lascia il posto a una traversata più orizzontale, ma infinitamente più complessa e insidiosa. Il sistema di movimento appare ora più organico e istintivo, una risposta diretta a un ambiente che non è più un parco giochi architettonico, ma un avversario vivo e ostile.
La sensazione di libertà non deriva più dalla possibilità di scalare un grattacielo per sfuggire al pericolo, ma dalla capacità di leggere l'ambiente in una frazione di secondo. Ogni elemento dello scenario diventa parte di una disperata coreografia di sopravvivenza: una scivolata nel fango per schivare un attacco, un'arrampicata febbrile su un albero caduto per guadagnare un attimo di respiro, un balzo quasi impossibile tra rocce scivolose per attraversare un torrente. Il gioco ci costringe a pensare e muoverci non più come acrobati urbani, ma come creature braccate, dove l'adattabilità e l'istinto prevalgono sulla pianificazione.
Questa stessa filosofia di brutalità e realismo permea il sistema di combattimento, ora più tangibile e viscerale che mai. Il feedback delle armi, ancora assemblabili tramite un sistema di crafting più ricco e contestualizzato all'ambiente rurale, è stato potenziato a tal punto che ogni colpo trasmette una sensazione di impatto fisico devastante.
Il vero salto di qualità, tuttavia, risiede nell'evoluto sistema di danni localizzati. Sulla configurazione PC di fascia alta da noi testata, questa feature trasforma ogni scontro in uno spettacolo cruento e, soprattutto, strategicamente rilevante. Colpire una gamba non significa solo mutilare, ma rallentare un inseguitore; spezzare un braccio disarma un nemico dotato di un'arma improvvisata; un colpo ben piazzato alla testa è l'unica garanzia di non vederlo rialzarsi.
A rendere ogni scontro una sfida imprevedibile contribuisce un'intelligenza artificiale dei nemici notevolmente più sofisticata. Gli infetti non sono più una massa informe che si lancia ciecamente contro il giocatore, ma agiscono con un'inquietante sinergia. Utilizzano vere e proprie tattiche di branco per accerchiare la preda, la stanano da eventuali ripari e sfruttano attivamente l'ambiente a loro vantaggio, magari abbattendo ostacoli per bloccare una via di fuga. In questo nuovo inferno selvaggio, il combattimento cessa di essere una semplice meccanica per diventare una danza brutale e disperata, dove ogni risorsa, ogni movimento e ogni colpo sono questione di vita o di morte.
Scatena la bestia
Il celebre ciclo giorno-notte raggiunge in The Beast la sua massima espressione. Di notte, il mondo di gioco si trasforma in un regno di terrore incontrastato, dove creature più veloci, aggressive e letali emergono dall'oscurità, costringendo il giocatore a un approccio radicalmente diverso, basato sulla furtività e sulla fuga.
È in questi frangenti che la nuova meccanica della trasformazione in "bestia" brilla. Non si tratta di una semplice abilità speciale, ma di uno stile di gioco alternativo, dotato di un proprio albero di abilità e di specifiche dinamiche. Scatenare la furia primordiale di Kyle permette di ribaltare situazioni disperate, ma ha un costo: ogni utilizzo indebolisce la sua umanità, con conseguenze tangibili sulla narrazione e sulle interazioni con gli altri personaggi. Questa gestione del rischio tra potere e controllo è l'elemento più riuscito e innovativo del titolo, integrato in modo intelligente sia nelle missioni principali che in alcune secondarie.
Proprio quest'ultime vanno oltre le semplici commissioni per includere vere e proprie sotto-trame, l'esplorazione di "zone morte" infestate alla ricerca di risorse rare e la risoluzione di misteri legati all'evoluzione del virus.
A tutto questo si aggiunge la garanzia quasi assoluta del supporto post-lancio tipico di Techland. Forti dell'incredibile longevità del primo capitolo, possiamo aspettarci che The Beast venga trattato come una piattaforma in continua evoluzione, arricchita nel tempo da aggiornamenti, eventi e, molto probabilmente, nuove espansioni narrative. Si tratta dunque di un'offerta completa sin dal lancio ma con la promessa di un futuro ancora più vasto.
Un passo avanti visivo
Sul piano audiovisivo, Dying Light: The Beast compie un notevole passo avanti, dimostrando una maturità artistica che va oltre la semplice conta poligonale. Sebbene non si tratti di una rivoluzione grafica generazionale, l'evoluzione rispetto ai capitoli precedenti è evidente e, soprattutto, funzionale a un'immersione senza precedenti. La direzione scelta da Techland è chiara: la tecnologia deve servire l'orrore.
L'illuminazione volumetrica, per esempio, non è un mero abbellimento tecnico, ma un elemento chiave del gameplay. A questo si aggiunge una gestione magistrale delle superfici umide, con riflessi che trasformano il paesaggio in uno specchio deformante dove è facile confondere il pericolo reale con la sua immagine riflessa in una pozza.
Il design grottesco delle creature, inoltre, raggiunge nuove vette di inquietudine, mostrando come il virus si sia adattato all'ambiente selvaggio, generando abominazioni con escrescenze fungine per mimetizzarsi o con tratti anfibi per cacciare negli acquitrini.
L'impatto visivo è completato da un comparto audio eccellente, che alterna silenzi oppressivi, rotti solo dal crepitio di un ramo secco, a un tessuto di suoni ambientali che tengono il giocatore costantemente all'erta. Sulla nostra configurazione di prova, il gioco si è dimostrato solido e sorprendentemente ben ottimizzato, mantenendo un frame rate stabile anche nelle fasi più caotiche, un fattore cruciale che garantisce la reattività dei controlli e preserva intatta la tensione.