Spesso pensiamo che un errore sia un dramma irrecuperabile, qualcosa che non dovrebbe mai accadere; in alcuni casi è vero, ma nella maggior parte dei casi un errore è una cosa recuperabile. Anzi, quando si tratta di rapporto con i clienti, forse loro preferiscono qualcuno che è capace di correggere, piuttosto che qualcuno che sembra non sbagliare mai.
Lo suggeriscono le recenti dichiarazioni di Christopher Nassetta, CEO di Hilton, che ribaltano la narrativa: i clienti che incappano in un problema e lo vedono risolto con cura tendono a tornare più volentieri di quelli che hanno avuto un soggiorno senza intoppi.
Qualcosa che per alcuni di noi potrebbe essere controintuitivo, specialmente per quelle persone - abbondanti in Italia - abituate a considerare la “penna rossa” come un segno di infamia indelebile. Invece no, un errore è un’opportunità per crescere, per fare meglio, per aumentare la soddisfazione del cliente.
L'idea di una "perfezione a tutti i costi" non è solo irrealistica, ma strategicamente debole. Un sistema che non contempla il fallimento è un sistema fragile, incapace di evolvere. È un principio che conosciamo bene in ambito educativo: a scuola, l'errore non è il contrario dell'apprendimento, ma il suo motore primario. Senza lo "scarto" cognitivo dell'errore, non c'è vera interiorizzazione del concetto. Analogamente, nel fare impresa – specialmente nel mondo delle startup e dell'innovazione tecnologica – il fallimento è spesso un passaggio obbligato, una feature del percorso verso il successo, non un bug.
L'umanesimo del disservizio
Perché la risoluzione del problema è così potente? Perché rompe le barriere tra cliente e fornitore, e permette al primo di vedere le reali qualità del secondo (se ce ne sono).
Quando tutto funziona perfettamente, l'azienda è un'entità astratta, un algoritmo invisibile. Ma quando qualcosa si rompe e qualcuno (o qualcosa) interviene per aggiustarlo, l'azienda diventa "reale". Si manifesta una relazione.
Come abbiamo spesso osservato analizzando l'evoluzione della customer experience B2B, la fiducia non nasce dall'infallibilità, ma dalla responsabilità. Nassetta sottolinea che il "Service Recovery Paradox" si attiva quando il cliente percepisce che l'azienda si sta facendo carico del suo disagio. È qui che la tecnologia deve intervenire, non per nascondere la polvere sotto il tappeto, ma per fornire agli operatori gli strumenti per una "riparazione" tempestiva ed empatica.
L’AI per un Customer Care migliore
Naturalmente anche la famosa catena di Hotel sta cercando di usare l’IA per migliorare l’esperienza dei clienti, ma è una scelta che può andare in direzione contraria. Con l’IA si rischia di cadere nel solito equivoco: usare la tecnologia per blindare il processo e sterilizzare l'esperienza. Se l'IA serve solo a creare un muro di gomma tra l'utente e l'azienda, abbiamo fallito. È un’esperienza che molti di noi purtroppo conoscono, quella di cercare supporto e trovare solo un bot che è totalmente e drammaticamente inadeguato.
La vera sfida per i manager e i CTO è quindi progettare sistemi che possano davvero migliorare l’esperienza dei clienti, facendo cioè quanto suggerisce Nassetta. Come discusso in merito all'impatto dell'IA sul marketing, l'obiettivo non è automatizzare la perfezione, ma potenziare la capacità umana di risolvere i problemi. Se un'azienda investe milioni per azzerare gli errori ma non forma il personale (o i suoi agenti AI) alla gestione della crisi, si troverà disarmata al primo cigno nero.
In definitiva, accogliere positivamente la possibilità dell'errore significa accettare la nostra natura. Un brand che non sbaglia mai è sospetto; un brand che sbaglia e rimedia con eleganza è un partner. Forse è tempo di smettere di vendere la perfezione e iniziare a vendere la resilienza.