Negli ultimi cinque anni il lavoro agile è passato dall’essere un’eccezione a diventare una componente stabile dell’organizzazione lavorativa italiana. Al momento la diffusione dello smart working è in calo, dopo una forte accelerazione durante l’emergenza pandemica, ma è ragionevole supporre che sia una scossa di assestamento, e che presto le percentuali cambieranno di nuovo. Questa rivoluzione è apprezzata da molti e invisa a molti altri, ma nei molti dibattiti sul tema c'è un aspetto che passa spesso in secondo piano: l’impatto sulla salute.
Le abitazioni, improvvisamente trasformate in uffici, non sono nate per essere luoghi di lavoro continuativo. Cucine, camere da letto e salotti hanno sostituito le postazioni ergonomiche, mentre il tradizionale pendolarismo è stato rimpiazzato da ore di sedentarietà, schermi accesi e connessioni permanenti. Parallelamente, la distinzione tra vita privata e professionale si è assottigliata fino a dissolversi, generando nuovi equilibri, e nuovi squilibri, nella quotidianità dei lavoratori.
In questo quadro, il tema della salute fisica e mentale legata allo smart working non è più un dettaglio tecnico, ma un capitolo centrale della discussione pubblica. Lo dimostra anche l’attenzione istituzionale dedicata alla materia negli ultimi mesi: agli Stati Generali per la Salute e Sicurezza sul Lavoro è emersa con chiarezza la necessità di aggiornare criteri, strumenti e tutele, dal diritto alla disconnessione alla valutazione dello stress lavoro-correlato, fino alle sfide introdotte dall’intelligenza artificiale.
Per comprendere cosa significhi davvero lavorare da casa in modo sano, quali rischi spesso sottovalutiamo e quali accorgimenti possono prevenire problemi futuri, abbiamo coinvolto il Dott. Domenico Della Porta, professore di Medicina del Lavoro presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Internazionale Uninettuno di Roma e docente di Malattie e Rischi Occupazionali presso il Corso di Laurea per TPALL dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, che vanta una lunga esperienza nel campo della salute occupazionale. Il suo punto di vista permette di riportare la discussione su un terreno concreto: quello delle posture, degli ambienti, delle abitudini quotidiane e delle nuove vulnerabilità che accompagnano questa modalità lavorativa.
Ne è emerso un quadro articolato: lo smart working può migliorare la qualità della vita, ma solo se affrontato con consapevolezza e con un adeguato livello di attenzione verso il corpo, la mente e l’organizzazione del tempo. Senza queste accortezze, rischia di trasformarsi in un acceleratore di problemi che spesso si manifestano in modo silenzioso, quotidiano e progressivo.