Il 2025 sembra segnare il punto di non ritorno per la flessibilità lavorativa in Italia, certificando una "grande restaurazione" che vede l'85% della forza lavoro operare esclusivamente in presenza. Il dato, in crescita rispetto all'82% dell'anno precedente, relega la modalità ibrida a un marginale 12%, smantellando di fatto le conquiste organizzative post-pandemia.
Questa inversione di rotta non è però indolore: la rigidità imposta si scontra frontalmente con le esigenze dei lavoratori, generando una frattura silenziosa ma profonda. È la conferma empirica di una dinamica che avevamo già anticipato: il lavoro da remoto funziona, ma il problema restano certi capi medievali, ancorati a una visione del controllo visivo come unico indicatore di performance.
Il quadro che emerge dal recente Report sulla Retribuzione 2025 descrive un tessuto produttivo dove il presenzialismo, inteso come l’ideologia che dà valore alla presenza a prescindere dai risultati, torna a essere la regola aurea, spesso a discapito della salute organizzativa e fisica delle persone. Se le aziende celebrano il ritorno alle scrivanie, i dipendenti ne pagano il conto: il 31% denuncia un impatto negativo sul benessere psicofisico e il 23% indica nella difficoltà di conciliare vita privata e professionale una fonte primaria di stress. Non sorprende, dunque, che lo smart working in Italia non funzioni senza la giusta cultura manageriale, un deficit strutturale che trasforma l'ufficio da luogo di collaborazione a recinto di sorveglianza.
La crisi di retention e l'illusione del controllo
La conseguenza diretta di questa rigidità è un rischio concreto di emorragia di talenti. Più di un dipendente su due (54%) sta seriamente valutando di lasciare il proprio posto. Le cause vanno oltre il semplice stipendio inadeguato (36%); pesano enormemente il carico di lavoro eccessivo (33%) e la mancanza di riconoscimento (24%). È il sintomo di un malessere diffuso che colpisce duramente i più giovani (18-34 anni), per i quali l'ufficio "vecchio stile" è ormai un concetto obsoleto. Infine ma non ultimo, vanno citate quelle analisi che interpretano la politice RTO (Return To Office) come una forma mascherata di licenziamento.
Molte aziende tentano di compensare la perdita di flessibilità spaziale con leve retributive, come welfare e benefit personalizzati. Tuttavia, questo approccio rischia di essere un palliativo se non accompagnato da una revisione profonda dei processi. Come abbiamo analizzato parlando di smart working e leadership nella seconda parte della nostra inchiesta, la produttività non si compra con i buoni pasto, ma si costruisce sulla fiducia e sugli obiettivi. Se l'unica risposta alla richiesta di autonomia è un aumento marginale del pacchetto welfare, il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro è destinato ad ampliarsi.
Il fenomeno italiano non è isolato, ma si inserisce in un contesto globale dove le politiche di RTO (Return to Office) stanno mostrando i loro limiti. In molti sottolineano come la resistenza al ritorno in ufficio non sia capriccio, ma una richiesta di evoluzione del rapporto di lavoro. In Italia, tuttavia, sembra prevalere la paura di perdere il controllo diretto sulle risorse.
Se il 2025 sancisce la vittoria numerica dell'ufficio fisico, i dati sulla retention suggeriscono che potrebbe trattarsi di una vittoria di Pirro. Avere i dipendenti seduti alla scrivania non serve a nulla se la loro mente è già altrove, proiettata verso aziende capaci di valutare il risultato e non il cartellino. La sfida per il management italiano è capire se vuole essere carceriere di corpi o leader di talenti.