Il governo australiano sta valutando di imporre alle Big Tech, ovvero l'insieme delle grandi aziende tecnologiche con un focus sempre più spinto sull'intelligenza artificiale, di investire direttamente nella rete elettrica, finanziando nuovi impianti solari ed eolici. L'obiettivo è compensare l'enorme fame di energia dei loro data center.
Il punto di partenza è che per sostenere il crescente numero di data center serve e servirà sempre più energia. E se in alcuni casi le aziende stesse possono farsi un proprio mini reattore nucleare, nella maggior parte dei casi l’energia arriva dalla rete nazionale.
Una rete che, in ogni paese del mondo, significa trovare nuove fonti di energia; perché - ormai è evidente - aumentare l’efficienza non può bastare. Quindi servono investimenti, e se le casse pubbliche non bastano, perché non chiedere proprio a quelle aziende che la useranno, l’energia?
Naturalmente la risposta potrebbe, dovrebbe essere, che le aziende in questione pagheranno la bolletta, e che quest’ultima in qualche modo dovrebbe includere i costi per realizzare l’infrastruttura. Tuttavia, a questo pensiere di buon senso se ne può opporre un altro altrettanto di buon senso: se quella nuova infrastruttura va realizzata apposta per loro, perché poi il costo andrebbe ridistribuito tra tutta la popolazione?
Secondo le proiezioni australiane, il settore AI potrebbe assorbire fino al 12% dell'elettricità nazionale entro il 2050, una crescita che mette a dura prova la stabilità della rete.
La proposta del ministro Tim Ayres è dunque chirurgica: chi vuole i benefici dell'AI deve garantirne i co-requisiti energetici, rendendo gli investimenti in data center una leva per potenziare e assicurare il futuro energetico. Ayres ha promesso un "co-requisito" per le grandi aziende, chiedendo esplicitamente di usare questi investimenti per pagare "nuova capacità di generazione e di trasmissione". Si tratta di un approccio che cerca di risolvere alla fonte quella che altrimenti sarebbe una colossale esternalità negativa.
Un modello per affrontare il consumo globale
La situazione australiana è riflesso di quella globale. L'esplosione dei carichi di lavoro legati all'AI, in particolare i Large Language Models (LLM), spinge i data center verso consumi che non possono essere ignorati - tra l’altro amplificati anche dalle necessità di raffreddamento. In Italia, lo scenario è altrettanto nitido: si prevede che entro la metà del prossimo decennio la potenza installata dei data center possa oscillare tra i 2,3 e i 4,6 GW (a fronte di 513 MW nel 2024), con un assorbimento che potrebbe arrivare fino al 13% del totale nazionale.
Questo "appetito energetico formidabile" è l'elemento determinante nella scelta dei siti per le nuove installazioni. Se le grandi aziende come Amazon Web Services (AWS) si stanno già attrezzando investendo in nuove fonti per la loro business continuity, l'onere ricade inevitabilmente sull'infrastruttura pubblica.
L’idea australiana, che richiede un investimento energetico in cambio della possibilità di espandersi, non è solo una tassa, ma un tentativo di integrare lo sviluppo tecnologico con la sostenibilità del sistema, trasformando il problema in un'opportunità di potenziamento della rete.
Il dilemma del progresso
I data center sono asset strategici, ma sono anche strutture avide non solo di elettricità, ma anche di acqua per i sistemi di raffreddamento, deviando risorse ingenti dalle comunità locali. L'AI solleva quindi un dilemma etico e pratico: come si giustifica un aumento esponenziale della domanda energetica e idrica in un momento di crisi climatica?
Se da un lato l'AI promette una "opportunità economica unica" per la produttività, dall'altro comporta diversi rischi relativamente alla qualità della vita delle persone, per un più difficile accesso ad acqua ed elettricità. Non è uno scenario ipotetico: ci sono già situazioni dove le persone si sono trovate l’impianto di casa senza pressione, o aziende - anche in Italia - che si sono viste rifiutare l’energia elettrica perché occupata da un datacenter nella zona.
Risolvere questi problemi con il denaro pubblico è difficile, sopratutto se lo si vuole fare senza nuove imposte. Si chiede così che il progresso tecnologico sia pro-attivo e non solo reattivo rispetto alle sfide ambientali.
Se gli hyperscaler non saranno costretti a farsi carico della sfida energetica in modo strutturale, si limiteranno a tamponare con politiche di facciata, con qualche forma di *washing. Le aziende devono invece rendersi conto che la disponibilità di energia elettrica non è una variabile infinita, e che la loro attività ha dei costi aggiuntivi che non devono ricadere sulla comunità.
Stiamo tuttavia parlando di un’azione dalle inevitabili connotazioni politiche, e non mancherà chi ne approfitterà per parlare di estremismo, dove qualcun altro vede ragionevolezza.