Blade Runner 2049, tra blockbuster e autorialità

Blade Runner 2049 è un film bello ma algido, afflitto da alcuni problemi di sceneggiatura e dalla presenza schiacciante dell'originale. Pregevoli regia e fotografia, che da sole però non sono sufficienti a consegnarlo alla storia del cinema.

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a cura di Alessandro Crea

Sgombriamo subito il campo dalle due domande del momento: Blade Runner 2049 è un bel film? Sì. È al livello del predecessore? Assolutamente no. E non lo diciamo per snobismo, né perché lo valutiamo sotto il peso emotivo che ci lega inevitabilmente all'originale. Non lo è perché ha diversi difetti e debolezze nella sceneggiatura e perché gioco forza non potrà avere l'impatto dirompente sulla cultura di massa e sul cinema stesso che ebbe l'originale.

Il film è magistrale come spettacolo puramente visivo ma dilapida il suo patrimonio artistico nell'indecisione tra blockbuster e autorialità, pagando uno scotto pesante in uno sforzo didascalico che ne svilisce i contenuti e fa perdere forza e poeticità a un impianto narrativo che già di suo non mostrava di poter aggiungere qualcosa di decisivo a quanto detto 35 anni fa.

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Il discorso formale rappresenta quindi il principale punto di forza del film, soprattutto grazie all'eccellente lavoro svolto da Denis Villeneuve e Roger Deakins sugli spazi e sui colori. Alla solitudine claustrofobica delle folle anonime della piovosa Los Angeles di Ridley Scott fanno così da contraltare l'isolamento delle nuove location. Serre disperse nella nebbia, deserti di polvere da cui emergono fantasmi del consumo e del divertimento seriale e caseggiati tra la neve, tutti assolutamente vuoti e abbandonati, se non per la presenza solitaria di pochi personaggi.

Questo lavoro sullo spazio è compendiato poi da Deakins, che dipinge le varie location utilizzando una tavolozza di colori complementari. Così ai blu, ai magenta e ai verdi delle notti elettriche della metropoli si contrappongono i gialli, i rossi e gli arancioni dell'asfissiante e radioattiva Las Vegas, con i grigi e i bianchi di nebbia e neve a disegnare due intermezzi di malinconia e lontananza.

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Ma Blade Runner 2049 è anzitutto e soprattutto un film postmoderno sulla memoria e sui sentimenti che l'accompagnano: la paura, che è perdita della memoria, e la malinconia, che è memoria della perdita.

A livello formale il film stesso è fatto di altre visioni e disseminato di citazioni sia colte - Chinatown di Polanski, Diario di un Ladro di Bresson - sia pop, come Indiana Jones e il Tempio Maledetto. Dentro però c'è soprattutto l'eco di Blade Runner. La solitudine e la notte. Le strade di pioggia e neon e le musiche elettroniche. Le pubblicità colossali che incombono come simulacri indecifrabili di sogni e desideri. C'è tutto, apparentemente, ma in realtà è tutto profondamente diverso, come in un sogno o in un ricordo appunto.

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Tanto il primo era buio e pieno di polvere trafitta da fasci di luce che non illuminano, quanto questo è geometrico e chiaro. Anche se popolato di chiaroscuri 2049 resta infatti sempre leggibile e intelligibile, specchio non solo di una visione più pacificata e speranzosa, ma anche della precisa volontà di voler rendere semplice ciò che è apparentemente complesso.

Il discorso sulla memoria fa da fil rouge tra le due pellicole anche a livello contenutistico. I ricordi infatti sono il segno distintivo, il discrimine tra replicante e umano. Essi rimpiange Roy Batty morendo, Essi usa Deckard per svelare a Rachel di essere artificiale e sempre Essi usa Gaff per instillare al protagonista il dubbio sulla propria natura.

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In 2049 poi la memoria è se possibile ancora più centrale, costituendo di fatto l'ossatura portante della trama, tutta incentrata sull'ossessivo ricordo di K - che specularmente a Deckard sa di essere artificiale ma sospetta di essere umano - che è anche una traccia da seguire per rivelare un segreto che coinvolge profondamente il destino di uomini e replicanti.

Purtroppo però Blade Runner 2049 si rivela esso stesso un replicante senz'anima. Visionario quanto incapace di empatia ed emozione, si esaurisce in un gioco colto e in un formalismo se non fine a se stesso comunque incapace di sostenere l'enorme peso della sua eredità. Per questo purtroppo il suo ricordo è inevitabilmente destinato a perdersi, come lacrime nella pioggia.


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Lo sapevate che il titolo di uno dei film più famosi del mondo non ha niente a che fare con l'universo di Philip Dick che lo ha ispirato? È infatti il titolo originale di Medicorriere di Alan E. Nourse, di cui Scott aveva acquisito i diritti anni prima di realizzare Blade Runner.