Horror: dagli inizi al cinema horror anni '60

Horror: dagli inizia al cinema horror anni '60. Un viaggio attraverso il genere che ha cambiato il volto del cinema per sempre.

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a cura di Rossana Barbagallo

Quando ancora non c’era una chiara linea di demarcazione tra i generi cinematografici, le primissime pellicole dell’orrore hanno contribuito a definire un genere inequivocabile, benché declinato in diverse forme e interpretazioni. Sul concludersi dell’800 e con l’ingresso nel ventesimo secolo, la paura si è fatta cinema trasferendo i mostri della letteratura su quelle pellicole che avrebbero terrorizzato, attratto e fatto la storia. Non si è trattato però di una mera operazione di “adattamento”. Quello che ha finito per essere chiamato con il nome che gli spettava, cinema horror, e che ha rappresentato forse il primo, vero genere cinematografico, ha assorbito le paure, le angosce, i timori di quanto stava accadendo nella società e li ha tradotti. I registi horror hanno letteralmente proiettato su uno schermo ciò che di più spaventoso ha esperito l’umanità (le guerre, l’atomica, le crisi economiche) dando alle paure e alle fobie sociali la forma di creature oscure o bizzarre, scenari di morte e follia o pratiche abominevoli.

La storia del cinema horror è ricca e complessa, con propaggini che si diramano in molte direzioni in base al sottogenere in cui si è evoluto. Vale la pena allora di comprendere meglio come tutto ha avuto inizio: il primo film horror della storia, i classici immortali che hanno dato il via al genere e i contesti sociali entro cui hanno avuto modo di fermentare e crescere, fino a diventare titoli di cui la definizione di orrore, oggi, non può più fare a meno.

Horror: dagli inizi al cinema horror anni '60

Il primo film horror della storia

Se la paura è il sentimento più atavico insito nell’animo umano, parte integrante del nostro corredo genetico fin dagli albori, è inevitabile che a un certo punto della storia essa trovi una sua espressione anche nel cinema. Già nella letteratura e nelle arti visive l’orrore aveva trovato un posto speciale nei cuori del pubblico, soprattutto con quella letteratura gotica degli albori che aveva proposto narrazioni irresistibili. Verso la fine del XIX secolo, però, il nastro di celluloide entra a far parte delle nuove tecnologie umane, il cinematografo viene introdotto nella società e non passa molto tempo da quel fatidico 28 dicembre 1895 (la data della prima proiezione a pagamento) affinché le immagini in movimento siano utilizzate per ritrarre il terrore, l’angoscia e lo spavento. Fuori dai libri e dai quadri, dentro a un rettangolo su cui i personaggi si muovono, parlano e vivono. Questo è l'inizio, prima di approdare al cinema horror anni '60.

Perché? Perché l’istinto è sempre quello di “guardare”: magari coprirsi gli occhi, sì, ma poi scostare la mano per vedere ciò che sta accadendo, anche se ci fa orrore o raccapriccio. Perché vogliamo sapere, in fondo, cosa ci fa paura e vederne il volto: residui di un istinto ancestrale che in un altro tempo ci avrebbe consentito di sapere cosa ci dava la caccia e avere coscienza su come affrontarlo? O semplicemente la consapevolezza che nel vedere l'orrore in faccia rimaniamo comunque al sicuro entro le mura di una sala cinematografica che trasmette la pura finzione? L’evidenza di quanto sia affascinante la sfera dell’orrore, comunque, è chiara ed è rappresentata dai primi esperimenti cinematografici documentati. Nel tentare di scovare il primo film horror della storia, tendenzialmente si potrebbe risalire a quello girato da Georges Méliès intitolato Le Manoir du Diable, del 1896. Un piccolo cortometraggio di poco più di 3 minuti in cui un pipistrello si trasforma in Mefistofele per portare a termine i suoi piani malvagi, in mezzo a quelle che sono le prime sperimentazioni sugli effetti speciali. Qualcosa che oggi non spaventerebbe nessuno, ma che all’epoca doveva sembrare sicuramente fuori dall’ordinario.

Se parliamo però di lungometraggi in senso stretto, il primo film horror della storia può essere considerato Il Gabinetto del Dottor Caligari, del 1920. All'indomani della Prima Guerra Mondiale il clima generale in Germania è cupo: gli animi sono devastati dalla violenza cui hanno assistito con il conflitto, l'economia è disastrosa, il senso di sconfitta dilagante. In un frangente socio-politico simile l'arte si modella in una nuova forma, che dà modo agli autori di forgiare la violenza espressiva delle emozioni soggettive e il proprio pessimismo in un movimento che non avrebbe potuto chiamarsi altrimenti: espressionismo. Contrastante la realtà oggettiva, rifiutando la descrizione del concreto, l'espressionismo si fa portavoce dei sentimenti turbolenti del periodo, anche attraverso la settima arte. Nel cinema, è proprio Il Gabinetto del Dottor Caligari, del regista Robert Wiene, a rappresentare il manifesto espressionista dell'epoca attraverso le sue formule d'avanguardia.

Le scenografie sono cupe e folli, costruite su geometrie "non euclidee", con angoli acuti, spigolosi, piani registici distorti, ombre minacciose e cariche di mistero. I volti degli attori sono pesantemente truccati e avvolti da chiaroscuri che li rendono spaventosi. La stessa trama del film è una discesa verso la follia: attraverso il racconto del protagonista, Francis, su un imbonitore che controlla un uomo in perenne stato di ipnosi, confondiamo realtà oggettiva e soggettiva, sanità mentale e pazzia. E il terrore di non saper più operare una distinzione si proietta su di noi. Il Gabinetto del Dottor Caligari può essere considerato per questo il primo film horror della storia, laddove l'orrore di una subdola follia latente nella società tra due guerre devastanti, si insinua strisciante nell'individuo, per la prima volta nella storia del cinema. L'effetto di questo film è disagiante, attraverso le atmosfere da incubo, cupe e angosciose, che verranno adottate nel cinema horror successivo; le forme distorte di fronte a cui si trova lo spettatore; i dubbi che si insinuano in esso su ciò che è reale e ciò che non lo è.

Il Golem e il Vampiro

Prima ancora che il Dottor Caligari compiesse le sue malefatte con l'ipnosi, nel 1915 Paul Wegener e Henrik Galeen adattano il romanzo di Gustav Meyrink intitolato Il Golem, realizzando un lungometraggio che può essere annoverato tra i primi esperimenti horror della storia. Ci troviamo sempre in Germania e, benché non vengano ancora adottate le soluzioni scenografiche e registiche di Wiene che faranno da scuola per l'horror, siamo di fronte a un prodotto filmico innovativo e perturbante che pesca direttamente dal folklore medievale per proporre un mostro capace di inserirsi tra vampiri, creature redivive e fantasmi. Di per sé, il golem è infatti una creatura avvolta nel mistero dell'esoterismo che affonda le proprie radici nelle leggende ebraiche e che trova terreno fertile nelle credenze folkloristiche del medioevo: un essere antropomorfo di enormi proporzioni, creato a partire dall'argilla, dotato di una forza sovrumana.

Il Golem di Wegener e Galeen rievoca la leggenda sullo schermo, narrando di un antiquario che infonde la vita in una simile creatura, salvo poi perderne il controllo. Il golem creato si innamora infatti della figlia dell'antiquario e, ricevendo da essa un rifiuto, avvia la sua opera di distruzione e caos in tutto il quartiere seminando il terrore. Il tragico quanto salvifico finale, vede il golem precipitare da una torre e disintegrarsi al suolo. Non c'è dubbio che, nella storia del cinema horror, una simile composizione filmica destabilizzi e infonda un costante senso di minaccia e pericolo, attraverso una creatura mostruosa e gigantesca che tiene in scacco tutta la comunità. Siamo ancora lontani dai totalitarismi che getteranno la loro ombra sull'Europa e il mondo tutto, ma è difficile non trovare le prime avvisaglie di quello che gli artisti e soprattutto i registi dell'epoca sentono come un indefinibile senso di pericolo. L'arte filmica diventa qui premonizione del controllo politico e sociale che di lì a poco esploderà, teorizzato da Siegfried Kracauer nel suo saggio storiografico Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco.

È ancora una pellicola tedesca, quella che terrorizza il pubblico nel 1922 con la spaventosa figura del vampiro, liberamente ispirata a quella più celebre del Dracula di Bram Stoker. Con Friedrich Wilhelm Murnau e il suo Nosferatu il Vampiro torniamo al cinema horror espressionista, all'oscurità, ai piani distorti e disagianti, i giochi di ombre che talvolta terrorizzano più delle esplicite figure che le proiettano. Nei panni del conte Orlok/ Nosferatu troviamo un Max Schreck trasfigurato dal trucco in una creatura della notte sovrumana e terrificante, quasi demoniaca, tanto da alimentare la leggenda secondo cui l'attore sia realmente un vampiro scovato da Murnau nei Carpazi. Al netto delle credenze popolari intessute attorno al film, Nosferatu il Vampiro spaventa sì attraverso questa figura ai limiti dell'animalesco che si sfama bevendo il sangue delle vittime che cadono tra le sue grinfie, ma anche per la portata del potere malefico che Nosferatu sembra possedere. Al suo arrivo presso il villaggio di Wisborg, conduce con sé delle bare ricolme di terra infetta dalla peste nera, diffondendo la letale epidemia nella comunità.

È quasi impossibile non rintracciare in tutto ciò l' "epidemia sociale" che si abbatte sulla popolazione tedesca in questo periodo, contaminata da sfiducia, incertezza, paura per un futuro che sembra non promettere nulla di buono. Murnau percepisce sicuramente i timori collettivi che aleggiano nella società e attraverso l'espressione delle paure incontrollabili dei protagonisti del suo film, riflette in maniera visibile la sensazione di costante e imminente pericolo in cui la popolazione si ritrova nella sua epoca. Siamo all'apice del terrore, il paese e il continente tutto sono avvolti dall'ombra della guerra appena passata e dal sopraggiungere del presagio di un nuovo conflitto imminente. Ancora una volta, Nosferatu è il sanguinario signore che tiene sotto controllo la popolazione con la sua sete di sangue (e di potere), dietro le sembianze del conte Orlok, quindi di una figura dalla presunta attendibilità e affidabilità. Lo spettro di una dittatura si fa largo anche al cinema.

I mostri dell'horror Universal

Non passa molto tempo che l'horror travalichi i confini oceanici per giungere nel paese del cinema per antonomasia, gli Stati Uniti, dove la scuola dei cineasti tedeschi attecchisce per tecniche e rappresentazione del terrore. L'avanguardia mitteleuropea che si è manifestata attraverso le ultime produzioni filmiche, è accompagnata tuttavia anche dalle influenze letterarie dell'antico continente che si prestano in maniera formidabile ad essere adattate per il grande schermo. Bisogna ricordare, però, che siamo ancora agli albori del cinema horror e attorno alle primissime pellicole americane non si può adattare alla perfezione tale categorizzazione, quanto piuttosto l'idea del perturbante suscitata dalla presenza dei primi mostri che avrebbero fatto da apripista per i loro terrificanti e più celebri "colleghi".

È in particolare una casa di produzione cinematografica a comprendere la portata del nuovo genere filmico che si sta facendo largo in quest'ambito, traendo così quanto di più spaventoso esista nell'immaginario collettivo, nella letteratura e nelle paure che si insinuano tra le crepe prodotte dalle crisi socio-politiche in atto. Stiamo parlando della Universal Pictures, casa di produzione e distribuzione da cui a poco a poco vengono sfornate quelle che diventeranno le leggende del cinema horror, configurando il ventennio fino agli anni '40 come un periodo d'oro nella creazione di mostri e lungometraggi dell'orrore. In America fanno così la loro apparizione i mostri. E ad interpretare i primi tra essi è l'attore Lon Chaney, dapprima nei tragici panni del povero campanaro Quasimodo (più un uomo affetto da deformità che un tempo sarebbe stato chiamato con il poco lusinghiero freak, piuttosto che mostro), nel film Il Gobbo di Notre Dame del 1923, liberamente tratto dal romanzo di Victor Hugo. Poi in quelli del fantasma Erik nella pellicola Il Fantasma dell'Opera, adattamento del romanzo di Gaston Leroux, che fa il suo debutto in sala nel 1925.

Il talento di Chaney nell'interpretare tali creature non risiede soltanto nella caratterizzazione che opera, capace di suscitare tanta avversione quanta empatia, ma anche nella capacità che l'attore possiede nel creare make up creativi e di forte impatto emotivo. È infatti lo stesso Lon Chaney a sperimentare con il trucco, configurandosi come un pioniere in quest'arte e dando vita a creature deformi e grottesche come mai si erano viste prima d'ora al cinema, tanto da guadagnarsi l'appellativo di "uomo dalle mille facce". Come dicevamo, tuttavia, gli esempi di cui sopra provocano nel pubblico più un arco di emozioni appartenenti allo spettro del perturbante, che terrore vero e proprio. Bisognerà attendere il 1931 per assistere ai primi veri horror Universal: Dracula, diretto da Tod Browning, e Frankenstein di James Whale, lungometraggi innovativi sotto molteplici punti di vista, divenuti classici.

Canini e bulloni

Nosferatu il Vampiro di Murnau, per quanto spaventoso e originale, può essere considerato un film maledetto: su questa pellicola, alla sua uscita, era calata infatti la scure della violazione del copyright mossa sul regista da parte della famiglia Stoker, costringendo Murnau a distruggere ogni copia prodotta (l'unica pellicola clandestina rimasta intatta è stata conservata dallo stesso regista giungendo fino a noi). Nel 1931 tuttavia viene fatto un altro tentativo con quel malvagio vampiro che Bram Stoker aveva fatto vivere tra le pagine del suo celebre romanzo, attraverso il lungometraggio Dracula di Tod Browning. Stavolta, la produzione acquista legalmente i diritti e il film è destinato a diventare un classico immortale, complici gli elementi che lo compongono.

Non dimentichiamo infatti che, a differenza delle produzioni precedentemente menzionate che erano sostanzialmente film muti, con Dracula si ha innanzitutto uno dei primi film horror a godere della rivoluzione del sonoro (benché sia quasi del tutto assente la colonna sonora). Uno spartiacque fondamentale, che tuttavia non avrebbe ottenuto forse lo stesso successo senza la presenza dell'attore protagonista, l'ungherese Bela Lugosi. Lo sguardo spaventoso e al contempo magnetico, l'accento mitteleuropeo dato dalle sue origini, l'eleganza aristocratica infusa nella figura del conte, contribuiscono a far sì che Lugosi realizzi una caratterizzazione magistrale e diventi il Dracula per eccellenza, modello per i successivi vampiri cinematografici (come quello interpretato da Christopher Lee) e ancora oggi figura impressa nell'immaginario collettivo. A ciò si aggiungono le atmosfere macabre e raccapriccianti di una messa in scena che sfrutta tutto il potenziale del minaccioso vampiro per creare un nuovo, indelebile immaginario (la produzione si ingegna anche nel costruire un'operazione di marketing riguardante alcuni presunti spettatori scortati fuori dal cinema in ambulanza a causa dei malori provocati dal film).

È nello stesso anno che l'horror Universal si manifesta in tutto il suo fulgore con un altro personaggio letterario trasposto sul grande schermo, promessa di una leggenda cinematografica imperitura: la creatura di Frankenstein interpretata da Boris Karloff, nella pellicola di James Whale. Dal romanzo di Mary Shelley pubblicato nel 1818, l'esperimento del dottor Frankenstein arriva anche al cinema, dove la creatura composta da parti umane riportata alla vita grazie a una scienza immorale, spaventa il pubblico e al contempo mostra il suo lato umano. Whale dà infatti il via libera a prodezze visive che, se da un lato impongono sul pubblico la pesantezza delle suggestioni macabre e violente e del bagaglio etico condotto dall'esperimento di Frankenstein, dall'altro sposano un atteggiamento delicato ed empatico verso quella creatura che non ha scelto di essere ciò che è.

A terrorizzare però non sono solo i risvolti scientifici di questo nuovo horror fantascientifico, dove si inizia a giocare con la conoscenza e la tecnologia, solleticando la paura dello "spingersi troppo oltre". La paura deriva anche e soprattutto dalla creatura di Frankenstein e dalle sembianze che le vengono conferite. Boris Karloff si sottopone infatti per il ruolo a intense e dolorose ore di make up, quest'ultimo ideato e realizzato da Jack Pierce: palpebre di cera incollate sugli occhi di Karloff per rendere lo sguardo più smorto e pesante, un cerone verdastro sulla pelle per dare l'idea della morte, i capelli incollati sul cranio (operazione molto spiacevole per effetto del collodio). Chissà se sia il povero Karloff che Pierce sapessero all'epoca quanto l'aspetto del mostro avrebbe avuto successo, diventando leggendario? A tal proposito basti pensare che, ancora oggi, la Universal possiede i diritti di immagine sul volto della creatura, incassando su qualsiasi sua riproduzione visiva.

Tanto Dracula quanto Frankenstein sono un vero terno al lotto per la Universal Pictures, che nel 1931 incassa diversi milioni di dollari al botteghino attraverso le due produzioni. Quasi un ossimoro, in pieno periodo di Grande Depressione americana, che però non contrasta con le due figure protagoniste dei film. Se è vero che l'horror attinge alle paure che si celano nell'animo umano e che si muovono nel sostrato sociale, la crisi determinata dal repentino crollo economico trova forma in due personaggi che nel subconscio spaventano per le loro implicazioni: Dracula è il nobile, ricco aristocratico, sanguisuga che tenta di succhiare via quel poco che resta alla povera gente ignara; la creatura di Frankenstein è un ammasso di corpi assimilabile alla massa che compone la società, impoverita e abbandonata a sé stessa, mossa alla violenza dalla sfiducia di non avere più speranze, dopo essere stata gettata nel baratro da chi stava al vertice.

Ancora un po' di monster movies

La Universal Pictures scommette molto sui suoi mostri e l'horror si arricchisce di una sfilza di personaggi cinematografici che fanno la fortuna della casa di produzione. Il 1932 segna il grande ritorno di Boris Karloff, stavolta nei panni del sacerdote Imhotep nel film La Mummia, di Karl Freund. Nuovamente al lavoro sul trucco troviamo un Jack Pierce sempre in stato di grazia, che rende Karloff una mummia impressionante. L'anno successivo approda sul grande schermo L'Uomo Invisibile, diretto dallo stesso dallo stesso James Whale di Frankenstein, con Claude Rains nei panni dall'uomo avvolto da bende. Ancora una volta l'horror fantascientifico si fa largo dalla letteratura (con il romanzo di H.G. Wells) alla sala cinematografica dove il pubblico è inevitabilmente attratto. Proseguono invece, nel 1935, gli orribili drammi della creatura di Frankenstein: Whale torna alla regia e Karloff al suo celebre ruolo, nel lungometraggio La Moglie di Frankenstein, dove il mostro condivide la sua triste sorte con un'analoga creatura di sesso femminile.

La paura nel cinema horror vive anche sotto forma di lupo mannaro, in una riscoperta della figura licantropica operata da Stuart Walker nel 1935 con Il Segreto del Tibet (traduzione piuttosto libera dell'originale Werewolf of London). Personaggio delle leggende e del folklore, l'uomo lupo diventa per la prima una mostruosa creatura cinematografica, terrificante nella sua metamorfosi che lo rende una bestia incontrollabile. La fortuna della Universal non è però sempre garantita e, mentre per il resto degli anni '40 appaiono in sala diversi altri mostri (la donna lupo e l'uomo elettrico, ad esempio), molti titoli vanno declinando verso un abbassamento generale della qualità venendo definiti B-movie, mentre vengono prodotte persino parodie che ironizzano attorno alle figure che poco tempo prima avevano spaventato gli spettatori. Nel 1954, tuttavia, vediamo apparire tra le file Universal un altro mostro destinato a rimanere per sempre nell'iconografia dell'orrore: il Gill-Man, ovvero l'orribile protagonista del film Il Mostro della Laguna Nera, di Jack Arnold. Una creatura metà uomo e metà pesce che entra di diritto nella famiglia dei mostri dell'horror Universal grazie non solo al suo aspetto terrificante, ma anche per le valenze e i sottintesi della pellicola in cui è protagonista, dove si inizia a giocare con la sfera erotica del'orrore.

Verso un horror più "aperto", fino al cinema horror anni '60

In questi primi decenni di cinema horror, benché in linea di massima fortunati e fortemente apprezzati dal pubblico, le produzioni filmiche vanno incontro, tuttavia, ad alcune censure. Un esempio tra tutti potrebbe essere il Dracula di Tod Browning da cui sono state asportate le urla del conte in punto di morte, quando Van Helsing gli pianta un paletto nel cuore, o l'avvertimento a fine film dello stesso professore che informa gli spettatori della reale esistenza dei vampiri, nonostante l'opera di finzione a cui avevano appena assistito. Una pellicola che però potrebbe essere un vero case study nella storia delle censure cinematografiche è un'altra opera dello stesso Browning che non solo ha subito dei forti tagli, ma anche una pesante stroncatura da parte della critica: si parla qui di Freaks, film del 1932 definito perverso e malsano.

Freaks mette in scena una compagine di personaggi interpretati da attori affetti da reali deformità fisiche e, spingendosi oltre le aspettative del decoro coevo, mostra atti di violenza e mutilazione come mai si erano visti al cinema fino a questo momento. Nonostante sia dunque soggetto a censure pesantissime e tagli invasivi che ne riducono la durata e in qualche modo la snaturalizzano, Freaks è destinato tuttavia al macero, mentre la carriera di Browning vede il suo tramonto a causa di questa pellicola maledetta. Troppo avanti per i suoi tempi nel rendere evidenti le reali mostruosità, tanto fisiche quanto dell'animo umano, a differenza di quelle appartenenti alla sfera della fantasia come vampiri e licantropi? Freaks viene effettivamente rivalutato molti anni più tardi, tra quei '70 e '90 in cui la controcultura riporta a galla gli aspetti più critici e riflessivi sulla società operati da una certa filmografia "troppo innovativa".

Torniamo però sui nostri passi perché a ben guardare, tra gli anni '50 e '60, il cinema horror sembra cercare di scrollarsi di dosso quegli atteggiamenti spesso manichei e votati alla preservazione di una certa sensibilità, tastando un terreno molto meno rigoroso e più aperto a nuove soluzioni. Negli anni immediatamente conseguenti al secondo dopoguerra, il budget è limitato da una crisi finanziaria dettata dai costi di una guerra appena conclusasi, ma la ripresa fa da rampa di lancio all'esigenza di esorcizzare gli orrori reali di quanto accaduto, la quale si fa sempre più forte. È forse per questo che, tra il 1955 e il 1960, fiorisce la Hammer Horror, casa di produzione cinematografica britannica che nasce in seno alla Hammer Film Productions. E non sembra così strano che ciò avvenga nel Regno Unito, uno tra i paesi investiti dalla Seconda Guerra Mondiale che, a un periodo di forte austerità economica dovuto alla ricostruzione, ha visto seguire un boom economico verso gli inizi degli anni '50 (dove la Hammer esplode iniziando dai polizieschi e dai gialli).

Nel 1955 la Hammer Horror prende il via con L'Astronave Atomica del Dottor Quatermass, di Val Guest, e primo film horror fantascientifico di una trilogia. A esso seguono infatti X Contro il Centro Atomico (1956) e I Vampiri dello Spazio (1957), tutti caratterizzati da un minore timore nel mostrare e nello svelare gli orrori di operazioni atomiche dai terrificanti epiloghi o gli effetti di un'invasione da parte di creature extraterrestri. Un altro aspetto che queste produzioni hanno in comune è però sicuramente la necessità di una catarsi da quegli orrori di una guerra che si è servita di qualcosa di inimmaginabile: la bomba atomica. Ecco dunque che sorge la paura degli esperimenti operati in tale ambito, delle mutazioni fisiche, delle degenerazioni, delle deformità e la morte che possono derivarne. In questo contesto, anche l'invasione aliena assume i tratti di un'invasione bellica, del timore che nel proprio territorio possa fare ingresso un nemico spietato e senza scrupoli, retaggi di una guerra che si fa ancora sentire profondamente.

Intanto, approda anche il cinema a colori e, a una maggiore voglia di osare, si unisce anche quella di avvalersi sempre di più delle potenzialità offerte da uno strumento simile. E il sangue può finalmente diventare realmente rosso. È in quest'epoca a colori che i film della Hammer Horror fanno la loro fortuna grazie anche alla presenza di un caratterista che prenderà parte a una lunga serie di lungometraggi: Christopher Lee (ovvero il celebre Saruman de Il Signore degli Anelli), che partendo da La Maschera di Frankenstein e passando da La Mummia del 1959, approda in una lunga produzione di film dedicati al vampirismo (dove, neanche a dirlo, è lui a interpretare Dracula). È un'epoca d'oro per la Hammer che, facendo suoi alcuni degli elementi che hanno fatto la fortuna della Universal, li riscrive in una chiave decisamente più horror: sullo schermo c'è più sangue, i mostri sono sempre più orribili, così come le morti che causano, giocando di più sugli effetti visivi. La componente sessuale inizia a giocare, in questo periodo, un ruolo maggiore: all'orrore si unisce la sensualità, la presenza di donne da irretire che immancabilmente sono sempre meno vestite e con i loro corpi esaltano le atmosfere macabre a cui viene data una sempre evidente importanza.

Paura aliena, paura dello straniero

Come dicevamo, il secondo dopoguerra marchia anche il volto cinematografico con un lascito fatto di esplosioni atomiche in grado di causare morte e distruzione su larghissima scala. Le conseguenze di un utilizzo privo di scrupoli di quanto la scienza e le tecnologie hanno da offrire, vengono immancabilmente ingigantite sullo schermo della sala, nel tentativo di esorcizzare i timori di una società che adesso sa fin dove è in grado di spingersi l'uomo. Allo stesso tempo, la scienza inizia a valicare i confini terrestri per sondare i territori inesplorati al di là dell'atmosfera: sul finire degli anni '40 vengono lanciati i primi oggetti d'esplorazione nello spazio (oltre a poveri animali inermi costretti a precedere l'uomo in queste perlustrazioni spaziali) e si iniziano a condurre progetti di ricerca su quanto c'è "là fuori". Giocare con le paure di ciò che potrebbe attenderci nel cosmo silenzioso, in agguato e pronto a invadere il nostro pianeta, è solo l'inizio poiché nasconde un sottaciuto timore diretto verso qualcosa di più concreto che ha a che fare con il clima socio-politico dell'epoca. È questo, infatti, il momento in cui la "paura rossa" si impone (e viene imposta dal maccartismo) soprattutto nella società americana: la presa di potere del comunismo, l'invasione di spie russe nel proprio paese, la paura che il capitalismo e tutti i valori di proprietà e diritto su cui esso ha costruito un'intera società possano crollare a causa di un cambiamento di paradigma portato da una paventata conquista russa.

E mentre la letteratura aveva già dato sfoggio di grandi opere horror fantascientifiche (basti pensare a quelle di H.G. Wells o H.P. Lovecraft), il cinema d'oltreoceano inizia solo negli anni '50 a sfornare titoli cult in quest'ambito, in cui però è difficile non rintracciare i suddetti timori sociali. È il caso, ad esempio, de La Cosa da un Altro Mondo, film statunitense del 1951 diretto da Christian Nyby e Howard Hawks. Protagonista del lungometraggio, una spedizione scientifica in una base di ricerca artica, che viene a contatto con una creatura aliena letale e sanguinaria. Se questa trama fa suonare più di un campanello è perché si tratta di quella che ha ispirato la produzione de La Cosa di John Carpenter, nel 1982. Intanto, nel 1956 gli USA sfornano un altro titolo leggendario nella storia dell'horror fantascientifico: L'Invasione degli Ultracorpi, di Don Siegel. Tale produzione è probabilmente quella più significativa nell'esplicare la paura degli americani per il nemico rosso: in una piccola cittadina della California, gli abitanti vengono infatti sostituiti da loro cloni alieni giunti sulla Terra per invaderla. Una produzione horror in un'epoca di kolossal filmici girata con un budget esiguo, che è capace tuttavia di terrorizzare gli spettatori con un costante e sinistro senso di minaccia.

La psicologia nel cinema horror anni '60

Concludiamo (ma solo temporaneamente) questo viaggio nella storia dell'orrore su schermo giungendo al cinema horror anni '60, a cui approdiamo navigando a bordo di un sottogenere che inizia a farsi strada in quest'epoca di grandi sperimentazioni: l'horror psicologico. Come intuibile dal nome, i film prodotti su questa base si concentrano sul terrore provocato da stati emotivi disturbati (e disturbanti), dalla suspense generata attorno a personaggi e ambientazioni inquietanti, che essi siano legati a disturbi della psiche o fenomeni surreali e sgradevoli. Portavoce e maestro di quest'epoca è sicuramente Alfred Hitchcock, il quale si distingue in particolare per due titoli ascrivibili a questa categorizzazione: Psycho (1960) e Gli Uccelli (1963).

Il primo non ha bisogno probabilmente di troppe presentazioni, trattandosi di uno dei cult più celebri non solo del cinema horror anni '60, ma anche della storia cinematografica in generale, capace di consacrare il suo regista fino a imperitura memoria. Psycho è l'adattamento dell'omonimo romanzo di Robert Bloch, riguardante le spaventose vicende che hanno davvero avuto luogo a causa del serial killer Ed Gein. Qui tuttavia gli orribili omicidi vengono compiuti da quel personaggio chiamato Norman Bates che, ad oggi, è diventato uno dei killer cinematografici più celebri, citati e riadattati in diverse altre formule, rievocando molte volte la scena cult dell'assassinio compiuto in doccia. Anche Gli Uccelli detiene un posto d'onore speciale nel cinema horror, grazie all'inquietante assalto di numerosi volatili che, non solo spaventano per l'angoscia suscitata dai loro sguardi vigili e minacciosi verso i protagonisti, ma causano vero e proprio terrore nel momento in cui avviano il loro violento attacco fisico ai danni degli uomini.

Menzione d'onore, tuttavia, anche per Carnival of Souls, del 1962, diretto da Herk Harvey. Con questa pellicola culto del cinema horror anni '60 la psiche degli stessi spettatori è messa a dura prova nell'assistere alle vicende surreali, angosciose e apparentemente inspiegabili che coinvolgono la protagonista, Mary, in un connubio di stati simil-allucinatori, fenomeni sovrannaturali, musiche demoniache e sdoppiamenti dell'identità che stravolgono ogni certezza. È forse questa l'epoca in cui inizia a farsi strada anche nella settima arte l'idea che il vero, autentico e puro orrore risieda precipuamente nella mente degli uomini, nelle loro turbe e nelle azioni conseguenti che essi possono compiere se in preda al terrore. È, insomma, la paura che gioca con la paura stessa.