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I funghi marini possono eliminare le microplastiche

Identificata nel Pacifico una specie fungina che degrada il polietilene usando il carbonio come energia: una possibile svolta ecologica naturale.

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Avatar di Patrizio Coccia

a cura di Patrizio Coccia

Editor @Tom's Hardware Italia

Pubblicato il 07/08/2025 alle 14:05
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Pubblicato il 07/08/2025 alle 14:05

La notizia in un minuto

  • Nel Great Pacific Garbage Patch è stato scoperto il fungo Parengyodontium album, capace di utilizzare le microplastiche come fonte primaria di nutrimento, aprendo nuove prospettive per la degradazione naturale dell'inquinamento plastico
  • I frammenti di plastica negli oceani fungono da vascelli per 37 diverse specie di invertebrati costieri che, trasportati lontano dai loro habitat, diventano specie aliene invasive
  • La soluzione al problema della plastica marina richiede un approccio integrato che combini tecnologie di rimozione, soluzioni biologiche naturali e regolamentazioni globali come il Trattato ONU sulla Plastica

Riassunto generato con l’IA. Potrebbe non essere accurato.

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Nei vortici oceanici subtropicali, quelle immense distese marine considerate per decenni i "deserti del mare" per la scarsità di nutrienti, si sta svolgendo una rivoluzione silenziosa che potrebbe cambiare la nostra comprensione dell'inquinamento plastico. Mentre milioni di tonnellate di microplastiche continuano ad accumularsi anche nelle aree più remote del pianeta, alcuni microrganismi hanno sviluppato strategie di sopravvivenza tanto straordinarie quanto inaspettate. La natura, ancora una volta, dimostra di possedere risorse adattive che superano le previsioni scientifiche più audaci.

La scoperta nel cuore del Great Pacific Garbage Patch

Il viaggio di Annika Vaksmaa, ricercatrice del NIOZ Institute di Texel, e di Matthias Egger, direttore degli Affari Ambientali di The Ocean Cleanup, verso il Great Pacific Garbage Patch nel 2022 ha rivelato un fenomeno biologico di portata rivoluzionaria. In questa massa di detriti plastici che si estende per 1,6 milioni di chilometri quadrati - una superficie tre volte superiore a quella della Francia - i due scienziati hanno identificato il fungo Parengyodontium album, capace di utilizzare le microplastiche come fonte primaria di nutrimento.

La metodologia impiegata per documentare questo processo ha richiesto tecniche di tracciamento molecolare particolarmente sofisticate. Vaksmaa ha marcato frammenti di polietilene con carbonio 13C, un isotopo contenente un neutrone aggiuntivo che può essere seguito attraverso spettrometria di massa, osservando come il fungo scindesse i legami degli atomi di carbonio per trasformarli in substrato energetico.

L’universo inesplorato dei funghi marini

Quello che emerge dalla ricerca pubblicata su Science of the Total Environment rappresenta solo la punta dell’iceberg di un mondo biologico largamente trascurato dalla comunità scientifica. I funghi marini, infatti, sono stati per anni considerati organismi di scarsa rilevanza ecologica, spesso classificati erroneamente come semplici funghi terrestri trasportati in mare dalle correnti e dalle attività agricole. “Parte del problema deriva dal dibattito su cosa costituisca un vero fungo marino”, spiega Vaksmaa, evidenziando come questa percezione abbia limitato gli investimenti nella ricerca.

Le 2.195 specie di funghi marini attualmente catalogate in database specializzati riflettono probabilmente solo una frazione della biodiversità reale presente negli oceani. Questi organismi svolgono ruoli cruciali nei cicli biogeochimici e nella degradazione di sostanze sia naturali che artificiali, dimostrando capacità adattive che la ricerca sta appena iniziando a comprendere.

Un ecosistema di invasori microscopici

Le osservazioni di Egger hanno rivelato che i frammenti di plastica fungono da veri e propri “vascelli” per 37 diverse specie di invertebrati costieri, inclusi crostacei e anemoni. Questi organismi, una volta trascinati lontano dai loro habitat naturali, si trasformano in specie aliene che competono con la fauna autoctona per le risorse disponibili, beneficiando dell’assenza dei loro predatori naturali.

Il problema si complica ulteriormente considerando che le plastiche contengono additivi chimici progettati per migliorarne le proprietà fisiche. Durante il processo di degradazione, queste sostanze vengono rilasciate nell’ambiente marino, con conseguenze potenzialmente nocive per l’intero ecosistema oceanico.

Verso soluzioni integrate

Le tecnologie attualmente sviluppate da The Ocean Cleanup, pur riuscendo a rimuovere tonnellate di plastica da mari e fiumi, non sono in grado di catturare le microplastiche a causa delle loro dimensioni microscopiche. La scoperta del Parengyodontium album apre invece prospettive per strategie di degradazione naturale non invasiva, seguendo il modello già sperimentato nella mycoremediation terrestre.

L’approccio futuro, secondo Vaksmaa, dovrebbe puntare a “utilizzare” le soluzioni già sviluppate dalla natura piuttosto che imporre tecnologie artificiali. Tuttavia, la complessità del problema richiede interventi coordinati a livello globale, come il Trattato Globale sulla Plastica su cui sta lavorando l’ONU per regolare produzione, riciclabilità e trattamento dei materiali plastici. “Il problema dell’inquinamento da plastica non può essere risolto con un unico approccio”, conclude Egger, “ma richiede una combinazione di diverse strategie” che integrino innovazione tecnologica e soluzioni biologiche naturali.

Fonte dell'articolo: www.galileonet.it

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