Un uomo di 51 anni, trattato nel 2015 per leucemia con un trapianto di cellule staminali, è rimasto privo di tracce rilevabili del virus dell'immunodeficienza umana per oltre sette anni dopo aver interrotto la terapia antiretrovirale. L'aspetto rivoluzionario di questo settimo caso documentato di "cura funzionale" da HIV risiede nel fatto che le cellule staminali ricevute non possedevano la completa resistenza genetica al virus, una caratteristica che fino a poco tempo fa si riteneva assolutamente indispensabile per ottenere l'eradicazione dell'infezione.
La storia clinica dell'HIV ha registrato finora sei precedenti casi di persone dichiarate libere dal virus dopo trapianti di midollo osseo. Cinque di questi pazienti avevano ricevuto cellule staminali da donatori portatori di una mutazione su entrambe le copie del gene che codifica per la proteina CCR5, un recettore di superficie che il virus HIV utilizza per penetrare nelle cellule del sistema immunitario. Questa mutazione, relativamente rara nella popolazione generale, elimina completamente il recettore CCR5 dalle cellule immunitarie, rendendo di fatto impossibile l'ingresso del virus. Il consenso scientifico consolidato attribuiva a questa caratteristica genetica il ruolo determinante nel successo terapeutico, come spiega Christian Gaebler della Freie Universität di Berlino, tra gli autori della ricerca pubblicata.
Il paradigma ha cominciato a vacillare nel 2023, quando il cosiddetto "paziente di Ginevra" – il sesto caso – è stato dichiarato libero dal virus per oltre due anni dopo aver ricevuto cellule staminali senza la doppia mutazione del CCR5. Molti ricercatori erano tuttavia scettici, ritenendo il periodo di remissione virale troppo breve per parlare di cura definitiva. Il nuovo caso documentato, con i suoi sette anni e tre mesi di assenza virale rilevabile, rappresenta la seconda durata più lunga tra tutti i pazienti guariti e rafforza significativamente l'ipotesi che la resistenza completa al CCR5 non sia l'unico meccanismo attraverso cui si può ottenere l'eradicazione dell'HIV.
La procedura medica seguita nel 2015 prevedeva inizialmente la somministrazione di chemioterapia ad alte dosi per distruggere la maggior parte delle cellule immunitarie del paziente affetto da leucemia, creando lo spazio biologico necessario affinché le cellule staminali del donatore potessero ricostruire un sistema immunitario sano. In condizioni ideali, i medici avrebbero preferito utilizzare cellule staminali con doppia mutazione CCR5, ma queste non erano disponibili. Il paziente ha quindi ricevuto cellule portatrici di una sola copia mutata del gene, mantenendo parzialmente funzionale il recettore CCR5. Durante tutto il processo, l'uomo continuava ad assumere la terapia antiretrovirale (ART), il trattamento standard che sopprime la replicazione virale a livelli non rilevabili, impedendo la trasmissione del virus e riducendo drasticamente il rischio che le nuove cellule immunitarie del donatore venissero infettate.
Circa tre anni dopo il trapianto, ritenendo di aver atteso un tempo sufficiente e trovandosi in remissione completa dal tumore, il paziente ha deciso autonomamente di interrompere l'assunzione della terapia antiretrovirale. Le analisi successive non hanno rilevato alcuna traccia del virus nei campioni ematici, una condizione che si è mantenuta costante fino ad oggi. Questo periodo di remissione virale colloca il caso al secondo posto per durata tra tutti i pazienti guariti documentati, superato soltanto da un individuo rimasto libero dal virus per circa dodici anni.
La scoperta sta costringendo la comunità scientifica a rivedere radicalmente i meccanismi biologici alla base della guarigione da HIV attraverso trapianto di cellule staminali. "Pensavamo fosse necessario trapiantare cellule da donatori privi di CCR5 – si scopre che non è così", commenta Ravindra Gupta dell'Università di Cambridge, non coinvolto nello studio. L'ipotesi prevalente fino ad ora sosteneva che la cura dipendesse dall'impossibilità per il virus, nascosto nelle residue cellule immunitarie del ricevente sopravvissute alla chemioterapia, di infettare le nuove cellule del donatore resistenti al CCR5, determinando così l'esaurimento del "serbatoio" di cellule ospiti suscettibili all'infezione.
Gaebler propone invece un meccanismo alternativo: le cellule del donatore, anche se non completamente resistenti al virus, potrebbero essere in grado di distruggere le cellule immunitarie originali del paziente prima che il virus abbia l'opportunità di diffondersi e infettarle. Questo processo di eliminazione sarebbe guidato da reazioni immunitarie innescate dalle differenze nelle proteine di superficie tra le due popolazioni cellulari. Il sistema immunitario del donatore riconoscerebbe le cellule residue del ricevente come elementi estranei da eliminare, un fenomeno noto in ambito trapiantologico che in questo contesto potrebbe assumere un ruolo terapeutico inaspettato.
Le implicazioni pratiche di questa scoperta sono significative ma vanno interpretate con cautela. Teoricamente, la platea di donatori potenzialmente idonei per trapianti curativi di HIV si allarga considerevolmente, includendo anche individui senza la doppia mutazione CCR5, molto più comuni nella popolazione generale. Tuttavia, è probabile che molteplici fattori debbano allinearsi affinché il meccanismo funzioni: la compatibilità genetica tra donatore e ricevente, la velocità con cui le cellule del donatore possono eliminare quelle del ricevente, e probabilmente anche la distribuzione anatomica delle cellule immunitarie residue. Nel caso specifico, il paziente possedeva comunque una copia mutata del gene CCR5, caratteristica che potrebbe aver alterato la distribuzione delle sue cellule immunitarie in modo favorevole alla cura.
Per questa ragione, Gaebler sottolinea che la maggior parte dei pazienti che necessitano di trapianto di cellule staminali per leucemia e sono anche affetti da HIV dovrebbero ancora ricevere, quando disponibili, cellule staminali con doppia mutazione CCR5. È inoltre fondamentale ricordare che persone sieropositive senza diagnosi di tumore non possono beneficiare di trapianti di cellule staminali: la procedura comporta rischi significativi, incluse infezioni potenzialmente letali legate all'immunosoppressione prolungata. La stragrande maggioranza delle persone con HIV può condurre una vita lunga e sana assumendo la terapia antiretrovirale, oggi disponibile anche in formulazioni molto comode come il lenacapavir, farmaco di recente approvazione che richiede soltanto due iniezioni all'anno per garantire una protezione pressoché completa dall'infezione.
La ricerca parallela continua a esplorare strategie alternative per la cura definitiva dell'HIV, concentrandosi sull'editing genetico delle cellule immunitarie attraverso tecnologie come CRISPR-Cas9, che potrebbero introdurre artificialmente la resistenza al virus nelle cellule del paziente stesso, evitando i rischi del trapianto. Procedono inoltre gli studi per lo sviluppo di vaccini preventivi, un obiettivo che continua a sfuggire alla comunità scientifica nonostante decenni di tentativi. Questo settimo caso di cura funzionale, pur rappresentando un traguardo eccezionale per il singolo paziente, offre soprattutto nuove prospettive teoriche per comprendere i meccanismi attraverso cui l'organismo umano può liberarsi di un'infezione virale considerata fino a non molti anni fa inesorabilmente cronica e progressiva.