La storia dell'umanità è molto più intricata di quanto si pensasse fino a poco tempo fa. Mentre per decenni gli studiosi hanno immaginato i nostri antenati come un gruppo che rimase isolato in Africa per circa 200.000 anni prima di espandersi nel resto del mondo, nuove ricerche genetiche stanno rivelando un panorama completamente diverso. Un team di ricercatori guidato da Joshua Akey dell'Istituto Lewis-Sigler per la Genomica Integrativa di Princeton ha scoperto prove convincenti di scambi genetici multipli tra i primi gruppi umani, suggerendo una mobilità e interazione molto più intensa di quanto mai documentato prima.
Tre ondate di contatto cambiano la cronologia
Utilizzando una tecnologia innovativa chiamata IBDmix, che sfrutta tecniche di apprendimento automatico per decodificare il genoma, i ricercatori hanno identificato tre distinte ondate di contatto genetico. La prima risale a circa 200-250.000 anni fa, una seconda tra 100-120.000 anni fa, e la più consistente intorno a 50-60.000 anni fa. Questo contrasta nettamente con il modello tradizionale dell'"Out of Africa" che descriveva una singola grande migrazione.
"I nostri modelli mostrano che non c'è stato un lungo periodo di stasi, ma che poco dopo l'emergere degli umani moderni, abbiamo iniziato a migrare dall'Africa e a tornare in Africa", spiega Akey. Per analizzare questi flussi genetici, il team ha esaminato i genomi di 2.000 esseri umani viventi insieme a tre Neanderthal e un Denisovano.
Un approccio rivoluzionario alla ricerca genetica
L'intuizione chiave di Liming Li, professore nel Dipartimento di Genetica Medica e Biologia dello Sviluppo presso l'Università del Sudest a Nanchino, è stata quella di cercare DNA di umani moderni nei genomi dei Neanderthal, invertendo la prospettiva tradizionale. "La stragrande maggioranza del lavoro genetico dell'ultimo decennio si è concentrata su come l'accoppiamento con i Neanderthal abbia influenzato i fenotipi umani moderni, ma queste domande sono rilevanti e interessanti anche nel caso inverso", sottolinea Akey.
Questo nuovo metodo ha permesso di superare le limitazioni degli studi precedenti, che dipendevano dal confronto dei genomi umani con popolazioni di riferimento presumibilmente prive di DNA Neanderthal o Denisovano. Il team di Akey ha invece stabilito che anche questi gruppi di riferimento, che vivono a migliaia di chilometri dalle grotte dei Neanderthal, possiedono tracce di DNA Neanderthal, probabilmente portato verso sud da viaggiatori o dai loro discendenti.
Popolazioni più piccole e diversità genetica apparente
Una scoperta sorprendente riguarda le dimensioni effettive della popolazione Neanderthal. Gli scienziati stimano tradizionalmente la dimensione della popolazione osservando la diversità genetica: maggiore variazione nel genoma suggerisce generalmente un gruppo più numeroso. Tuttavia, applicando IBDmix, i ricercatori hanno scoperto che gran parte della diversità apparente nel DNA Neanderthal derivava in realtà da geni ereditati dagli umani moderni, che avevano popolazioni molto più ampie.
Con questa nuova comprensione, gli scienziati hanno ridotto la stima della popolazione riproduttiva Neanderthal da circa 3.400 individui a roughly 2.400. Questa riduzione ha implicazioni significative per comprendere come i Neanderthal siano scomparsi dai reperti fossili e genetici circa 30.000 anni fa.
Assimilazione piuttosto che estinzione
L'interpretazione di Akey sfida anche il concetto tradizionale di "estinzione" dei Neanderthal. "Non mi piace dire 'estinzione', perché penso che i Neanderthal siano stati in gran parte assorbiti", afferma il ricercatore. La sua teoria è che le popolazioni Neanderthal si siano lentamente ridotte fino a quando gli ultimi sopravvissuti furono incorporati nelle comunità umane moderne.
Questo "modello di assimilazione" fu articolato per la prima volta da Fred Smith, professore di antropologia all'Illinois State University, nel 1989. I risultati di Akey forniscono forti dati genetici coerenti con questa ipotesi, suggerendo che i Neanderthal fossero "in bilico sull'orlo dell'estinzione, probabilmente per molto tempo". La ricerca, pubblicata sulla rivista Science e supportata dai National Institutes of Health, sta quindi riscrivendo la nostra comprensione di come le diverse specie umane abbiano interagito nel corso di centinaia di migliaia di anni.