La RAI sbagliò a non accettare i 350 milioni di Sky

La sentenza del Consiglio di Stato sancisce l'autogoal della RAI, che nel 2009 decise di non accettare l'offerta milionaria di Sky per le trasmissioni in chiaro.

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a cura di Dario D'Elia

Il Consiglio di Stato ha dato definitivamente ragione a Sky nella querelle con RAI sulle trasmissioni in chiaro del digitale terrestre. È una vecchia storia che giunge finalmente al capitolo finale, e che ancora una volta costerà agli italiani un piccolo esborso. Nello specifico RAI, Tivù srl e AGCOM pagheranno rispettivamente 13mila, 7mila e 10mila euro a Sky. Comunque spiccioli, rispetto ai 350 milioni che la Rai ha di fatto gettato dalla finestra. Soldi che avrebbero fatto la differenza per un azienda che ha un bilancio tutt'altro che florido.

Tutto ha inizio nel luglio 2009 quando entra nel vivo la trattativa tra Sky e RAI per le trasmissioni di quest'ultima sul satellite. La TV di Murdoch offre 350 milioni di euro per sette anni. Il neo-direttore Mauro Masi, spalleggiato dal ministro delle telecomunicazioni Paolo Romani, non accetta.

Il cavallo della RAI

Grottesco mercanteggiare, tra un broadcaster privato e un servizio pubblico. La RAI è però obbligata per legge a trasmettere in chiaro su tutte le piattaforme disponibili. L'escamotage si chiama Tivù Sat, la piattaforma satellitare gratuita italiana creata da Rai Radiotelevisione Italiana, Mediaset, Telecom Italia Media, FRT e Aeranti-Corallo. Il caso vuole che nasca proprio il 31 luglio 2009.

Ecco ottenuti più risultati: Rai non ha ceduto agli inglesi, su Sky i suoi canali sono criptati, il blocco delle televisioni dominanti mantiene il pallino del gioco in mano. L'unico inghippo è rappresentato dal decoder, incompatibile con i servizi Sky.

Di lì in poi inizia un balletto di giudizi dell'AGCOM, memorie difensive, sentenze e ricorsi del TAR. Insomma, il solito iter giudiziario che accompagna gli scontri fra titani. 

RAI

Il punto chiave della decisione del Consiglio di Stato è comunque questo: la RAI non ha rispettato gli "obblighi di servizio pubblico e del contratto di servizio, tra cui le modalità di distribuzione delle smart card e la possibilità per tutti gli utenti di ricevere la programmazione pubblica gratuitamente su tutte le piattaforme distributive".

La lunghissima sentenza del Consiglio di Stato elenca ogni dettaglio di questa storia, ma in fondo torna sempre alla questione del servizio pubblico. L'AGCOM presieduta da Corrado Calabrò fece poco, anzi alla fine ritenne idonee le proposte RAI per "superare i segnalati problemi di mancata ricezione integrale del servizio pubblico".

Il Consiglio di Stato spiega anche la cosiddetta "cessione gratuita" della programmazione di servizio pubblico sarebbe dovuta valere non solo per gli utenti ma anche per le piattaforme distributive. L'AGCOM sbagliò a circoscrivere l'obbligo fraintendendo la "diversa situazione di rapporti contrattuali della RAI a monte della programmazione, e non attinenti alla fase di cessione della stessa alle diverse piattaforme distributive".

Mauro Masi

I giudici di fatto sostengono che sfruttare il valore economico della programmazione RAI sulla base di scelte imprenditoriali (improntate a criteri di economicità), "significherebbe contraddire la stessa filosofia della neutralità tecnologica e della universalità del servizio pubblico". L'uso di più piattaforme e tecnologie non può essere considerato come uno strumento di business, ma una garanzia per una migliore fornitura del servizio.

Infine l'accordo Tivusat con Telecom e Mediaset, che di fatto ha favorito attività commerciali che non hanno nulla a che fare con il servizio pubblico. Aiuto di Stato? Forse, e nella fattispecie illegittimo "in quanto non preventivamente comunicato alla Commissione Europea".

Come se non bastasse anche "una alterazione della parità di condizioni nel mercato concorrenziale televisivo a favore di alcuni operatori privati attraverso l’impiego di risorse pubbliche". Senza contare che i regolamenti vietano "espressamente alla RAI di utilizzare, direttamente o indirettamente, i ricavi derivanti dal canone per finanziare attività non inerenti al servizio pubblico televisivo".

Se è vero che "la televisione rappresenta l'inconscio a cielo aperto della nostra società", come ha detto il critico cinematografico Serge Daney, quale impulso avrà mai portato il servizio pubblico radiotelevisivo italiano guidato da Mauro Masi a rinunciare ai 350 milioni di Sky?