Spotify e Pandora: sostegno per i musicisti o strozzini?

Il leader dei Radiohead fa sentire la propria voce contro Spotify: si guadagna troppo poco.

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a cura di Valerio Porcu

Senior Editor

I pezzi di Thom Yorke, storico leader dei Radiohead, non saranno più presenti su Spotify. L'artista ha deciso di abbandonare il servizio perché il guadagno è infimo, sopratutto per i musicisti emergenti. Si riaccende così la discussione sui servizi di streaming e su quanto ci guadagnano i musicisti.

La risposta di Spotify è arrivata direttamente dall'amministratore delegato dell'azienda Daniel Ek, tramite Twitter. Sostanzialmente il dirigente sostiene che Spotify non solo aiuta gli artisti aumentando i loro guadagni, ma li porta all'attenzione di nuovi fan, e cita anche alcuni esempi positivi, come quelli di Jay-Z o dei Daft Punk.

Thom Yorke

"Siamo impegnati al 100% nel rendere Spotify il servizio musicale migliore per gli artisti, e siamo in costante dialogo con loro e con i manager su come usare Spotify per aiutarli a sviluppare la propria carriera", è infatti la posizione ufficiale dell'azienda.

E non è solo Spotify a essere bersagliata da queste critiche: lo scorso 24 giugno, infatti, sul sito the Thetrichordist era comparso un articolo nel quale si sosteneva che per un milione di riproduzioni su Pandora all'artista vanno poco più di 15 euro. Lo stesso problema che ha portato Yorke ad abbandonare Spotify: non ci si guadagna abbastanza. Insieme al produttore Nigel Godrich l'attore ha affermato che sarebbe meglio se i fan comprassero gli album invece che ascoltare la musica in streaming.

Per tutta risposta Joe Kennedy, AD di Pandora, aveva suggerito di pagare ancora meno i musicisti, così da aumentare il numero di ascoltatori e di conseguenza i guadagni totali. Una questione difficile da dirimere, e che - stando ancora a Yorke - riguarda soprattutto gli artisti emergenti.

Per una star internazionale, infatti, la questione si riduce alla differenza tra l'essere ricchi e l'essere molto ricchi. Per una nuova band che vuole farsi conoscere, invece, la scelta dello streaming è problematica: da una parte ci si fa conoscere, il che è un bene, ma dall'altra si fatica a vivere della propria musica.

A questo punto il quadro è chiaro: i servizi di streaming non servono ai musicisti per guadagnare, ma vanno visti come uno strumento promozionale. I profitti devono venire da altre fonti: vendita di dischi (fisici o digitali), diritti radiofonici, concerti, cessione dei brani per cinema, televisione o pubblicità, e infine sponsorizzazioni. Tutte fonti più che valide, ma solo per chi effettivamente ha già una carriera più che solida.

D'altra parte fare l'artista non è mai stato semplice: prima di Internet, prima della pirateria, prima di Spotify non era certo una passeggiata diventare un musicista ricco e famoso. Ci volevano (e ci vogliono) talento, spirito di sacrificio, capacità di vendersi e un po' di fortuna: non basta certo sentirsi il nuovo Frank Zappa.

Sbarcare il lunario

Anzi, a ben vedere forse oggi c'è persino qualche possibilità in più per chi vuole vivere della propria arte: non sono pochi infatti gli esempi di chi ha trovato in YouTube il partner giusto, per esempio, o di qualche autore che si pubblica da solo i propri libri tramite Amazon o servizi simili.

Il cammino verso la fama e il successo è in salita, e forse Spotify è più un ostacolo che un sostegno. E magari fanno arrabbiare i tanti divi senza talento, creati ad hoc per produrre profitto, ma da che mondo è mondo non c'è artista (vero) che non abbia dovuto stringere la cintura almeno un po'. Credete che oggi sia più dura di prima?