Il mondo della finanza e della tecnologia si interroga sempre più frequentemente su un possibile scenario catastrofico: l'intelligenza artificiale potrebbe rappresentare la prossima grande bolla speculativa destinata a esplodere. Un interrogativo che ha cominciato a farsi strada con insistenza nell'estate del 2024 e che oggi coinvolge esperti, investitori e analisti di tutto il mondo. La questione non è se la tecnologia funzioni o meno, ma se il valore economico che le viene attribuito corrisponda alla realtà dei profitti generati.
Michael Burry, il leggendario investitore protagonista de "La grande scommessa" che aveva previsto il crollo immobiliare del 2008, ha recentemente lanciato l'allarme. Secondo la sua analisi, colossi come Oracle, OpenAI, Google e Microsoft starebbero muovendo denaro immaginario, creando un castello di carte destinato prima o poi a crollare. La provocazione di Burry è andata oltre, coinvolgendo persino Nvidia, l'azienda che produce i processori alla base dell'infrastruttura AI e che fino a oggi sembrava la più solida del settore.
Per comprendere se ci troviamo davvero di fronte a una bolla, due professori della Maryland University hanno condotto uno studio retrospettivo analizzando 150 anni di storia finanziaria e 58 diverse innovazioni tecnologiche. La loro ricerca ha identificato quattro indicatori fondamentali che segnalano il rischio bolla: la costruzione di una narrativa entusiasta, l'incertezza tecnologica sul reale funzionamento del prodotto, l'esistenza di aziende "pure play" dedicate esclusivamente a quella tecnologia, e la presenza di investitori che agiscono mossi dalla paura di restare esclusi piuttosto che dalla comprensione del business.
Nel caso dell'intelligenza artificiale, "tutti questi elementi sembrano presenti in misura preoccupante" dice l'esperto Fabrizio Degni. "La narrazione dominante descrive l'IA come una rivoluzione imprescindibile, al punto che qualsiasi prodotto deve avere l'etichetta IA per essere vendibile". Gli smartphone rappresentano un esempio emblematico: i produttori cinesi come Honor, Xiaomi e Huawei, insieme a giganti come Samsung con il Galaxy AI e Google con i Pixel, investono cifre enormi per implementare funzioni di intelligenza artificiale che, nella pratica, non costituiscono un vero elemento distintivo nelle scelte d'acquisto dei consumatori.
Le cifre in gioco sono vertiginose. Secondo un'analisi di Gartner sugli investimenti mondiali in AI dal 2024 al 2026, si registrano aumenti che vanno dal 60% per gli smartphone dotati di intelligenza artificiale generativa fino al 400% per le soluzioni AI ottimizzate per i servizi cloud. Lo sviluppo di processori dedicati alle AI vede un incremento del 90%. Stiamo parlando di trilioni di dollari, una cifra che si avvicina pericolosamente al PIL degli Stati Uniti, valutato in 29.000 miliardi di dollari.
L'incertezza tecnologica rappresenta il secondo elemento critico. A differenza dell'insulina, il cui valore medico ed economico era immediatamente comprensibile, l'intelligenza artificiale mostra applicazioni concrete solo in scenari limitati: la scrittura assistita, la programmazione, alcune automazioni specifiche. Per il resto, rimane avvolta in promesse e sperimentazioni continue. "I nuovi modelli linguistici si susseguono a ritmo frenetico – Cloud Opus 4.5, Grock 4.1 beta – ma le differenze tra versioni successive si riducono a pochi punti percentuali nei benchmark, ormai prossimi al 100%" prosegue Degni.
OpenAI incarna perfettamente il concetto di "pure play", l'azienda che fa solo ed esclusivamente intelligenza artificiale senza altri ammortizzatori economici. Come accadde durante la bolla delle dotcom del 2000-2003, quando molte startup digitali fallirono mentre sopravvissero solo realtà diversificate come Amazon, anche oggi le aziende monoprodotto rischiano maggiormente. Microsoft, Google e Amazon dispongono di altri servizi solidi – cloud, advertising, e-commerce – che potrebbero compensare un eventuale crollo dell'AI. OpenAI, invece, non avrebbe alternative.
La risposta di Nvidia alle accuse di Burry è apparsa difensiva e poco convincente. L'azienda ha negato di partecipare a movimenti circolari di denaro virtuale, ma la difesa è sembrata fragile. Peraltro, recentemente Google ha sviluppato il suo nuovo modello Gemini 3 utilizzando hardware non prodotto da Nvidia, dimostrando che anche il dominio dell'azienda leader nel settore dei processori per AI potrebbe non essere così inattaccabile come sembrava.
Il fenomeno del FOMO, acronimo inglese per "Fear of Missing Out" (paura di restare esclusi), descrive perfettamente il comportamento di molti investitori che mettono denaro nell'intelligenza artificiale senza comprenderne realmente il funzionamento o le prospettive di profitto. L'importante è esserci, cavalcare l'onda, non perdere il treno dell'innovazione. Questa mentalità alimenta la speculazione finanziaria sganciata dall'economia reale, esattamente come accadde durante la crisi del 1929, quando il mercato azionario cresceva mentre le fabbriche non producevano profitti corrispondenti.
La storia delle bolle finanziarie insegna che il momento dello scoppio è impossibile da prevedere con certezza. La celebre bolla dei tulipani del Seicento olandese, la dotcom del 2000, la crisi dei mutui subprime del 2008: in tutti questi casi, fino all'ultimo momento molti continuavano a credere nella solidità del sistema. Solo dopo il crollo diventa evidente che il re era nudo, che i valori erano gonfiati, che i profitti erano virtuali. Chi aveva lanciato l'allarme prima viene celebrato come visionario, ma durante la fase speculativa viene deriso e ignorato.
Un eventuale scoppio della bolla AI probabilmente non avrebbe le dimensioni catastrofiche della crisi del 2008. I debiti coinvolti sono principalmente "virtuali", profitti potenziali non realizzati piuttosto che mutui non pagati su case reali. Alcune aziende come OpenAI subirebbero conseguenze devastanti, mentre i giganti tecnologici diversificati potrebbero assorbire il colpo, seppur con difficoltà. Il vero problema riguarda chi si sta indebitando realmente facendo affidamento su quei profitti potenziali che potrebbero semplicemente evaporare da un giorno all'altro.
Il parallelismo con la favola dei vestiti dell'imperatore rimane illuminante. Tutti accettano la narrazione dominante finché qualcuno non ha il coraggio di dire che l'imperatore è nudo. Nel caso dell'intelligenza artificiale, quel qualcuno potrebbe essere Michael Burry, oppure potrebbe trattarsi di un falso allarme. La certezza arriverà solo quando – e se – la bolla scoppierà. Nel frattempo, gli investimenti continuano a crescere esponenzialmente, i nuovi modelli si susseguono con miglioramenti marginali, e la domanda fondamentale rimane senza risposta: tutto questo valore corrisponde a profitti reali o stiamo costruendo un altro castello di sabbia destinato a crollare alla prima onda?