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Lo smart working in Italia non funziona senza la giusta cultura manageriale

Un'intervista a Roberto Bonanno esplora il lavoro da remoto, smontando i falsi miti sulla produttività e focalizzandosi sulla leadership moderna e sull'investimento nel capitale umano

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Avatar di Antonino Caffo

a cura di Antonino Caffo

Editor

Pubblicato il 16/05/2025 alle 09:46

La recente discussione sullo smart working in Italia ha messo in luce una profonda confusione terminologica e culturale sull'argomento. L'analisi del fenomeno, le sue reali implicazioni e le resistenze incontrate evidenziano la necessità di un approccio manageriale evoluto per cogliere appieno le potenzialità del lavoro agile.

Questo dibattito riveste una notevole importanza per le persone e le aziende, in quanto tocca aspetti fondamentali della gestione moderna: dalla produttività e l'efficienza operativa al benessere dei dipendenti, dalla capacità di attrarre e trattenere talenti alla competitività sul mercato. Comprendere a fondo cosa significhi realmente smart working e come implementarlo efficacemente non è solo una questione organizzativa, ma un fattore strategico che può determinare il successo o l'insuccesso di un'impresa nel panorama attuale.

Ne abbiamo parlato con Roberto Buonanno, fondatore di 3Labs, società editrice tra cui spicca Tom's Hardware. L'esperienza di Buonanno, sia come imprenditore che ha investito nella formazione personale e nello smart working, sia come figura con una prospettiva internazionale, offre spunti preziosi per analizzare la situazione italiana. Come evidenziato nella conversazione, la sua azienda, così come altre nel settore media e tecnologia, si è confrontata con l'implementazione di modelli di lavoro flessibile, dimostrando che, nonostante le sfide, risultati significativi sono raggiungibili. Altre realtà nel panorama editoriale e tecnologico, come ad esempio NetAddiction o Sprea Editori, affrontano dinamiche simili nell'organizzazione del lavoro.

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Smart Working e telelavoro: facciamo chiarezza sui termini

Un punto cruciale emerso dall'intervista è la diffusa confusione in Italia tra i concetti di smart working e telelavoro (o remote working). Il telelavoro è descritto come una modalità in cui il lavoratore opera da casa o altrove, ma è rigidamente legato a orari predefiniti e spesso monitorato da software. "Fai esattamente quello che si farebbe in un ufficio solo da un'altra parte", dice Buonanno, sottolineando come l'azienda debba provvedere a tutte le esigenze tecnologiche e di sicurezza, replicando di fatto l'ambiente ufficio. Lo smart working, al contrario, si distingue per la sua flessibilità non solo nel luogo di lavoro ("a casa propria... al bar... in automobile dove vuoi"), ma soprattutto per essere definito da obiettivi concordati. La verifica si basa sul raggiungimento di questi obiettivi alla fine di un periodo stabilito, senza il vincolo delle ore lavorate. Questo approccio, pur richiedendo un calcolo del carico di lavoro paragonabile alle classiche 8 ore, concede al lavoratore "la libertà di gestirsi come vuoi".

Quando implementato correttamente, lo smart working porta con sé notevoli vantaggi. Dati raccolti, in particolare durante il periodo della pandemia, suggeriscono che la produttività con il lavoro agile o resta stabile o aumenta. Anche nel caso in cui rimanga invariata, vi è un guadagno in termini di benessere delle persone, aspetto di fondamentale importanza. Ancora Buonanno: "Nel caso che resti uguale hai aumentato il benessere delle persone che è un guadagno per tutti". A questi benefici si possono aggiungere anche risparmi economici per l'azienda, come la possibilità di ridurre gli spazi ufficio in affitto. La possibilità di gestire meglio il proprio tempo per esigenze personali, come visite mediche, impegni familiari o attività fisica, incrementa significativamente la qualità della vita dei lavoratori, rendendoli potenzialmente più soddisfatti e motivati.

La resistenza culturale italiana

Nonostante i benefici, lo smart working incontra resistenze in Italia. Un commento ricorrente citato è "tutto bello ma siamo in Italia e in Italia non si può fare", una posizione definita "un po' disfattista". Questa mentalità si scontra con la realtà di un paese che, pur tra critiche, offre notevoli libertà e leggi innovative, come quelle relative all'homeschooling o allo smart working stesso, introdotto "abbastanza rapidamente". La vera barriera non è legislativa ("nessuno va a guardare adesso io quello questo lo dico e poi lo nego"), ma culturale. "La mentalità padronale o medievale è quella che frena l'adozione del lavoro agile. Si tratta di un approccio manageriale che predilige il controllo basato sulla presenza fisica e fatica a delegare e a fidarsi dei propri collaboratori, pensando di dover comandare la gente a bacchetta e di dover avercela da davanti per dire come faccio le cose io non le fa nessuno".

Superare le resistenze e far funzionare lo smart working richiede un profondo cambiamento a partire dalla leadership. Dove il capo non ha una mentalità retrograda, "il problema non si pone", perché si ragiona sulla possibilità di implementare soluzioni flessibili. La mentalità padronale è quella che "blocca tutto a prescindere". Il presupposto fondamentale per lo smart working è avere una cultura di lavoro basato per obiettivi e una comunicazione "molto stretta ed efficace". Molte aziende in Italia mancano delle basi organizzative necessarie: non hanno mansionari chiari, manuali operativi aggiornati, o una cultura della delega.

"Si tende ad assumere personale non per competenza, ma per avere qualcuno a cui dire 'sono più bravo di te', invece di cercare persone migliori di te in ogni settore e dare loro la massima autonomia libertà di espressione. Il percorso verso l'autonomia operativa, prerequisito dello smart working, può essere faticoso ma non vuol dire che non valga la pena farlo". La leadership ha la responsabilità di far vincere i propri collaboratori e aiutarli a raggiungere obiettivi personali e professionali. "La prima spesa che un imprenditore dovrebbe considerare, una volta raggiunti traguardi economici, è la formazione sulle persone, per valorizzare il capitale umano". Trascurare questo aspetto è come trascurare le attrezzature materiali per un'azienda manifatturiera.

Oltre il fannullone: il mercato evolve e così le aspettative dei lavoratori

Lo stereotipo del lavoratore smart working come "fannullone" è un altro preconcetto diffuso, spesso smentito dai dati sulla produttività che, come accennato, tendono a mostrare stabilità o crescita. L'opinione espressa è che se un lavoratore è improduttivo, lo sarebbe anche in ufficio; la responsabilità di non riuscire a renderlo produttivo o a gestire la situazione ricade sulla gestione. Il mercato del lavoro in Italia, pur con le difficoltà legate alla flessibilità dei licenziamenti, sta cambiando. Non tutti i lavoratori sono più costretti ad accettare qualunque condizione di lavoro perché non possono non hanno altra scelta.

Molti, specialmente i più giovani e qualificati, cercano opportunità che vadano oltre il mero stipendio, desiderando crescita personale e professionale. Se un'azienda non offre queste prospettive, il lavoratore può sentirsi deluso e cercare altrove, percependo il lavoro come merce di scambio. Le possibilità globali, facilità di trasferimento all'estero, piattaforme online per offrire servizi (come Upwork o Fiverr) hanno ampliato la competizione per le imprese italiane, che ora devono attrarre talenti non solo a livello locale ma internazionale.

Questo richiede un cambio di prospettiva radicale: "le aziende devono diventare attraenti offrendo crescita, valore e un ambiente di lavoro flessibile basato sulla fiducia e sugli obiettivi, superando la mentalità che vede il dipendente solo come una risorsa da controllare e sfruttare".

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