Il concetto di "vibe coding" è ancora nuovo ma il messaggio è già chiaro: la programmazione sta cambiando profondamente e tra qualche anno saper scrivere codice potrebbe diventare una competenza superflua o quasi. Potrebbe, ma è una previsione tutta da verficare.
Intanto però il dibattito riguarda anche la scuola: ci si chiede se ha ancora senso studiare programmazione oggi come investimento sul futuro personale, o se magari la scuola non farebbe meglio a occuparsi di qualcos'altro. Come se oggi tutti gli studenti di tutte le scuole imparassero almeno le basi di questa disciplina.
C'è sicuramente un po' di caos sul tema, con tante opinioni diverse che a volte rendono difficile capire costa sta succedendo.
Szymon Sidor, ricercatore presso OpenAI, ha recentemente aggiunto al sua voce a questo coro, cercando di definire l'esistenza di una "disinformazione online" riguardo l'inutilità dell'apprendimento della programmazione. Durante un episodio del podcast aziendale, Sidor ha sostenuto con fermezza che gli studenti delle superiori dovrebbero assolutamente imparare a programmare, nonostante l'esistenza di strumenti AI sempre più sofisticati.
Secondo il ricercatore, l'apprendimento del coding non si riduce alla mera scrittura di istruzioni per computer, ma rappresenta una palestra mentale per sviluppare capacità di problem-solving e pensiero critico. "Una competenza che ha valore premium, e continuerà ad averlo, è possedere un intelletto davvero strutturato capace di scomporre problemi complessi in pezzi più piccoli", ha spiegato Sidor nel podcast.
Che, a ben guardare, è un po' quello che in Italia alcuni dicono del latino, che vale la pena di studiarlo perché è una palestra mentale e che garantisce una mente più agile in futuro. Ma con la programmazione e il problem solving questo pensiero sembra più concreto e l'obiettivo più raggiungibile.
Andrew Mayne, precedente responsabile della comunicazione scientifica di OpenAI e conduttore del podcast, ha rafforzato questa posizione con un paragone efficace: "Ogni volta che sento dire 'non imparate a programmare', è come se qualcuno dicesse: voglio un pilota d'aereo che non capisce l'aerodinamica?"
All'altro capo del dibattito si posiziona Jensen Huang, CEO di Nvidia, l'azienda più preziosa al mondo per capitalizzazione. La sua filosofia è diametralmente opposta: secondo Huang, l'intelligenza artificiale ha livellato il campo di gioco tecnologico, permettendo a chiunque di scrivere codice semplicemente fornendo istruzioni in linguaggio naturale a un bot AI.
Nella visione di Huang, imparare linguaggi come Python o C++ diventa superfluo quando si può semplicemente chiedere all'AI di scrivere un programma.
Nella posizione di Huang c'è della verità, quando afferma che chiunque può programmare. Tuttavia quando si parla di Intelligenza Artificiale bisogna sempre parlare anche di human in the loop, cioè di un essere umano competente e consapevole che possa valutare ed eventualmente correggere l'output. Se genero del codice che non capisco, chiaramente manca un elemento importante.
I numeri dell'adozione AI nelle Big Tech
I dati dalle maggiori aziende tecnologiche sembrano dare ragione a Huang riguardo la diffusione dell'AI nella programmazione. Google ha registrato un incremento significativo nell'uso dell'intelligenza artificiale per la scrittura di codice: se a ottobre il 25% del nuovo codice era generato da AI, ad aprile la percentuale era salita oltre il 30%, come confermato dal CEO Sundar Pichai.
Parallelamente, Microsoft ha raggiunto numeri simili, con il CEO Satya Nadella che ha dichiarato come i loro ingegneri utilizzino l'AI per scrivere fino al 30% del codice nei progetti aziendali. Questi dati suggeriscono una trasformazione già in atto nel mondo professionale, dove l'automazione del coding non è più una prospettiva futura ma una realtà consolidata.
Attenzione però: questa diffusione è solo metà della storia. Non sappiamo chi sono le persone che generano e controllano il codice in queste aziende, ma ci sono buone probabilità (quasi certezza in effetti) che siano programmatori esperti e competenti.
Non siamo ancora nella situazione in cui chiunque fa il programmatore, ma sicuramente i programmatori odierni possono fare di più con l'AI. Ed è altrettanto certo che c'è sempre meno spazio per i programmatori junior.
La questione rimane aperta: formare le nuove generazioni nelle competenze tradizionali di programmazione o prepararle direttamente all'interazione con strumenti di intelligenza artificiale?
Dare una risposta definitiva è difficile, ma se è proprio necessario fare una scelta forse sarebbe più saggio istruire i ragazzi e le ragazze all'uso consapevole degli strumenti AI. Forse non tutti possono diventare bravi programmatori, ma tutti, proprio tutti, dovremmo sapere che l'AI può sbagliare e che ha dei limiti, e che se la usciamo per "creare" qualcosa, poi serve qualcuno capace di controllare e correggere. Magari proprio un programmatore.