Darkman: Sam Raimi e l'eroe oscuro

Darkman: quando Sam Raimi riscrisse il supereroe al cinema con un anti-eroe dark e lontano dal canone eroico.

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a cura di Manuel Enrico

Uno dei danni del Marvel Cinematic Universe è l’aver creato il mito che la grande stagione dei cinecomics sia nata in una grotta, dove Tony Stark è diventato da mercante di morte a eroe superstar in Iron Man (2008). Genesi del moderno stilema del cinema tratto dai supereroi a fumetti, la prima pellicola dedicata a Testa di Latta non deve farci dimenticare che il linguaggio della nona arte al cinema aveva già goduto di una discreta produzione, caratterizzata non solamente dall’incredibile successo di Donner con il suo Superman e dalla bat-fever diffusa da Batman (1989), ma anche da altre produzioni meno fortunate, come Howard e il destino del mondo (1986). In mezzo a questa florida produzione, si inserivano altri titoli che omaggiavano il mondo degli eroi di carta, ma uno in particolare sembrava voler sovvertire ogni regola del genere: Darkman.

E non poteva esser diversamente, considerato che dietro questo anti-eroe dark e lontano dal canone eroico caro all’epoca a Hollywood si nasconde un nome ben noto agli appassionati di cinema: Sam Raimi. Lo stesso Raimi che anni dopo avrebbe segnato un altro fondamentale capitolo dell’evoluzione dei cinecomic con la prima trilogia di Spider-Man e che ora stiamo aspettando per il suo esordio nel Marvel Cinematic Universe con Dottor Strange nel Multiverso della Follia. Eppure, quando nel 1990 un ancora promettente Liam Neeson indossava i panni di Peyton Westlake, Raimi non era ancora un regista affermato, ma era un cineasta che si era fatto un nome nelle produzioni minori, pronto a fare il grande passo e mettersi all’opera con le big del settore.

Un autore in cerca di un personaggio

Dopo avere dato vita alla saga horror de La Casa, Raimi decise che era ora di cimentarsi con un’altra sua grande passione: i fumetti. Ad attirarlo erano soprattutto gli eroi oscuri, caratterizzati da uno strano rapporto con il senso di giustizia, da perseguire con ogni fine. Il suo primo modello è The Shadow, personaggio creato all’interno del programma radiofonico Detective Stories nel 1930 da alter Gibson e in seguito approdato al mondo dei comics a partire dal 1936. The Shadow è il prototipo dell’eroe pulp, misterioso e dalla doppia vita, capace di segnare profondamente l’immaginario del periodo al punto che viene spesso indicato come il canovaccio su cui venne in seguito sviluppato nientemeno che Batman, nato nel 1939.

Il primo tentativo di Raimi di realizzare il suo film supereroico passò quindi dal tentativo di acquistare i diritti di The Shadow, operazione che fallì, salvo poi approdare ugualmente al cinema con un film omonimo nel 1994. Per nulla intenzionato a rinunciare al suo intento, Raimi decise di alzare il tiro e puntare al Cavaliere Oscuro, negli stessi anni in cui stava prendendo forma il progetto che avrebbe condotto Tim Burton a realizzare quel cult di Batman. A un certo punto, pare persino che Raimi fosse stato avvicinato per la regia del Crociato Incapucciato, ma alla fine non se ne fece nulla e Raimi decise che forse era ora di tentare un’altra strada: creare un personaggio completamente nuovo.

Vale la pena fare due considerazioni su quella che in quegli anni era la condizione degli eroi dei comics. Gli anni della Silver Age, con la rinascita del genere e l’introduzione del concetto marveliano che ‘da grandi poteri derivano grandi responsabilià’ stava subendo un ulteriore cambiamento. Spinti da nuovi autori, meno legati ai vincoli imposti dalle case editrici, stavano facendo emergere tratti decisamente più dark e oscuri dei personaggi tanto amati. Basterebbe citare L’ultima caccia di Kraven, Il Demone nella bottiglia o Il Ritorno del Cavaliere Oscuro e Watchmen come testimoni di una diversa concezione del racconto supereroico, più terreno e meno nobile. Influenze che stavano guidando alla nascita di nuovi modi di intendere il fumetto supereroico, con la comparsa di anti-eroi e di storie dai toni violenti, spesso usate come metafore di critica alla società americana del periodo.

All’interno di questa visione, il lavoro di Raimi su Darkman può esser considerato come parte integrante di una riscrittura del supereroe. Pur affidandosi a un diverso medium, il cinema, è da notare come Raimi riuscì a cogliere quella che era l’eredità di Donner, che ci aveva insegnato come un uomo potesse volare, per mostrare un lato meno eroico e più urbano, sporco e violento del contesto supereroico. Anche andando oltre la visione dark decò di Burton con il suo Batman. Raimi diede vita non solo a un personaggio all’altezza dei suoi parenti cartacei, ma ribaltò addirittura il concetto stesso di origin story.

Darkman: l’inversione dell’origin story

Se pensiamo ai principali eroi del fumetto supereroico, specie in casa Marvel, ci ritroviamo davanti a personaggi come Spider-Man, X-Men, Captain America o Daredevil che, partendo da un posizione di evidente difficoltà, economica o sociale, grazia all’acquisizione dei propri poteri riscoprono una dimensione più altra del proprio io. Da umani diventano supereroi, scegliendo di mettere i propri doni al servizio del bene. Raimi nel creare il proprio character sembra voler ribaltare la prospettiva: rovina la vita appagante di un uomo di successo.

Peyton Westlake, se ci pensiamo, ha tutto. Una compagna che lo ama, è di bell’aspetto e grazie alla sua mente geniale ha inventato un macchinario simile a una stampante 3d capace di creare una pelle sintetica, nata per dare una speranza alle vittime di gravi ustioni. Un uomo realizzato, che improvvisamente, a causa dell’incauta scoperta di un crimine da parte della propria compagna, vede la sua vita dissolversi: catturato da un gruppo di malviventi, viene torturato e infine apparentemente ucciso in un’esplosione. Peyton miracolosamente sopravvive, orribilmente sfigurato, con il sistema nervoso totalmente compromesso al punto di esser incapace di sentire dolore ma anche con la mente completamente impazzita. In questo suo nuovo stato, lo scienziato decide di recuperare la propria ricerca e di realizzare un composto sintetico da utilizzare come pelle e utilizzarlo per il suo unico scopo: la vendetta.

Basta questo riassunto per comprendere come Darkman ribalti il canone classico del supereroe. Laddove i poteri rendono un uomo un superuomo, secondo la celebre formula ‘from zero to hero’, nel caso del povero dottor Westlake il suo potere nasce da una privazione, dal perdere la propria vita e tutto ciò che di positivo comportava. Una condizione che genera un odio profondo, che lascia emergere il lato oscuro dell’anima dell’uomo ferito. Una concezione frutto di un lungo lavoro da parte di Raimi, che aveva iniziato a creare questo personaggio stimolato in primis dai film horror classici della Universal:

“Mi spaventavano mostrando la natura odiosa del protagonista, ma al contempo mi attiravano verso queste figure. Volevo ritornare all’idea dell’uomo di nobili intenti che viene trasformato in un mostro”

Da questo incipit, Sam Raimi cominciò a elaborare il suo Darman, ispirando a suggestioni come The Elephant Man o a classici come Il Gobbo di Notre Dame, per l’elemento romantico. La sua idea prendeva sempre più forma, tanto che nel 1987 decide di presentare il suo progetto alla Universal, che sceglie di investire un budget che si aggira intorno ai 10 millioni di dollari per realizzare il film. Niente male per un giovane filmaker abituato a produzioni low cost, che avevano però il merito di avere insegnato a Raimi come ottimizzare i mezzi a disposizione per sviluppare una propria grammatica narrativa, artigianale e lisergica in certe soluzioni. Erano stati questi tratti peculiari del suo stile a convincere la major, che però consigliò ugualmente al regista di avvalersi di uno sceneggiatore per mettere mano al copione di Darkman.

Raimi chiese allora consiglio al fratello Ivan, laureato in medicina, per curare la parte scientifica del plot, ma quando il regista e il produttore Rober Tappert cominciarono uno sviluppo più ampio del personaggio, arrivando persino a immaginare un franchise, divenne ovvio che servissero autori esperti. La Universal coinvolse quindi Daniel e Joshua Goldin, che ebbero il compito di mettere ordine all’interno delle vulcaniche idee dei fratelli Raimi, portando una linearità nella trama e introducendo maggiormente dialoghi e scene d’azione. Dal loro contributo, oltre che da quello non accredito di Joel e Ethan Cohen, vennero in seguito effettuate altre revisioni per andare incontro alle richieste della major, senza mai venire meno a quello che era uno dei principi base della visione di Sam Raimi:

“Avevo deciso di esplorare l’animo di un uomo. In principio avevamo un uomo onesto, empatico. Nel mezzo della storia, ci troviamo davanti un uomo vendicativo intento a infliggere atti deprecabili ai danni dei suoi nemici. E alla fine, un uomo che odia sé stesso per ciò che è diventato, che deve fuggire nella notte, in un mondo lontano da tutti e da tutti ciò che ama”

Questo diktat di Raimi rimane al centro di tutto lo sviluppo di Darkman. Esteticamente, questo si traduce in una resa del personaggio e degli ambienti a lui affini, come il laboratorio ricavato in un vecchio capannone, che mostra un’affinità ai classici set degli amati horror Universal, con un look post-industriale che tradisce un gusto retrò. Da questo primo impatto visivo, si sviluppa una caratterizzazione del personaggio che viene tratteggiata da questa sua discesa nella folle vendetta, tramite una serie di momenti in cui il lato ‘buono’ di Peyton Westlake viene sempre più soffocato dall’ascesa del più brutale Darkman. Centrale, in tal senso, la reazione di Westlake al momento del suo secondo omicidio, in cui si domanda cosa sia diventato.

In questo passaggio, è evidente il distacco del personaggio di Raimi dal novero dei supereroi. Darkman è un film sui supereroi se lo vediamo come legato a una cifra narrativa in cui sono compresi la comparsa di superpoteri e di ritrovati hi tech, ma a ben vedere Westlake abbraccia una vendetta violenta e cieca. Volendo azzardare un paragone, la vendetta che anima Bruce Wayne/Batman è una missione impossibile, una crociata, che punta a eliminare ogni criminale come ritorsione alla sua perdita. Nel caso di Peyton Westlake, invece, la sua mente geniale orchestra una vendetta finalizzata, spietata e lucida, ma che viene proiettata solamente sui suoi aguzzini, senza una possibilità di trovare una finalità più alta. Darkman non sarà mai un eroe, ma anzi completato il suo intento sembra essere privo di un vero e proprio obiettivo, non ha più un’identità, una privazione della propria personalità metaforicamente reso anche dall’utilizzo di una pelle informa che può esser modellata alla bisogna. Darkman può esser chiunque, ma non è più in grado di capire chi sia realmente. Siamo oltre la dicotomia maschera-uomo, il personaggio di Darkman è un volto anonimo in cerca di un’anima.

Volto che, nella sua contenuta visione umana, ha le fattezze di Liam Neeson. Attore oggi celebrato per la saga di Taken, per aver addestrato Batman in Batman Begins ed esser stato il maestro Qui-Gon Jinn in Star Wars: La Minaccia Fantasma, all’epoca Neeson era un giovane attore irlandese che in America aveva avuto alcune parti minori, specie in serie tv come Miami Vice.

La prima scelta di Raimi era il suo attore feticcio, Bruce Campbell, ma gli studios erano reticenti, anche se il buon Campbell riuscì comunque a interpretare il personaggio nell’ultima scena della pellicola. A spuntarla fu Neeson per via della sua preparazione teatrale, che fondandosi su una valorizzazione della recitazione del corpo era centrale nel poter trasmettere l’emotività di un personaggio che nelle scene chiave del film era totalmente avvolto da bende e con giusto gli occhi visibili. Difficile non vedere in questi passaggi una forte ispirazione a L’uomo Invisibile di James Whale datato 1933, un canovaccio da cui Raimi ha poi costruito una poetica del mutamento sfruttando al meglio il talento di Neeson, in un progressivo passaggio dall’umanità di Petyon Westlake, nascosto sotto le bende, a quella di Darkman, un’evoluzione oscura che viene resa tramite il continuo sfilacciarsi delle bene, accompagnato da momenti di sarcasmo e allegorico dileggio della follia come il balletto di Neeson mentre scimmiotta l’Uomo di Latta interpretatao da Jack Haley ne Il mago di OZ del 1939.

La presenza di Neeson è parte integrante del successo di Darkman. L’attore irlandese riesce a fare proprio il personaggio, la sua profonda traversia interiore, svolgendo un profondo lavoro di ricerca che lo spinse anche a confrontarsi con associazioni di volontariato che aiutavano le vittime di gravi ustioni. La fisicità importante di Neeson è sia una forte componente emotiva, valorizzata nel mostrarci una Westlake ingobbito e debole nei primi momenti della sua vita post-mortem, che nel concedere al personaggio un’esplosiva dinamica nelle scene action, volutamente esagerate e violente, con momenti di eccessi che sono puro godimento, esempio perfetto della grammatica di Raimi.

L'eredità di Darkman

Darkman è la migliore interpretazione del concetto di cinema supereroico dell’immediato periodo post-Batman di Burton. Due concezioni profondamente differenti, con il Cavaliere Oscuro calato in quello che erano le atmosfere volutamente fumettistiche del personaggio, mentre lo sfortunato scienziato si addentra in una dimensione più urbana e realistica, concedendosi anche momenti di feroce ironia. Raimi ha improntato la propria storia, fortunata crasi tra visione autoriale indipendente e produzione ad alto budget, per raccontare una revenge story non priva di alcune pecche, ma che fosse una storia raccontata tramite le follie visive di Raimi, con ardite costruzioni lisergiche a raccontare la discesa nella follia di Westlake e una gestione inconfondibile di un umorismo irriverente, fisico e animato da situazioni paradossali che, tuttavia, sono parte integrante della trama del film.

Le produzioni seguenti ispirate ai fumetti e al loro linguaggio, difficilmente riuscirono a mostrare una personalità di spessore come quella di Darkman. Togliendo dal novero Batman – Il Ritorno, secondo capitolo di quella che ancora sembra la trilogia incompiuta di Burton, i successivi esperimenti, che fossero ispirati a personaggi minori come The Shadow o fallimentari esperimenti come il film TV dedicato a Nick Fury interpretato da David Hasselhoff, mancarono sempre di mostrare una visione d’eccellenza. Condizione che venne in parte ribaltata dal primo Blade. Ma Darkman svetta in quello che fu uno dei periodi più complessi della relazione tra fumetto e cinema, che ebbe una radicale rivoluzione con l’uscita del primo film a dedicato agli X-Men, un cambio di paradigma che vide nuovamente in Sam Raimi l’interprete perfetto con la sua trilogia di Spider-Man.

Quando a Darkman, meglio sorvolare sui progetti successivi, tra seguiti direct-to-video dimenticabili e un tentativo di serie tv totalmente privo di anima. Eppure, ancora oggi Darkman rimane un gioiello del periodo anni ’90, fotografia ottima della visione autoriale di Raimi durante la sua evoluzione stilistica che passa da La Casa arrivando a Spider-Man, in attesa di vedere come il suo linguaggio visivo sarà trasposto ora nel Marvel Cinematic Universe.