Inclusività fra Dungeons & Dragons ed eroi in sedia a rotelle

Gioco ed inclusività: un' avventura di Dungeons & Dragons apre il dibattito sulla gestione della disabilità nel mondo dei giocatori. Ne parliamo con esperti e persone coinvolte nel tema

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a cura di Mauro Monti

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Mondo e business del gioco, inclusività e persone con disabilità. Nelle ultime settimane questi argomenti sono stati fra i più discussi nel mondo legato al settore dell'intrattenimento "analogico" che vede nei giochi di società e nei giochi di ruolo i prodotti più diffusi ed utilizzati. In particolare la pubblicazione da parte di Wizard Of The Coast del libro "Candlekeep Mysteries" contenente una avventura dedicata al proprio gioco di ruolo Dungeons & Dragons, ideata per creare un ambiente immaginario esplorabile anche da avventurieri portatori di disabilità fisiche, ha acceso un forte dibattito proprio sul tema dell'inclusione di temi legati alla disabilità all'interno di prodotti dedicati al mondo dell'intrattenimento; luoghi nei quali - sino ad ora- non sono solite essere trattati in maniera esplicita e "regolamentata" questi elementi.

Gioco, disabilità ed inclusività

Alcune delle domande più "gettonate" nelle discussioni apparse su Internet ed i vari social sono state: "ma che senso ha creare una avventura pensando alla sua fruizione da parte di disabili?", "un disabile non vorrebbe mai giocare un personaggio malato", "è solo marketing, non serve a nulla tutto questo", "che ne sapete voi di cosa vuole un disabile?", "un dungeon per disabili? ma che senso ha!". Abbiamo quindi deciso di portare all'attenzione di un esperto legato al settore del supporto ai portatori di disabilità, che quotidianamente si rapporta a persone e famiglie per tentare al meglio di gestire anche queste situazioni, che cosa ne pensa dell'argomento ed abbiamo anche ritenuto doveroso e necessario porre queste domande a chi con la disabilità vive tutti i giorni in modo da avere una visione chiara e senza filtri di come vengono percepiti tutti questi dubbi da chi è realmente e quotidianamente interessato all'argomento.

Intervista a Jacopo Casiraghi

Psicologo e Psicoterapeuta Sistemico, responsabile del Servizio di Psicologia del Centro clinico NeMO di Milano (NEuroMuscolar Omni-center) dal 2012 collabora con l'Associazione Famiglie SMA ONLUS. Membro del gruppo di lavoro dell'OPL (Ordine degli Psicologi della Lombardia) dedicato ai diritti delle persone con disabilità è autore di "Lupo Racconta la SMA" un libro di favole per bambini e adulti distribuito gratuitamente dalle librerie per favorire l'inclusione scolastica e far conoscere l'Atrofia Muscolare Spinale.   

Disabilità, inclusione, sensibilizzazione e società moderna. Ad oggi da osservatore di questi elementi a che punto siamo nel nostro paese?

Si tratta di una domanda complessa a cui posso rispondere con quella che è la mia esperienza quotidiana accanto alle persone affette da malattia neuromuscolare, al Centro Clinico Nemo di Milano e per conto dell’Associazione Famiglie SMA. Credo sia importante una premessa, vista la tematica di grande attualità: pregiudizi e stereotipi sono sempre presenti, in forma più o meno accentuata, in ciascuno di noi. Ciò che percepiamo come diverso, distante dalla norma a cui siamo abituati, ciò che consideriamo “straniero”, rappresenta fonte di disagio, paura e a volte genera ostilità. Ammettere questo e imparare a riconoscere questi meccanismi psicologici, rappresenta il primo passo per modificare i propri pregiudizi e stereotipi, arrivando a sconfiggere la propria paura per il diverso. La letteratura sul tema ci presenta diversi strumenti per aiutarci a superare lo stereotipo: lo studio e la cultura, la possibilità di conoscere (e abituarsi) a contesti ricchi di diversità, il buon senso, l’educazione ai valori, persino viaggiare è un modo per allargare i confini della propria esperienza e rendere “inclusiva” la propria mente.

Personalmente credo che in Italia si stia assistendo ad una progressione positiva verso una società multietnica e multiculturale, che ha il vantaggio di arricchire l’esperienza personale e facilitare ogni tipo di inclusione sociale. Tuttavia, come sempre, questo processo sociale evolutivo porta con sé resistenze, legate a quella dinamica che in psicologia sociale viene definita “in-group/out-group”: chi viene percepito appartenente ad un “gruppo altro” dal nostro (ad es. affiliati a una tifoseria diversa, appartenenti ad una regione lontana), con maggiore facilità viene categorizzato come “diverso”, nel quale con più facilità emerge l’attribuzione dello stereotipo negativo. Pertanto parlare di “superamento del pregiudizio” è qualcosa di non scontato che necessita esercizio e impegno.

Nel mio lavoro incontro spesso pregiudizi verso la disabilità o la percezione del “diverso”. Le famiglie con cui lavoro hanno spesso bambini con una disabilità motoria. Il primo compito che spetta a questi genitori è superare il loro insito e a volte inconscio “pregiudizio” verso l’uso della carrozzina, percepita come rappresentazione di una malattia e non, come diventerà nel tempo, simbolo di un diverso modo per essere liberi. Questi genitori mi raccontano che per strada i loro bambini in carrozzina vengano guardati spesso con un misto di pietà o intollerabile curiosità. Nella nostra cultura le carrozzine sono ancora percepite spesso solo come immagine del limite e malattia, una barriera culturale oltre la quale ancora si fatica a portare lo sguardo oltre il simbolo e posarlo sulla persona in quanto tale. Questo meccanismo è legato ad uno dei fenomeni più comuni del processo percettivo: quando volgiamo lo sguardo sulla realtà, ci è più semplice accorgerci delle informazioni a cui siamo abituati e che conosciamo da sempre (figura), mettendo in secondo piano (sfondo) ciò che prevede un processo di elaborazione più consapevole e complesso. Ecco perché un ruolo fondamentale lo riveste l’educazione, in particolare nei più piccoli, attraverso la quale è possibile formare a sviluppare uno sguardo più ampio verso la realtà.

Ma cosa significa essere “inclusivi”? Ci sono degli elementi da tenere in considerazione per capire se l’ambiente, i presupposti e le attività sono davvero inclusive?

Si può definite una realtà come inclusiva quando non lascia nessuno solo, quando le caratteristiche di chi è considerato dal gruppo un “diverso” sono riconosciute (non negate, nascoste o normalizzate) e, se possibile, valorizzate.  L’inclusività è un modo di pensare e si basa sui principi dell’equità e delle pari opportunità. È l’ambiente sociale che permette l’inclusività: ciascuno dovrebbe vivere in una società moderna con le stesse opportunità, a prescindere dal colore della propria pelle o dalla forza dei propri muscoli. I bambini con cui ho il privilegio di lavorare hanno “i muscoli deboli” e loro per primi devono imparare i loro diritti e doveri. Spesso mi raccontano che vengono sì invitati alle feste di compleanno, ma a volte non possono giocare a nessuno dei giochi proposti, perché nessuno fra gli adulti ha pensato di predisporre dei festeggiamenti inclusivi, cioè adeguati anche alla loro situazione motoria. E sono convinto che situazioni di questo tipo siano legate esclusivamente alla poca capacità di noi adulti di rispondere in modo nuovo e con creatività a ciò che non conosciamo. Ecco… essere inclusivi significa pensare ad una festa in cui tutti i “bambini” possano parteciparvi, divertendosi insieme, ciascuno valorizzato per le sue risorse e le sue caratteristiche, a prescindere che sia su una carrozzina, o che sia timido o abbia paura dei palloncini che scoppiano.

Ci sono iniziative che possiamo citare come “best practice” per temi, modalità e risultati raggiunti?

Rispetto al tema della disabilità motoria, che è quello che conosco meglio, trovo lodevoli e significative le iniziative di tante associazioni che mettono a disposizione delle proprie amministrazioni locali le carrozzine, facendo sperimentare cosa significhi vivere una giornata in carrozzina. Immergersi in una esperienza in cui “siamo noi i diversi” e il modo migliore per capire quanto possa essere doloroso sentirsi “estranei” nella propria città e quanto bene possa fare all’autostima e, in ultimo, alla personalità sentirsi invece “inclusi”. I parchi gioco accessibili sono un altro modo molto bello per creare inclusione: poter raggiungere la cima del castello di legno o andare in altalena diventa così non più un frustrante ed umiliante limite ma un vero divertimento. Sono poi tanti i progetti portati nelle scuole dove si insegna ai bambini ad imparare il concetto di diversità, inteso come unicità, e a non temere ciò che è considerato “estraneo” da noi. In questa logica il libro “Lupo racconta la SMA” e il fumetto “La Smagliante ADA”, sono progetti dell’Associazione Famiglie SMA e del Centro Clinico NEMO finalizzati a creare una cultura dell’integrazione, insegnando ai più piccoli il tema dell’inclusione.

Inclusione. Cosa significa realmente e cosa vuol dire per una persona con disabilità oggi sentirsi incluso o escluso?

Inclusione significa, come detto, riconoscere e valorizzare le differenze. Parole chiave sono equità e pari opportunità. Attenzione però: includere non significa normalizzare. Normalizzare è eliminare le diversità: una distopia in cui nessuno vorrebbe vivere, perché includere significa abbattere i confini e aprire la mente e…dico io.., anche il cuore. Alla seconda domanda mi piace che sia una persona con disabilità che possa portare la sua testimonianza. Troppo spesso si dimentica una massima d’oro: se si deve parlare di inclusione è importante sentire l’opinione non solo dei professionisti ma anche di chi vive in prima persona la condizione cosiddetta di “diversità”.

Entrando nel caso specifico che in questi giorni è salito alla cronaca, ovvero la presenza di una avventura di un gioco di ruolo ambientata in un dungeon progettato per essere accessibile anche ad avventurieri con disabilità motoria. Ha senso come operazione? Quali gli elementi secondo lei positivi e quali invece – se ve ne sono – quelli negativi legati a questa proposta?

Io credo che l’operazione possa avere senso all’interno del tentativo trasversale da parte di tutti i media (televisione, cinema, fumetti e quindi anche giochi) di aprirsi alla cultura dell’inclusione con scelte narrative orientate a questo obiettivo. La proposta è stata fatta con sensibilità, dato che l’autrice del modulo è a sua volta una persona con disabilità motoria. Un progetto di questo tipo introduce tematiche sociali in contesti che abitualmente non trattano questo tipo di argomenti, anche se alcuni giochi di ruolo trattano l’inclusione del diverso già da decenni. Alcuni master virtuosi poi hanno sempre cercato di portare il tema della lotta all’ingiustizia sociale nelle proprie campagne, a prescindere dal sistema di gioco utilizzato. Rispetto alla proposta del “dungeon accessibile” è necessario domandarsi “cui prodest”?  La proposta serve soprattutto a chi non conosce la disabilità. È utile per abituare il giovane cittadino alle diversità ed è uno dei tanti modi possibili per rendere meno estranea la disabilità. È una intelligente strategia per fare cultura sociale, che deve essere affiancata però sempre a politiche educative inclusive.

Per chi ha una storia di disabilità motoria il “dungeon accessibile” potrebbe essere invece meno interessante da giocare dato che partecipare a un GDR significa spaziare e sperimentarsi in ruoli diversi e in contesti dove, anche solo per un attimo, si ha la possibilità di non prestare attenzione alle barriere architettoniche. Proposte di questo tipo, se è vero che di primo acchito possono rappresentare una semplificazione di un tema più complesso come quello dell’inclusione sociale, dall’altro sono convinto che rappresentino anche una modalità concreta per iniziare a focalizzare l’attenzione sul rispetto della diversità di ciascuno, in modo semplice e giocoso. Amo citare a riguardo Charles Hughes: “Quando perdiamo il diritto a essere diversi, perdiamo il privilegio di essere liberi”.

Un’avventura “senza scale ma solo rampe”: è il modo giusto di sensibilizzare il mondo dei giocatori sulle problematiche della disabilità fisica? Non si rischia di incorrere in una nuova categorizzazione delle persone interessate?

Nel modulo, che non è ancora stato messo in vendita, pare si parli di una “segreta” popolata da trappole e mostri con le rampe invece dei gradini. Per quanto narrativamente questa scelta appaia bizzarra, è un modo per inserire in un gioco un tema sociale importante che in molte città non andrebbe solo discusso ma persino risolto.  Personalmente ho sempre pensato che gli RPG, di base aiutino l’inclusione già solo nel modo in cui vengono giocati: chiunque può entrare in un gruppo di giocatori ed essere accolto per quello che è. Spesso alle giovani persone con disabilità motoria suggerisco di conoscere il mondo dei giochi da tavolo e dei giochi di ruolo (oltre a tanti altri contesti sociali) perché possono essere realtà davvero inclusive e feconde.

Più controverse possono essere invece certe rappresentazioni un po' forzate della diversità: la miniatura del barbaro in carrozzina, tutto muscoli e asce da battaglia, potrebbe mandare un messaggio fuorviante perché si basa su un pregiudizio positivo. Lo abbiamo pensato tutti ingenuamente: la persona ad esempio non vedente che diventa “super” perché ha altri sensi che compensano. Questa affermazione (oltre ad essere falsa scientificamente) è fuorviante e non inclusiva perché sottintende il concetto di compensazione. Esistono poi scelte di cui mi sono innamorato anche dal punto di vista dello story-telling: la linea di bambole inclusive, ognuna con un corpo, un’altezza, dei tratti somatici peculiari è davvero una bella trovata esattamente come i giochi di costruzione dove troviamo anche gli omini in carrozzina, in mezzo alle altre minifigures del parco…. senza clamori, come se fosse normale, perché tutto ciò, mi piace ricordarlo, è assolutamente normale e reale.

Intervista a Simona Spinoglio

Dottoressa in Psicologia, Educatrice e Gestalt Counselor. Dal 2005 lavora come libera professionista con adulti e bambini, individualmente o in gruppo nell’ambito dell’educazione, del rilassamento e della crescita personale attivando corsi e seminari. Collabora da anni con l’Associazione nazionale “Famiglie sma” che si occupa della qualità della vita delle persone affette da atrofia muscolare spinale e delle loro famiglie.

Disabilità e inclusione. Cosa significa per lei inclusione ed in che modo dovrebbero agire aziende e la società intera perché diventi reale?

Per me l’inclusione si genera nel momento in cui, all’interno di una realtà, le diversità di ogni individuo diventano una naturale parte del tutto. Credo molto nella comunicazione, nell’ascolto e nello scambio e per generare inclusione è fondamentale attivare una rete virtuosa di informazioni che possano da un lato ovviare alla non conoscenza e dall’altro evidenziare che ogni essere umano è portatore di diversità, nelle sue infinite sfumature. La società ha il dovere di facilitare questo tipo di comunicazione e di cultura.

Quanto segue con interesse questi progetti/tentativi di sensibilizzare sul tema della diversità e quanto invece ritiene siano meramente operazioni commerciali?

Ogni operazione commerciale è anche una forma di comunicazione e se offre un messaggio di sensibilizzazione, credo assuma un valore aggiunto. Personalmente e professionalmente trovo interessanti sempre i messaggi che le aziende veicolano sul tema della diversità, perchè possono essere uno stimolo nella creazione dell’inclusione.

È utile ed importante trattare il tema della disabilità anche nel gioco sino a renderlo un elemento complementare all’esperienza?

Nella vita reale la disabilità è un elemento dell’esperienza, è, come dicevo, una delle diversità che incontriamo nel mondo. Ricrearla nel gioco è utile nel momento in cui lo si fa con la stessa intenzione con cui si ricreano gli altri elementi, senza renderla speciale, nè minimizzarla, ma facendola diventare una delle parti del tutto. Nel gioco, più che mai, viviamo il mondo del “possibile” e avere la possibilità di interagire con la disabilità è sicuramente un arricchimento e uno stimolo a renderla qualcosa di più “comune”. Inoltre contribuisce a trasformare quella tendenza a categorizzare la disabilità insieme alle cose negative come la malattia, la sfortuna, il bisogno, ma la rende parte del “gioco della vita”, qualcosa che possiamo nominare e con cui possiamo interagire con meno pesantezza.

Una delle frasi più presenti nelle varie discussioni apparse in rete in questi giorni è: “un disabile non vorrebbe mai giocare come un disabile”. Può scrivere un suo commento e il suo pensiero in merito a questa affermazione?

Beh è una frase che può avere un senso ironico, un senso discriminante o che può semplicemente essere una banale realtà. La differenza la fa l’intenzione e il significato profondo che diamo alla parola “disabile”, la differenza la fa come vive la disabilità chi la pronuncia. Nel mio specifico caso, credo di aver sufficientemente famigliarizzato con quella parola, tanto da ripulirla da ogni possibile tabù. Per questo mi verrebbe provocatoriamente da dire che a nessuno, e non solo a chi è disabile, piace giocare come un disabile; dopodichè accade, nella vita e nel gioco, e a quel punto non resta che “trovare la propria strategia”.

La proposta di un “dungeon senza barriere architettoniche”. Da giocatrice di ruolo apprezza l’idea e ritiene possa essere utile per sensibilizzare in qualche modo i giocatori sul tema della disabilità?

Penso che possa essere un bello stimolo a famigliarizzare con la disabilità in un contesto e con una modalità leggera e lontana dalla retorica o da qualunque giudizio. Sdoganare le parole, la realtà, i limiti e le sfumature della disabilità all’interno di un gioco è renderla “parte del tutto” .

Ritiene che la presenza di elementi salienti come ad esempio una sedia a rotelle, all’interno di fumetti, serie TV, cartoni animati, miniature per giochi di ruolo etc siano utili per favorire l’inclusione?

Sono utili nel momento in cui vengono presentati e raccontati come parti della realtà, nel momento in cui non creano “supereroi” (favorendo un pregiudizio positivo) o “vittime” (favorendo un pregiudizio negativo). Perchè ciò accada è importante che l’accento venga dato a personaggi la cui disabilità è una caratteristica, non un tratto che ne determina la personalità. Non esistono “i disabili” ma esistono “le persone con disabilità” e un gioco può creativamente riprodurle e favorire così l’inclusione.

Cosa si intende per abilismo? In che modo lo ha sperimentato? Quali altri pregiudizi positivi o negativi esistono rispetto alle persone con disabilità?

Abilismo è tutto ciò che discrimina le persone con disabilità, considerandole appartenenti ad una “categoria” a parte, lontana dal resto della popolazione. A volte è palesemente espresso da una barriera architettonica o da un pregiudizio per esempio rispetto alla scarsa qualità di vita di chi è su una sedia a rotelle. Altre volte è velato fra atteggiamenti di esagerato apprezzamento o affetto, non giustificati dalla relazione. L’abilismo ha mille volti ed è spesso frutto di quel naturale pregiudizio di cui ogni essere umano è portatore; un pregiudizio che non viene riconosciuto o consapevolizzato, diventando così una barriera nel contatto con l’altro. I pregiudizi positivi e negative sono infiniti e, come tutti i pregiudizi, nascono dalla non conoscenza, dalla non famigliarità e dalla conseguente rigidità di pensiero. Personalmente non biasimo chi li ha, ma solo chi, quando mi incontra, continua a mantenerli, non riconoscendo la realtà che ha di fronte. Io non sono particolarmente fragile, non sono speciale, la mia malattia non è il problema più grande che ho, non è significativo o strano il fatto che io abbia delle relazioni; nel momento in cui tu lo pensi hai un atteggiamento abilista, sei vittima del tuo pregiudizio e, soprattutto, stai perdendo la possibilità di entrare autenticamente in relazione con me.

Si tolga un sassolino dalla scarpa: quale pensiero o argomento relativo al tema dell’inclusione vorrebbe dedicare ai nostri lettori?

Mi piace pensare che i vostri lettori, che sono certamente persone diverse tra loro, con e senza disabilità, si possano fermare un istante, stimolati da quanto hanno letto fino ad ora, per prendersi qualche minuto e chiedersi quali e quanti sono i propri pregiudizi nei confronti della diversità. Senza negarli, senza minimizzarli, ma semplicemente prendendosi la responsabilità di riconoscerli e magari nominarli, possono chiedersi autenticamente: “Come immagino che sia la vita di chi è su una sedia a rotelle? Come sono convinto che sia l’esistenza di chi ha una disabilità più limitante della mia? Cosa penso di chi è fisicamente sano e prestante? Come giudico chi mi sta raccontando qui il proprio pensiero personale e professionale sul tema della disabilità?”  Mi piace pensare che i vostri lettori rispondano a queste domande, dopodichè, se desiderano incontrare davvero l’altro, prendano le proprie risposte, se le mettano simbolicamente in tasca e diano inizio a quell’avvincente avventura chiamata “conoscenza”.