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Walt Disney tra la Corazzata Potëmkin e Sergej Ejzenstejn

Nel 1930 Sergej Ejzenstejn, il regista della Corazzata Potemkin, incontra Walt Disney: dieci anni dopo, scrive un saggio che esalta la poetica di Disney.

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Avatar di Mario Petillo

a cura di Mario Petillo

Contributor

Pubblicato il 13/01/2020 alle 16:45 - Aggiornato il 09/08/2022 alle 12:47

La corazzata Potëmkin non è una cagata pazzesca. Nonostante il ragionier Ugo Fantozzi lo ritenesse tale e nonostante oramai il film sia ritenuto essere alla stregua di quel cinema noioso, borioso, "palloso", che non diverte e che quindi viene meno alla funzione primaria del cinema, ossia intrattenere. La corazzata Potëmkin (disponibile in DVD su Amazon), checché se ne possa dire, è un capolavoro. Sergej Ejzenstejn merita di essere difeso e di essere innalzato a fondamentale pietra miliare del cinema contemporaneo: non si può prescindere dal ritenerlo uno dei grandi della settima arte. Criticarlo e contestarlo "per partito preso" può anche essere considerato un atto di superficiale spocchia da parte di chi vuole denigrare i critici e il cinema.

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Ma cosa c’entra tutto questo con Walt Disney? C’entra, perché Ejzenstejn, l’artigiano del montaggio, il principe del cinema muto, l’eroe della rivoluzione sovietica, negli anni ’30 decise di andare a far visita al più visionario dei cineasti all'epoca in circolazione e in attività. A Los Angeles si concretizzò questo incontro a dir poco surreale, inaspettato, inimmaginabile. È come se, con le dovute precauzioni e premesse di iperbole, Che Guevara avesse deciso di andare a prendere un caffè con Benito Mussolini e insieme si fossero messi a discutere di politica. Ovviamente Ejzenstejn e Disney si occupavano di aspetti molto più genuini, puerili: le loro mani producevano intrattenimento, non politica. Ristabilivano l’ordine con l’immaginazione, ma in maniera diversa. Ecco, immaginare che questi due mondi potessero avere, un giorno, la possibilità di incontrarsi era pura follia.

Sergej Ejzenstejn e il cinema sovietico

Ejzenstejn era un regista che nel 1924 aveva deciso di raccontare la rivoluzione sovietica, quanto importante fosse stato quel momento per la storia russa e quanto fosse fondamentale andare a raccontarla alle generazioni successive e future. Il cinema è ancora acerbo, non sa bene quale sarà il suo futuro e racconta storie cercando di trovare l’esatta direzione: non siamo ancora dinanzi ai capolavori della suspance di Alfred Hitchock, non abbiamo ancora apprezzato Fritz Lang, quindi Ejzenstejn pensa che il modo migliore per operare l’arte cinematografica sia quella di applicare il montaggio come mezzo di parola. Attraverso il montaggio si riesce “ad arare come un trattore la psiche dello spettatore”, come dichiara il regista. Il cinema dev'essere un pugno, che deve perforare il cuore dello spettatore e colpirlo nel privato. La narrazione viene stravolta, non importa che sia lineare, e si va a sottolineare lo spirito della rivoluzione e la violenza della repressione zarista. Odessa si lascia andare a una scala di grigi, totalmente muta, senza dialoghi, con tantissima emozione e potenza evocativa non di un film che racconta la storia, ma che esalta la potenza del cinema.

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Va da sé comprendere che il mondo di Ejzenstejn fosse molto distante da quello di Walt Disney, che non raccontava la storia, non si preoccupava di quello che era successo nel passato: Walter era l’esempio lampante del New Deal di Roosvelt. Eppure nel 1940, mentre era al lavoro sul Metodo, la sua opera teorica più ambiziosa di sempre, con la quale andava a preoccuparsi del Grundproblem, ossia il rapporto tra ragione ed emozione nell’arte, Ejzenstejn decise di studiare Walt Disney, che aveva incontrato nel 1930, dieci anni prima, quando Biancaneve non era ancora nemmeno nei suoi piani, quando Topolino era nato da pochissimo e quando nulla aveva ancora le sembianze di un impero. Il regista russo si ritrovò in un’America che lo accolse con la sua civiltà industriale, il suo grigio e la sua catena di montaggio eterna, inarrestabile. Disney, invece, nell'accoglierlo tra le braccia di Topolino, gli diede una finestra sull’emotivo, sull’estasi, un risorgere del pensiero prelogico.

Un incontro folgorante per la Russia

“Disney è al di là del bene e del male”, scrive Ejzenstejn nel suo saggio intitolato proprio “Walt Disney” (disponibile su Amazon), edito in Italia da Castelvecchi. Dice che è superiore a Chaplin, autore di un lamento costante sulla perdita dell’infanzia, è angosciante, Disney invece riabilita il pubblico e lo riconduce al paradiso. Ejzenstejn, tra l’altro, spiega di avere tre ricordi nitidi della sua infanzia: il primo riguarda una poesia su un arabo nel deserto, con il suo cammello impazzito che lo insegue. Nel tentativo di sfuggirgli, l’arabo precipita in un burrone, ma riesce ad afferrarsi a un cespuglio: nonostante la situazione di totale pericolo e di impossibilità alla sopravvivenza, l’arabo nota delle bacche sul cespuglio e immediatamente si concentra su quelle, cercando di coglierle, dimenticandosi dello stato di necessità. Il secondo ricordo è legato a degli angeli che scendono negli inferi per poter, con un tocco caritatevole, dare un effimero sollievo alle anime immerse nella pece bollente.

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Il terzo, infine, è legato a Victor Hugo e al suo Notre Dame de Paris, esattamente a Esmeralda, la gitana che tanto conturbò l’arcidiacono Claude Frollo. La zingara si avvicina a Quasimodo, fustigato e legato alla gogna dopo esser stato tormentato dalla sete e dalle beffe del popolo, e dà da bere al ragazzo, per poi poggiare le sue labbra sul volto sofferente del gobbo. Una scena che la Walt Disney Pictures, nel 1996, per mano di Gary Trouslade e Kirk Wise, replicò pedissequamente ne Il Gobbo di Notre Dame. Questi tre momenti, chiaramente legati a un sollievo effimero, al dono dell’oblio, temporaneo ma in grado di dare un barlume di gioia, seppur destinata a morire, e per Ejzenstejn vengono rievocati nel momento in cui per la prima volta, nel 1936, si ritrova a guardare Biancaneve. Disney con le sue storie riesce a donare un momento di totale libertà e di assoluto oblio, andando ad annullare le sofferenze che per un regista figlio del mondo sovietico come Ejztenstejn non potevano che andare a confluire nella società capitalista. Disney, d’altronde, non accusa e non condanna: dona speranza.

La meraviglia della musica: da Fantasia a Gianni

Il racconto di Ejzenstejn sembra quasi estasiato, come se provasse una genuina invidia per quello che in America stava riuscendo a concretizzare Walt Disney. Ne è attratto, ne è ossessivamente disturbato, ma in senso positivo. Ancora più inaspettato, però, è quando il regista sovietico arriva a parlare di Bambi e di Musica Maestro (disponibile su Amazon). A dirigere l’ottavo Classico Disney, quello meno considerato e più bistrattato, ma che nasconde al suo interno una perla rara, era stato un gruppo corale di più registi, guidati da Jack Kinney, l’autore del famoso cortometraggio in cui Paperino sognava di ritrovarsi a lavorare in una fabbrica nazista, il più alto esempio di corto propagandistico della produzione di Walt Disney durante la seconda guerra. Senza divagare, però, torniamo su Musica Maestro: Ejzenstejn, acuto osservatore e soprattutto grande conoscitore dell’arte cinematografica, dopo aver apprezzato l’estro di Disney con Fantasia non può che apprezzarlo anche sul film collettivo che fu l’ottavo Classico, con una particolare attenzione per quel segmento che in Italia è arrivato col nome de “La balena che voleva cantare all’opera”.

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Per qualche motivo che solo il regista russo potrebbe spiegarci, Ejstenstejn in questo passaggio ci rivede tanto del suo Ivan il Terribile, la trilogia dedicata a Ivan IV che purtroppo non venne mai completata per la sopraggiunta morte del regista. Soffermarsi e indugiare su Gianni, la balena che voleva cantare all’opera aprirebbe una parentesi troppo ampia, che merita maggior respiro in un’analisi più approfondita, che possa dare spazio al magnifico lavoro svolto da Alberto Sordi nell’adattamento in italiano e a quanto realizzò Saturno Meletti, nel doppiare Nelson Eddy, che cantò tutte e tre le voci maschili nella prima parte del Sestetto della Lucia di Lammermoor di Donizetti. Approfondiremo nei prossimi appuntamenti.

Nel frattempo chiudo questa inaspettata e sorprendente vicinanza tra la corazzata Potemkin e Walt Disney citando un passaggio di Enrico Ghezzi: “Il suo segreto - scrive Ghezzi, che si fa ispirare da un racconto di Clarke e racconto in una antologia curata da Asimov - sarebbe rimasto inviolato fino alla fine dei tempi, perché nessuno oramai era in grado di leggere la lingua della vecchia terra. Milioni di volte, nelle età future, quelle ultime parole sarebbero lampeggiate sullo schermo senza che nessuno riuscisse a comprenderne il significato: una produzione Walt Disney”. Sergej Michajlovič Ėjzenštejn nel 1930 aveva deciso di andare oltre le sue idee, il suo cinema, le sue convinzioni e aveva scoperto il significato di quelle ultime parole.

Volete approfondire il tema del rinascimento Disney ascoltando un Podcast comodamente seduti in auto? “Ho ucciso io Mufasa” è disponibile per voi su  Spreaker, Spotify e Deezer con curiosità, aneddoti e speciali dedicati proprio al mondo Diseny.

 

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