Un nuovo studio pubblicato sulla rivista Nature ribalta la lettura tradizionale della Grande Paura, l'ondata di panico che attraversò la Francia rurale nell'estate del 1789, alle origini della Rivoluzione. Analizzando dati storici con gli strumenti dei sistemi complessi, un gruppo di ricercatori guidato da Stefano Zapperi ha dimostrato come la diffusione delle voci non fu un moto irrazionale e incontrollato, ma seguì traiettorie precise e prevedibili, legate a fattori socio-economici concreti.
Questo approccio metodologico sposta l'attenzione dalla psicologia delle folle all'analisi quantitativa delle reti e delle condizioni strutturali. Dimostra come un evento storico, a lungo interpretato come puramente emotivo e caotico, possa essere decodificato come un fenomeno misurabile, offrendo una nuova lente per comprendere i meccanismi di propagazione delle informazioni in una società. Una lezione sul passato che si rivela uno strumento potente per leggere il presente.
L'analisi della Grande Paura, quindi, cessa di essere una semplice curiosità per storici e diventa un modello per comprendere le dinamiche con cui le informazioni, vere o false che siano, si diffondono oggi. In un contesto dominato da reti digitali e intelligenza artificiale, capire le strutture che governano i flussi informativi non è più un'opzione accademica, ma una necessità strategica per decifrare la complessità del nostro tempo.
La Grande Paura: anatomia di un mito storiografico
Per comprendere la portata di questa ricerca, è necessario contestualizzare l'evento al centro dell'analisi. La Grande Paura (in francese Grande Peur) fu un'ondata di panico collettivo che si diffuse nelle campagne francesi tra il luglio e l'agosto del 1789. Innescata dalla presa della Bastiglia e da un profondo vuoto di potere, fu alimentata da voci incontrollate che parlavano di un presunto "complotto aristocratico", secondo cui i nobili stavano assoldando briganti per distruggere i raccolti e affamare il Terzo Stato.
Oggi parleremmo di disinformazione e misinformazione, ma comunque la narrazione, priva di fondamento, scatenò una reazione a catena. I contadini si armarono, formarono milizie e, in molti casi, assaltarono i castelli dei signori feudali, bruciando i documenti che contenevano i documenti relativi ai loro obblighi servili. Fu un momento di rottura che accelerò in modo decisivo il processo rivoluzionario, portando all'abolizione dei privilegi feudali da parte dell'Assemblea Nazionale Costituente.
La storiografia tradizionale, a partire da Georges Lefebvre, ha a lungo interpretato questo fenomeno come un moto spontaneo e irrazionale, un'esplosione di emotività popolare scatenata dalla miseria e dall'incertezza. Una lettura suggestiva ma incompleta, che non riusciva a spiegare in modo soddisfacente la rapidità quasi metodica e le direttrici geografiche ben definite con cui le voci si propagarono attraverso il territorio francese.
Il panico sembrava viaggiare più veloce degli uomini, seguendo percorsi che non apparivano casuali. Questa anomalia ha rappresentato per decenni un enigma storiografico. La spiegazione puramente psicologica lasciava irrisolta una domanda fondamentale: se si trattava solo di caos, perché seguiva uno schema riconoscibile? Era necessario un cambio di prospettiva, un nuovo strumento per analizzare il fenomeno non come un'esplosione di sentimenti, ma come un processo sistemico.
La lente del dato per interrogare il passato
È qui che interviene lo studio di Zapperi e dei suoi colleghi, spostando l'analisi dal campo della narrazione a quello della misurazione. La vera innovazione della ricerca risiede nella sua metodologia, un'opera quasi di archeologia digitale applicata a un'epoca priva di computer. I ricercatori hanno ricostruito la rete fisica della Francia del Settecento, digitalizzando mappe stradali dell'epoca per mappare le vie di comunicazione esistenti.
Su questa infrastruttura geografica hanno poi innestato una mole impressionante di dati qualitativi, trasformandoli in variabili quantitative. Hanno analizzato cronache locali, registri parrocchiali e documenti amministrativi per tracciare, villaggio per villaggio, il percorso e la tempistica di arrivo delle voci. In questo modo hanno creato un dataset dinamico della propagazione del panico, una vera e propria mappa spazio-temporale del fenomeno.
Il passaggio successivo è stato applicare a questi dati un modello di diffusione normalmente usato in epidemiologia. Come sottolineato anche da Walter Quattrociocchi nel suo commento alla ricerca, è fondamentale notare una differenza sostanziale: non si tratta di un contagio da individuo a individuo, come per una malattia, ma di una trasmissione tra nodi di una rete. Le città e i villaggi fungevano da centri che ricevevano, elaboravano e ritrasmettevano l'informazione lungo le vie di comunicazione. Il modello epidemiologico è applicabile, ma con alcune specificità da tenere in considerazione.
Infine, il modello è stato arricchito con variabili socio-economiche per testare quali fattori avessero influenzato la velocità e la direzione della diffusione. Tra questi, il prezzo del grano (un indicatore di tensione sociale), la densità demografica, i tassi di alfabetizzazione e le diverse norme sulla proprietà fondiaria. L'obiettivo non era solo descrivere il percorso delle voci, ma capire il perché di quel percorso.
Dal caos all'ordine: cosa rivela il modello matematico
I risultati dell'analisi demoliscono l'immagine della Grande Paura come un evento caotico e irrazionale. Il modello matematico ha dimostrato che la propagazione delle voci non fu affatto casuale, ma seguì schemi ben precisi e prevedibili, con una corrispondenza quasi perfetta tra la diffusione simulata e quella documentata storicamente.
La scoperta più controintuitiva e significativa riguarda i motori di questa diffusione. Contrariamente al mito delle "masse ignoranti" e facilmente suggestionabili, lo studio rivela che i principali acceleratori del fenomeno furono i centri urbani più popolosi, più connessi e con i tassi di alfabetizzazione più alti. Questi luoghi non erano semplicemente ricettori passivi del panico, ma veri e propri hub di elaborazione e amplificazione delle informazioni.
Questi nodi della rete, più istruiti e organizzati, ricevevano le voci, le confermavano attraverso le loro reti sociali e le ritrasmettevano con maggiore autorevolezza e velocità lungo le principali direttrici stradali. In sostanza, la struttura sociale ed economica del territorio ha determinato la dinamica della diffusione, trasformando un insieme di paure locali in un fenomeno nazionale coordinato, sebbene non pianificato.
Ciò che per due secoli era stato descritto come disordine emotivo si rivela quindi essere una dinamica di rete con una sua logica sistemica e misurabile. La paura non correva a caso, ma viaggiava lungo le infrastrutture materiali e sociali della Francia pre-rivoluzionaria. Questo ribaltamento di prospettiva sposta l'evento dal dominio della psicologia a quello della geografia, dell'economia e della scienza delle reti.
La lezione epistemica: dalla storia alla disinformazione
Il valore di questo studio, come accennato, va ben oltre la storiografia. Offre una potente lezione epistemica, ovvero sul modo in cui costruiamo la conoscenza, valida soprattutto oggi. Come osserva Quattrociocchi, la forza di ricerche come questa sta nel "trasformare eventi raccontati a lungo come pura emozione in fenomeni quantificabili, restituendo struttura a ciò che sembrava disordine". È un invito a privilegiare il modello misurabile rispetto alla narrazione aneddotica.
Questo cambio di prospettiva è cruciale per affrontare la sfida della disinformazione nell'ecosistema digitale. Anche oggi, la tendenza è spesso quella di attribuire la diffusione di notizie false a una presunta "irrazionalità" o "ignoranza" degli utenti. Si tratta di una spiegazione consolatoria ma, come dimostra il caso del 1789, probabilmente errata. La viralità della disinformazione non è solo un problema psicologico, ma un fenomeno strutturale.
Le dinamiche osservate nella Francia del Settecento trovano un'inquietante eco nelle reti social odierne. Anche qui, la propagazione non è casuale, ma segue le architetture delle piattaforme, viene amplificata da specifici nodi (influencer, hub mediatici) e fa leva su condizioni socio-economiche preesistenti, come la polarizzazione e la sfiducia nelle istituzioni. La soluzione non sta nel giudicare gli individui, ma nell'analizzare e comprendere il sistema.
A tutto ciò si aggiungono i moderni LLM, chiamati popolarmente Intelligenze Artificiali; possono creare narrazioni verosimili ma completamente false su scala industriale, e la nostra capacità di distinguere il vero dal falso è messa a dura prova. La lezione della Grande Paura è che l'antidoto a questa crisi epistemica non risiede nell'affidarsi all'intuizione, ma nel rafforzare la nostra capacità di costruire modelli quantitativi, basati su dati verificabili, per mappare, misurare e comprendere le strutture che governano la diffusione della conoscenza e della sua distorsione.
Il valore di un modello matematico applicato alla storia non è quello di fornire una verità definitiva, ma di offrire uno strumento rigoroso per testare le ipotesi e superare i pregiudizi interpretativi. Ci insegna che la vera sfida, oggi come allora, non è lamentare il caos informativo, ma cercare la logica nascosta che lo governa.
Evitare di scambiare per disordine ciò che in realtà segue le regole precise di un sistema complesso è forse la competenza più critica del nostro tempo. Comprendere le strutture che abilitano i comportamenti collettivi, siano essi il panico in una campagna del Settecento o la viralità di una fake news su un social network, è il primo, indispensabile passo non solo per spiegare il mondo, ma anche per provare a governarlo.