L'invecchiamento non segue un percorso uniforme: alcune persone restano lucide e attive fino ai 90 anni, altre sviluppano diabete, Alzheimer o difficoltà motorie molto prima. Questa disparità ha spinto un team internazionale dell’Università del Colorado Boulder a condurre uno studio per identificare le basi genetiche di tali differenze. Pubblicata su Nature Genetics, la ricerca rappresenta un passo decisivo per comprendere i meccanismi biologici dell’invecchiamento e aprire nuove strade terapeutiche contro le malattie legate all’età.
La mappatura genetica dell’invecchiamento accelerato
Il lavoro ha individuato oltre 400 geni collegati all’invecchiamento patologico, contro i soli 37 noti finora, organizzandoli in sette sottocategorie. Isabelle Foote, prima autrice, sottolinea: "Per fermare o invertire l’invecchiamento biologico dobbiamo conoscere la biologia sottostante. Questo è lo studio genetico più ampio mai realizzato in questo campo". L’analisi ha esaminato DNA e dati clinici di centinaia di migliaia di persone attraverso la UK Biobank e altri database, correlando specifici geni a 30 sintomi di fragilità, il declino multisistemico tipico dell’età avanzata.
I ricercatori hanno distinto sei sottotipi di fragilità: disabilità, cognizione compromessa, problemi metabolici, malattie multiple, stile di vita malsano e supporto sociale ridotto. Ogni categoria presenta firme genetiche diverse. Il gene SP1, ad esempio, è legato al sottotipo cognitivo e al morbo di Alzheimer, mentre il gene FTO, noto per l’associazione con l’obesità, influenza più aspetti dell’invecchiamento. Come ricorda Kenneth Rockwood, coautore: "L’invecchiamento non è una cosa sola. Ci sono molti modi di essere fragili".
Verso terapie personalizzate anti-età
Oggi il 40% degli over 65 negli Stati Uniti è considerato fragile, ma due pazienti con lo stesso punteggio possono avere condizioni molto diverse. Andrew Grotzinger, autore senior dello studio, chiarisce: "Abbiamo dimostrato che ci sono biologie differenti alla base dei vari tipi di fragilità". Espandere le misurazioni cliniche includendo i sei sottotipi permetterebbe terapie mirate: chi mostra fragilità cognitiva potrebbe ricevere interventi preventivi contro la demenza, mentre chi presenta fragilità metabolica potrebbe adottare strategie anti-diabete o cardiovascolari.
Foote immagina un sistema in cui ciascuno riceva un “punteggio di rischio poligenico” per conoscere la propria predisposizione a specifici tipi di fragilità. Lo studio rafforza l’ipotesi geroscientifica, secondo cui trattare l’invecchiamento stesso è la chiave per affrontare le malattie croniche legate all’età. Una pillola universale rimane improbabile, ma, come osserva Grotzinger, "non serviranno centinaia di terapie diverse: potrebbero bastarne poche, mirate ai giusti sottotipi".