Final Fantasy XVI, Berserk e l'affresco della miseria umana

C'è un fil rouge che lega Berserk, straordinaria opera di Kentaro Miura, al recente Final Fantasy XVI

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a cura di Raffaele Giasi

Senior Editor

Era il 6 maggio 2021 quando morì Kentaro Miura e, lo ricordo nitidamente, sentii che la mia passione, quella più intensa e viscerale, subì una specie di frattura. Era morto, per me, uno dei padri della letteratura, come se di colpo avessi perso un Lovecraft o un Dickens, anche se capisco che certe associazioni possano suonare strane a chi crede che il manga sia solo “robetta”... cosa che non mi sorprende vista la gran quantità di robaccia che si mette oggigiorno su carta, ma vabè.

Ora, vi direte voi, che questa introduzione non ha molto senso, perché questa è GameDivision, e non Cultura Pop (a proposito, andate a farvi un giro sul loro nuovo portale), e che quindi parlare di Kentaro Miura non abbia poi un gran significato, ma il punto è che noi si ha la fortuna di vivere in un mondo in cui i compartimenti stagni rimasti sono molto pochi, ed anzi, è in atto da tempo un grande processo di “riscrittura della creatività”, che permette a diversi ambiti della cultura popolare di traspirare e contaminarsi, e capita così che si finisca in un giro assurdo di rimandi, citazioni, camei e incursioni varie, e questo è vero tanto per il cinema quanto per tutto il resto della roba che si fruisce.

E dunque, si diceva, finisce che un articolo sui videogame possa cominciare parlando di Kentaro Miura.

Miura, per chi non lo sapesse, è stato il papà di Berserk, AKA una delle serie manga più importanti di sempre. Parliamo di una roba così mastodontica e idolatrata i cui corrispettivi, probabilmente, sono pochissimi, quanto meno all'interno del campionario della letteratura grafica moderna. Mi verrebbe da pensare, chessò, al 20th Century Boys di Urasawa, al Sandman di Neil Gaiman, al Watchmen di Alan Moore ed a poche altre robe che per bellezza, ma soprattutto profondità, si sono attaccate all'immaginario collettivo. Perché Berserk non è solo popolare, ma è anche profondo, stratificato, a suo modo complesso, ed un paragone con Dragon Ball, per dire, non avrebbe poi molto senso, per quanto di quest'ultimo non si negherà mai neanche un briciolo della sua importanza, né della sua popolarità.

Berserk, però, è molto diverso. Anzitutto, è un racconto adulto e per adulti e, in tal senso, ha la pretesa di trattare tematiche non proprio morbide. Inoltre, nella sua gargantuesca e mostruosa bellezza, Berserk è diventato il punto di riferimento del fantasy moderno, maturo, dark e granguignolesco: un coacervo di emozioni vivide e crudeli, in cui la violenza è sempre tracotante ed estremizzata, ed in cui il confine tra i mostri e gli esseri umani è tanto sottile quanto volubile, ed è tracciato in modo netto e demarcante solo dall'aspetto, anche se spesso pure gli uomini, nelle loro smorfie sguaiate e sofferenti, finiscono per assumere i tratti terribili di quegli stessi mostri da cui vorrebbero prendere le distanze.

Insomma, parliamo di un prodotto davvero “adulto” che, per quanto ormai orfano del suo creatore, e forse anche del suo smalto originale (l'arco de “L'Età dell'Oro” era e resta il punto più alto dell'intera opera), ha lasciato indelebilmente un segno nella cultura di massa e, come specificato anche in alcune interviste, anche su Yoshi-P.

Al secolo Naoki Yoshida, Yoshi-P è il Boss della Creative Business Unit III di Square-Enix e fu già producer di quello che è stato il rilancio, per altro profittevole e di successo, di Final Fantasy XIV, ovvero del secondo tentativo di Square-Enix di rendere l'immaginario, le meccaniche e una certa parte della “lore condivisa” di Final Fantasy, un prodotto online di successo. La cosa curiosa è che vuoi lo stoicismo, vuoi le buone idee, vuoi l'abilità, Yoshi-P riuscì nel suo intento, e con “A Realm Reborn”, Final Fantasy XIV è effettivamente rinato. Non stupisce, dunque, che per un nuovo rilancio, in questo caso quello dell'esperienza più puramente single player del “classico Final Fantasy”, Square-Enix abbia pensato di servirsi proprio del buon Yoshida, col compito di innovare quella che è una serie il cui smalto, ammettiamolo, ad un certo punto si è perso improvvisamente, anche al netto di vendite comunque dignitose, se non proprio “buone”.

E così, tracciando una netta linea di demarcazione tra il vecchio modo di concepire Final Fantasy e, si spera, quello che potrebbe essere il suo nuovo percorso, Yoshi-P ha assunto il controllo del progetto di Final Fantasy XVI che, al netto delle sue lunghe e numerose controversie, si è comunque dimostrato un titolo capace di raggranellare non poche attenzioni. Tra cui le mie, ovviamente.

E la cosa ha sorpreso persino me stesso, visto che già con il tredicesimo capitolo, chi vi scrive aveva ormai capito che le “cazzate a la Final Fantasy” non facevano più per me. La serie era ormai saldamente piantata nell'immaginario di una narrazione di stampo fortemente nipponico, figlia di esagerazioni assurde, motociclette che si trasformano in evocazioni (e viceversa) e personaggi che per ogni combo parevano poter saltare interi palazzi. Che non è un male in sé, intendiamoci, ma non era quel Final Fantasy “narrativo” di cui mi ero innamorato io che, dizionario alla mano, mi ero sciroppato, anni ed anni prima, lo stillicidio in 3 dischi che era stato Final Fantasy VII, che pur con tutti i suoi limiti (e ne aveva, eccome se ne aveva!), si prendeva la briga di raccontare una storia che poteva valer la pena ascoltare, e che infatti val la pena ascoltare anche oggi, seppur nelle vesti riscritte del suo remake.

Con il progetto “Fabula Nova Crystallis”, tuttavia, le cose avevano già preso una piega diversa e la cosa che mi fece soffrire fu che quel progetto succedeva, di fatto, a quello che era uno dei capitoli narrativamente più pregni di sempre, ovvero quel bistrattato FF XII che, grazie a Dio, recentemente è stato rivalutato per la sua forte componente narrativa, forse all'epoca non proprio adatta a chi, a ben pensarci, giusto qualche anno prima si era emozionato vedendo un tizio biondo giocare a palla a nuoto.

Ecco, manco a farlo apposta, oggi come oggi una delle cose più interessanti che Square-Enix abbia fatto negli ultimi anni, è proprio un capitolo “politico” e di rottura com'è, di fatto, Final Fantasy XVI, ed il fatto che ci sia questo legame flebile con quello sfigatissimo FF XII è stato, almeno inizialmente, il punto focale del mio interesse verso questo nuovo capitolo. Questo, e quella sua generale strafottenza, così rara nel panorama dello sviluppo giapponese e propria, onestamente, solo di gente davvero rocknrolla come Suda-51 e Tomonobu Itagaki: gente a cui è sempre fregato molto poco del parere altrui e che, non a caso, negli anni ha anche sviluppato della roba veramente imbarazzanti tipo “Dead or Alive Xtreme Beach Volleyball”.

Trovare quella strafottenza in Final Fantasy XVI, quel remare contro, lo ammetto, mi ha incuriosito subito, ed è stato poi giocandoci che mi sono reso conto che, oltre il suo sistema di combattimento, certamente un po' sciatto e facilone (Devil May Cry un corno!), c'era qualcosa di molto interessante, che si era perso in anni ed anni di uscite abbastanza indegne e che, a ben vedere, mi ha permesso di cominciare questo articolo parlando del Berserk di Kentaro Miura: in Final Fantasy XVI c'è una storia. Una storia fatta e rifinita, per certi versi violenta e straziante, e per questo del tutto in controtendenza a quello che c'era stato fino a quel momento, anche al netto di momenti scolpiti nella memoria come la morte di Aerith e le rivelazioni su Tidus, che tanto piacciono ad una certa fetta di aficionados del brand.

Ma la cosa più sorprendente è che in FF XVI c'è, per l'appunto, molto di Berserk, senza contare qualche leggera citazione ad Evangelion, di cui una spiattellata proprio in bella vista che davvero chiunque potrebbe cogliere. Ma vale questo il prezzo di un biglietto che molti, presi dalla foga di internet, non hanno ancora deciso di staccare? A mio giudizio sì, ed anzi direi che se amate Berserk, questo è probabilmente il miglior videogame su Berserk che possiate mai giocare, almeno "ideologicamente", ed anche al netto del titolo uscito qualche tempo fa su PlayStation 4 che, diciamocelo, impallidiva dinanzi alla bruttezza media di qualsiasi Dynasty Warrior.

La cosa sorprendente di Final Fantasy XVI è che funziona, di per sé, così bene dal punto di vista narrativo, ed è spesso così soddisfacente nei suoi intrecci sociali, da riuscire a far soprassedere su buona parte delle sue pecche. Che non è una sviolinata, capitemi, perché le pecche ci sono, e buona parte del gioco è un button mashing di rara noia, ma oltre a questo c'è anche di più, e la cosa davvero molto affascinante, è che finalmente qualcuno ha compreso che per rendere un videogame “maturo”, non basta semplicemente abbondare di parolacce e riferimenti alla prostituzione (sul serio: questo è il Final Fantasy con più prostitute pro-capite di sempre), ma serve attingere a tematiche forti e di impatto, che possono facilmente essere comprese da tutti, perché facenti parte degli stati più basilari e ferini della nostra coesistenza su questo pianeta, ovvero le cosiddette “emozioni di base”: gioia, tristezza, rabbia, paura, disgusto e sorpresa. Qui alchemicamente disposte di modo che il risultato finale, seppur non scintillante, sia quanto meno apprezzabile e comprensibile, possibilmente privo di troppi fronzoli e, soprattutto, di edulcorazioni troppo evidenti.

Vi chiedevate del perché Game of Thrones abbia fatto tanta presa sul pubblico? Ecco, per questo. Perché i suoi personaggi sono, nella complessità delle loro strutture sociali, profondamente semplici e comprensibili: sono fragili, sono umani, e soffrono dei patemi di cui soffriamo tutti. Questa, a conti fatti, è anche la ricetta a cui attinge, da sempre, un certo modo di raccontare il modern fantasy, che abbandona l'eroismo più puro e sfacciato per affacciarsi agli stati più cupi della natura umana, tra cui la paura, la rabbia e la sofferenza.

FF XVI funziona perché attinge a piene mani dal fantasy più cupo e violento, che a sua volta non è tuttavia quello che sceglie di essere dark per il gusto di esserlo, ma che lo fa per specifici motivi di trama e, se vogliamo, per una propria direzione di stampo politico, come Berserk. E dalla narrativa di Berserk, così chiara, se non proprio lapalissiana e sfacciata nel rappresentare gli stati più tetri della natura umana, Final Fantasy XVI attinge a piene mani per raccontare, come fece Miura per il suo Gatsu (o Guts, detta all'inglese), una storia che nasce come un racconto di vendetta, perpetrato nel corso di una vita intera. Che è una vita violenta, ed in quanto tale ha delle conseguenze, spesso irreversibili e disastrose.

Ma è comunque solo l'apparenza, perché al di sotto della corazza c'è di più, ed anche se FF XVI, per ovvi motivi, sceglie poi di “ammorbidire una certa fetta dei suoi spigoli”, laddove invece Berserk si spinge sempre verso l'esagerazione più sfrenata (Se lo avete letto, pensate ad esempio ai capitoli legati a Lucine), il racconto di questo Final Fantasy sceglie comunque di non risparmiarsi i patimenti, le sofferenze e, se vogliamo, le trasformazioni, che possono generarsi in generazioni di uomini, quando queste sono vittime di un singolo atto violento, che può essere un momento molto pratico, come la classica “pugnalata alle spalle”, che arriva d'improvviso nel mezzo di una vita, tutto sommato, serena, o che può corrispondere ad una più omogenea e diffusa cultura politica, come lo stabilire un sistema di caste e classi che separa, in estrema sintesi, chi è schiavo da chi non lo è.

Già solo in quest'ottica, FF XVI si configura come un'opera interessante e complessa, molto stratificata, seppur al netto di qualche vaga banalizzazione, e che si prende il lusso di fare un qualcosa che, francamente, chi vi scrive non vedeva da molti e molti anni in un videogame, ovvero “prendersi del tempo”. In questo senso, l'avventura dello sfortunato Clive Rosfield, a differenza di titoli che pure fanno del tempo un loro punto di forza, come ad esempio il sempreverde esempio di The Witcher 3, va letta in modo completamente diverso. Se, ad esempio, il concetto di tempo in un titolo immenso come The Witcher è dettato dalla mera operosità del giocatore, che potrebbe decidere di fare 1000 e più cose diverse prima di decidersi ad affrontare Eredin e la sua Caccia Selvaggia, in Final Fantasy XVI è il gioco a stabilire il ritmo e lo scorrere dell'azione, intramezzando momenti di lunga azione ad altri decisamente lenti, che risultano quasi come uno stop forzato per il giocatore che, in quei frangenti, ha a disposizione solo poche e sparute attività secondarie, tutte atte solo a farmare un po' di equipaggiamento e qualche punti esperienza. Poi, di nuovo, il gioco ci impone di andare avanti senza ulteriore cazzeggio, obbligandoci a sottostare al suo ritmo, che ci piaccia o meno.

Si tratta, a pensarci, di una scelta narrativa molto forte per un gioco di ruolo, in cui, secondo la prassi odierna, dovrebbe esserci spazio per il cazzeggio puro, sempre e comunque. Ci dovrebbe essere esplorazione forzata, backtracking e qualsiasi altra cosa atta ad allungare il più possibile il brodo. Ma il brodo di Final Fantasy XVI, per quanto spesso non si capisca se sia buono o meno, è già lungo di suo, ed anzi è forse lungo quasi il giusto, a patto che ne si capisca e ne si apprezzi il senso, diversamente potrebbe sembrare comunque diluito, se non stucchevole ma, di nuovo, è una scelta di forma che ha un suo specifico valore e che, proprio come Berserk, sceglie di fare talvolta dei giri un po' lunghi per accompagnarci nella sua lore, che è tutto fuorché ermetica, ed anzi è quanto mai complessa e variegata, “logorroica” nella sua schiera di informazioni offerte, sia dette che non dette, e per questo è, ancora una volta, del tutto agli antipodi col passato della serie. E questo, onestamente, è un bene.

Certo, si vede la mano pesante di chi ha passato buona parte delle sue serate a sbavare sulle macchinazioni di un Game of Thrones a caso, ma se poi si guarda con attenzione ai personaggi, e non solo ai giochi politici (che per altro sono una vera e propria novità per questa saga, almeno nella rifinitissima formulazione di questo capitolo), ci si rende conto, ancora una volta, che è la mano di Miura, e non quella di Martin, ad aver guidato buona parte della scrittura.

Clive, ad esempio, per quanto ricordi in certi frangenti uno Jon Snow a caso, è più che altro fortemente ispirato a Gatsu. Il suo è un cammino di vendetta, per altro anche macchiato di crimini verso cui è stato obbligato nelle sue vesti di soldato (ma più che altro un vero e proprio mercenario). Anche la sua trasformazione, attivata dalla rabbia e dal bisogno di cercare in sé stesso una forza per mettere a fuoco il mondo, ha in sé le medesime radici del racconto di Miura e non è un caso che proprio in Clive, a conti fatti, alberghi un mostro la cui furia può facilmente soggiogare qualsiasi nemico.

Quello che però sorprende di Final Fantasy XVI, e che forse lo rende così prepotentemente connesso a Berserk è tuttavia quello che non si può leggere apertamente, ma che si può riscontrare solo giocando per ore e ore: le due opere, infatti, sono entrambe a loro modo un immenso affresco della miseria umana, che a suo modo permea ambo le opere in ogni aspetto della loro narrazione. Sia Gatsu che Clive, infatti, soffrono di un passato estremamente difficile e traumatico, segnato da abbandono, violenza e solitudine. Esperienze che ne hanno modellato le personalità, rendendoli individui provati e, almeno inizialmente, incapaci di fidarsi ancora degli altri.

Allo stesso modo, il mondo di FF XVI e quello del manga, rappresentano la miseria umana attraverso ineluttabili cicli di violenza, con personaggi che sono costantemente coinvolti in guerre, conflitti e vendette, alimentando una spirale di distruzione e sofferenza, in quello che è un perpetuarsi eterno di violenza e brutalità, che non si manifesta solo attraverso la presenza di mostri e bestie, ma anche attraverso l'operato di uomini empi che, in ambo i racconti, sono spesso rappresentati dai “potenti”. Potenti per lignaggio, come i nobili, che spesso in ambo i racconti sono narcisisti, egoisti e corrotti; ma anche potenti per mero opportunismo, come briganti, banditi o semplice plebaglia, che si diverte a soggiogare il ramo più debole della popolazione, ridotto per legge in schiavitù.

In questo senso, a differenza del passato, in cui spesso i personaggi di Final Fantasy erano chiaramente distinti tra buoni e cattivi, per quanto non ci sia spazio a dubbi su chi qui sia l'eroe e chi sia il malvagio, l'intero prospetto di personaggi di FF XVI resta comunque volutamente ambiguo, con certi personaggi che sembrano animati più da sfumature di eroismo o malignità, che da veri e propri posizionamenti morali, al punto che lo stesso protagonista, di fatto, si macchierà di diversi crimini, tanto da finire per trasformarsi in un fuorilegge.

In sintesi, Final Fantasy XVI si rivela un'esperienza videoludica straordinariamente oscura, avvincente e coinvolgente. Attingendo chiaramente dall'influenza di Kentaro Miura e del suo capolavoro, Berserk, il gioco offre una narrazione matura e profonda, caratterizzata da una rappresentazione cruda della miseria umana e delle sue conseguenze. Clive Rosfield, il protagonista tormentato, si rivela un'incarnazione moderna (e certamente più edulcorata) di Gatsu, ma il punto è che Final Fantasy XVI riesce nell'impresa – non semplice – di andare oltre la semplice emulazione, affrontando tematiche complesse come la violenza, la corruzione e la sofferenza, creando un mondo oscuro e affascinante.

Sono punti che, a mio giudizio, richiederebbero da parte dei più titubanti, almeno una giocata lunga, corrispondente più o meno alla metà dell'avventura che, stando al mio timer, significa almeno una ventina di ore di gioco, se non di più. Certo, nel mezzo c'è un mucchio di button mashing, ma se sono qui a propagandare l'acquisto di un gioco che, detta in soldoni, non mi mette in tasca un euro, non è solo pre promuovere l'amore per un certo tipo di narrativa, di cui oggi come oggi mi sono sentito orfano, ma anche e soprattutto per cercare di ribadire che al netto delle apparenze, o di tutte le discussioni social fatte di critiche, insulti e, purtroppo, spesso anche di minacce vacue (a proposito di "miseria umana") , a volte dovremmo sforzarci di cercare di supportare le cose belle, “strane” e, se vogliamo, differenti e coraggiose, tanto per il bene di una varietà creativa e culturale, tanto perché a volte c'è semplicemente bisogno di mettere il passato da parte e di fare strada al futuro.

Diversamente, vivremo tutti schiavi. Schiavi del piattume.