-
Pro
- Sistema di combattimento fluido e gratificante
- Direzione artistica e design dei personaggi eccezionali
- Meccanica del sacrificio originale e toccante
- Ampia varietà di combinazioni e build
-
Contro
- Interfaccia e menu confusi
- Dialoghi troppo lunghi e spesso inutili
- Co-op limitata e poco coinvolgente
- Difficoltà sbilanciata in alcune sezioni
Il verdetto di Tom's Hardware
Informazioni sul prodotto
Negli ultimi anni, il genere dei roguelite isometrici ha conosciuto una saturazione tale da rischiare la stasi creativa. Da Hades in poi, è come se il mercato avesse trovato la formula magica per conquistare critica e pubblico, ma l’avesse poi replicata fino allo sfinimento.
Struttura a stanze, scelte multiple, potenziamenti graduali, narrativa spezzata tra una run e l’altra… insomma, sappiamo tutti cosa aspettarci. È per questo che Towa and the Guardians of the Sacred Tree tenta di rompere lo schema, cercando di introdurre nuove dinamiche e un’identità propria in un panorama sempre più affollato.
Il risultato è un’esperienza tanto affascinante quanto contraddittoria: brillante nelle intenzioni, a tratti frustrante nella realizzazione.
Un inizio lento per una storia intrigante
La storia di Towa and the Guardians of the Sacred Tree si apre con una sequenza introduttiva interminabile, narrativamente densa ma priva di ritmo. Scopriamo che Towa, una sacerdotessa di Shinju, è stata scelta per affrontare Magatsu, un’entità demoniaca che minaccia di corrompere il mondo. A supportarla ci sono otto Guardiani, i cosiddetti Prayer Children, figure spirituali legate a lei da un vincolo sacro. È proprio qui che si trova la prima vera innovazione del gioco: invece di impersonare un unico eroe, il giocatore controlla una coppia legata da una sorta di “guinzaglio magico”, con il personaggio principale in prima linea e il compagno di supporto pronto a fornire magie difensive e offensive.
L’idea funziona sorprendentemente bene sul piano tattico. La possibilità di combinare liberamente i membri del team apre a un’infinità di combinazioni e stili di gioco, ciascuno con punti di forza e debolezze uniche. E non manca una sana dose di follia nella caratterizzazione: tra un possente pesce Koi antropomorfo e un enorme gatto guerriero-cuoco chiamato Bampuku, Towa si concede momenti di puro estro nipponico, in bilico tra l’assurdo e il poetico.
Tattica, caos e sperimentazione
Ogni run diventa una tela su cui sperimentare. La varietà di armi, incantesimi e combinazioni tra i personaggi porta a un livello di personalizzazione quasi eccessivo. Il rovescio della medaglia è che la complessità rischia di travolgere il giocatore. Le schermate dei menu, poco leggibili e mal organizzate, rendono difficile anche solo capire come potenziare una singola abilità. In più, l’interfaccia tende a sommergere l’utente di statistiche e sottosistemi che spesso non hanno un impatto percepibile sull’azione.
È un peccato, perché quando il sistema funziona, e capita più spesso di quanto non si pensi, la sensazione di scoperta e crescita è appagante. Trovare quella combinazione di abilità che permette finalmente di sconfiggere un boss finora imbattibile restituisce quella scarica di soddisfazione tipica dei migliori roguelite. Tuttavia, questa gioia è continuamente bilanciata da una sensazione di spaesamento, come se il gioco chiedesse troppo in termini di gestione e concentrazione.
Troppa roba, poca sostanza
Il problema più evidente di Towa è la sua tendenza all’eccesso. Tutto sembra voler strafare: dialoghi lunghissimi, sistemi di crafting complessi, sotto-menu infiniti, minigiochi opzionali che aggiungono più confusione che profondità.
Un esempio emblematico è la forgia delle spade, che offre una personalizzazione meticolosa del design e delle statistiche dell’arma... peccato che, data la visuale isometrica, l’aspetto del risultato finale sia pressoché invisibile in combattimento. Per fortuna, è possibile delegare il processo al fabbro locale, risparmiandosi una serie di QTE e guadagnando tempo per tornare a combattere.
Sul fronte narrativo, le cose non migliorano di molto: i dialoghi, seppur completamente doppiati, spesso si dilungano senza dire nulla di rilevante. I personaggi parlano tanto, ma comunicano poco. È un peccato, perché il worldbuilding affascina, c’è una mitologia interessante dietro il Sacro Albero e la corruzione di Magatsu, ma viene sepolta sotto montagne di testo che rallentano l’esperienza.