Satelliti al lazo del Politecnico di Milano

Si è conclusa la prima parte di sperimentazione per la tecnologia Satleash del Politecnico di Milano, un'idea che potrebbe aiutare a ripulire l'orbita terrestre dai detriti spaziali. Il primo obiettivo sarà un satellite ESA fuori controllo.

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a cura di Elena Re Garbagnati

Si sono conclusi i test su un volo parabolico del progetto Satleash del Politecnico di Milano. Parliamo di una soluzione all'avanguardia per ripulire l'orbita terrestre dai detriti spaziali più voluminosi e pericolosi. Come ci ha spiegato uno degli studenti coinvolti in prima linea nel progetto, Paolo Lunghi, l'idea di partenza è prendere "al lazo" i detriti spaziali e trascinarli al contatto con l'atmosfera terrestre, dove si disintegreranno.

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Crediti: NASA/Reid Wiseman.

Il progetto è iniziato diversi mesi fa e nei giorni scorsi si è tenuto il test più importante, quello a bordo di un volo parabolico organizzato dall'Agenzia Spaziale Europea, per condurre gli esperimenti in assenza di gravità.

Prima di questa fase avevamo avuto modo di intervistare Paolo Lunghi, che ci aveva spiegato più in dettaglio in cosa consiste questo progetto.

Come vi siete candidati, da dov'è partita l'idea e come siete poi riusciti a partecipare attivamente?

paolo lunghi"Noi studiavamo il problema dei detriti spaziali da quando io e Riccardo (Riccardo Benvenuto, il leader del gruppo, N.d.R.) abbiamo iniziato il dottorato. C'era già stato con il nostro dipartimento un contratto con l'Agenzia Spaziale relativo allo sviluppo di un tool di programmazione per simulare la dinamica di elementi quali reti e theter nello Spazio, che è un aspetto che nessuno aveva mai studiato.

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In quell'ambito c'era già stato un primo volo parabolico, sponsorizzato da un'azienda spagnola, in cui c'erano già i due componenti principali (appunto il tether e la rete) e il simulatore aveva validato la rete. Noi dottorandi che avevamo portato avanti la ricerca volevamo proseguire lo studio anche dopo la scadenza del contratto. L'occasione è arrivata lo scorso anno, quando l'Agenzia Spaziale ha riaperto il programma Fly Your Thesis! e ci siamo candidati".

Ormai è noto che i detriti spaziali sono un problema, e in Italia ci sono alcune realtà che si occupano di questo problema, come per esempio D-Orbit. In che cosa differisce il vostro progetto?

paolo lunghi"Conosciamo bene D-Orbit, una persona che lavora con loro è anche nostro collega. Le soluzioni al problema dei detriti si dividono in due macro aree: una è quella della prevenzione, che fino a relativamente pochi anni fa non esisteva. Da alcuni anni l'Europa in particolare si è data delle linee guida sul trattamento dei satelliti a fine vita, che consistono in pre requisiti, o di una dotazione per il de-orbitaggio nel caso di satelliti in orbita bassa, oppure per lo spostamento in un'orbita 'cimitero' nel caso di quelli in orbita alta come i geostazionari. La prevenzione si fa in fase di progetto ed è qui che lavora D-Orbit. 

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Crediti: Politethers

L'altra area è quella del recupero - o meglio la distruzione dei detriti che sono già presenti - in cui invece s'inserisce il nostro progetto. In quest'ambito le tecnologie proposte sono state diverse, e ce n'erano alcune più o meno caldeggiate dai diversi Paesi europei (altrove il problema viene trattato in maniera completamente diversa).

Innanzi tutto l'Europa ha scelto un obiettivo: si propone di recuperare EnvySat, un satellite delle dimensioni di un autobus, più un pannello solare che da solo è lungo 15 metri, che è stato uno dei grandi successi dell'Agenzia Spaziale perché è stato il primo satellite che ha fornito una gran quantità di dati metereologici. Nel 2012 sono stati persi i contatti e adesso è ancora in orbita senza possibilità di controllo.

Per questo progetto l'ESA ha emesso un bando di concorso a cui abbiamo partecipato. Delle proposte pervenute ne sono rimaste due, di cui una è la nostra. Si tratta di due tecniche differenti: da una parte il recupero per mezzo di una rete (il nostro), l'altro mediante braccio meccanico. Nel primo caso è previsto l'impiego di un satellite chaser che raggiunge l'obiettivo (EnviSat in questo caso), lancia una rete che si avvolge attorno al 'target', accende i motori e tramite un guinzaglio frena il target ed entrambi rientrano in atmosfera.

Questa è la tecnologia più promettente, perché l'alternativa è un braccio meccanico collegato al satellite chaser, che si deve avvicinare abbastanza all'obiettivo da 'catturare' e sincronizzarsi con il suo movimento. Un'operazione molto difficile perché EnviSat, come qualsiasi detrito spaziale, ha iniziato con il tempo a ruotare su sé stesso.

A questo punto deve agganciare il satellite alla deriva con il braccio meccanico e poi frenarlo. Il problema - oltre al movimento in sincrono - è che se un satellite non è già stato predisposto, possono mancare superfici 'comode' di aggancio. A questo si aggiunga che il materiale in orbita con gli anni degrada, quindi le sue prestazioni meccaniche sono incerte e non è possibile escludere a priori che il braccio meccanico possa rompere il pezzo a cui si aggancia nel momento stesso in cui lo fa, o durante la frenata.

Per questi motivi la tecnologia della rete per molti versi è più semplice, perché la rete stessa che inviluppa il target ha un effetto 'smorzante' sulle rotazioni del detrito sia in fase di avvolgimento sia di traino, perché tirando il guinzaglio si ottiene una sorta di pendolo che tende a stabilizzarsi".

Quali sono le incognite?

paolo lunghi"L'incognita è che sistemi di questo tipo non sono mai stati usati. Ci sono state delle missioni che prevedevano l'impiego di guinzagli, ma in configurazione molto diversa, in cui il guinzaglio veniva rilasciato già teso: veniva srotolato poco alla volta, già agganciato all'obiettivo. Inoltre il guinzaglio era teso in direzione radiale dalla Terra verso lo Spazio, che è una situazione stabile per quanto riguarda la gravità.

Nella missione di recupero di EnviSat il guinzaglio lavora in maniera orizzontale (nello stesso verso del moto del satellite in orbita), c'è la rete da gestire che verrebbe stesa con questi 'ballet' installati ai 4 angoli della rete, che contengono un meccanismo che serve per ritirare il bordo della rete e chiuderla a sacco attorno al bersaglio.

Inoltre ci sono alcune difficoltà nell'automatizzare il momento giusto di chiusura della rete".

Quale è la vostra parte in questo progetto?

paolo lunghi"La dinamica di questi oggetti è ancora relativamente poco studiata e in realtà uno dei posti in cui questi studi sono più all'avanguardia è il nostro dipartimento del Politecnico di Milano. Avendo già studiato la parte di rete, si faranno gli esperimenti in micro gravità necessari per testare i tether, ossia gli attacchi di traino per applicazioni spaziali da impiegare nel progetto".

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Crediti: Politethers

Ed è proprio questo il test che è stato condotto con successo, perché nel corso dei voli parabolici che sono stati eseguiti i ricercatori hanno verificato l'efficacia del sistema di controllo finalizzato a mantenere il cavo di collegamento in tensione per evitare gli indesiderati fenomeni di "ritorno elastico".