Nel panorama industriale contemporaneo, poche opere infrastrutturali generano un impatto territoriale e mediatico paragonabile alla costruzione di nuovi data center. Si tratta di un fenomeno globale che, dopo aver saturato gli hub tradizionali del Nord Europa e del Nord America, sta spostando il suo baricentro verso latitudini storicamente meno battute dalle grandi server farm, come la Spagna e l'Italia.
Questa migrazione verso il Sud Europa risponde a esigenze tecniche precise, come la riduzione della latenza per le imprese locali e la necessità di sovranità sui dati, ma porta queste cattedrali del calcolo a confrontarsi con territori caratterizzati da estati torride e reti energetiche complesse. L'arrivo delle infrastrutture digitali non è più un evento silenzioso, ma un fattore di trasformazione che porta con sé interrogativi legittimi sulla sostenibilità delle risorse e sulla tenuta degli equilibri sociali locali.
È in questo contesto di espansione e scetticismo che si inserisce la strategia di Amazon, il più grande fornitore di servizi cloud al mondo, che sta investendo capitali ingenti per radicare la propria presenza fisica nella penisola iberica e in quella italiana.
L'approccio dell'azienda di Seattle diventa quindi un caso studio inevitabile: da un lato promette di abilitare la digitalizzazione di intere economie nazionali, dall'altro si trova a dover gestire — e mitigare — le preoccupazioni di comunità che temono di vedere le proprie risorse idriche ed elettriche drenate da macchine sempre più potenti. Non si tratta solo di costruire edifici, ma di dimostrare, dati alla mano, se l'efficienza tecnologica promessa sia sufficiente a compensare l'enorme fame di risorse richiesta dall'era dell'intelligenza artificiale.
Analizzare queste dinamiche richiede di abbandonare le posizioni ideologiche per entrare nel merito ingegneristico ed economico. Il dibattito pubblico tende spesso a semplificare, vedendo nei data center solo dei giganteschi consumatori di energia o delle promesse occupazionali sovrastimate.
La realtà operativa, tuttavia, è fatta di metriche precise, di tecnologie di raffreddamento che evolvono per non competere con l'agricoltura e di modelli energetici che devono fare i conti con i costi del kilowattora italiani, tra i più alti d'Europa. Capire come Amazon sta affrontando questi nodi cruciali — lavoro, energia e acqua — significa capire se il futuro digitale del Sud Europa sarà sostenibile o predatorio.
Il lavoro oltre il cantiere: numeri e prospettive reali
Quando colossi come Amazon annunciano investimenti infrastrutturali, le cifre relative all'occupazione dominano inevitabilmente i titoli dei giornali. Prendendo ad esempio i recenti piani di espansione, che prevedono 15,7 miliardi di euro in Spagna e investimenti continuativi in Italia per la Region di Milano, le stime parlano di migliaia di posti di lavoro supportati annualmente. Tuttavia, per valutare correttamente l'impatto sociale di questi progetti, è necessario decostruire questi numeri e distinguere nettamente tra l'occupazione temporanea legata alla fase di costruzione e quella permanente relativa all'operatività delle strutture.
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La creazione di questi posti di lavoro ha un notevole indotto qualificato.
La gran parte della forza lavoro mobilitata nelle fasi iniziali riguarda naturalmente il personale del settore edilizio. Come tutti i cantieri, il lavoro generato in questa fase dura fino alla fine dei lavori. Parliamo di cantieri molto grandi, in ogni caso, che impiegano diverse decine di persone e generano un’economia secondaria non indifferente.
Una volta terminata questa fase, la gestione dell’attività del data center richiede grossomodo 150-200 persone, per i data center di grandi dimensioni di cui stiamo parlando; un dettaglio su cui anche Amazon ha speso qualche parola sul blog ufficiale. Naturalmente la creazione di questi 200 posti di lavoro specializzati ha poi un impatto perché ha un suo indotto; qui non si tratta solo di bar e ristoranti per chi lavora nel data center, ma anche di un notevole un indotto qualificato a lungo termine - cioè quelle persone che partecipano al funzionamento del data center senza andarci tutti i giorni, come i tecnici della manutenzione, che devono essere altamente qualificati.
In altre parole, non è solo il personale che lavora nel data center, quanto piuttosto le attività che possono sorgere e prosperare proprio perché il data center è presente. Non sono molte, a dire il vero, le attività per cui fa differenza avere un data center a mezzo chilometro oppure a 500 chilometri; quelle per cui è importante, tuttavia, sono generalmente anche attività ad alta marginalità, capaci di creare numerosi impieghi di alto livello.
Il vero valore aggiunto per il sistema Paese risiede quindi nell'effetto abilitante che la presenza di Amazon Web Services (AWS) genera sul tessuto imprenditoriale locale. In Italia, dove il costo del lavoro qualificato è alto e la produttività ristagna, l'accesso a servizi cloud avanzati permette alle PMI di competere su scala globale senza dover sostenere i costi proibitivi di gestione di server propri. Inoltre, l'impatto sul PIL — stimato in decine di miliardi di euro su base decennale per le economie ospitanti — deriva proprio dalla modernizzazione delle filiere: dalla logistica alla sicurezza, fino alla manutenzione predittiva degli impianti.
Un aspetto critico, spesso sottovalutato, riguarda la formazione. L'arrivo di queste tecnologie crea un vuoto di competenze che il mercato locale fatica a colmare. Amazon ha attivato programmi di formazione per certificare migliaia di persone sulle competenze cloud, un investimento che mira a creare la forza lavoro necessaria non solo per i propri data center, ma per l'intero ecosistema di partner e clienti. Questa iniezione di know-how rappresenta l'asset più duraturo, trasformando un investimento immobiliare in un potenziamento strutturale del capitale umano nazionale.
L'energia in Italia: costi, importazioni e la risposta dell'efficienza
Affrontare il tema energetico in Italia significa confrontarsi con una realtà strutturale complessa: il Paese non dispone di centrali nucleari, ha costi dell'elettricità superiori alla media europea e dipende in modo significativo dalle importazioni per soddisfare il proprio fabbisogno di base. In questo scenario, l'efficienza non è una mera voce di bilancio "green", ma una necessità operativa assoluta. I timori che i nuovi data center possano aggravare il carico sulla rete nazionale sono comprensibili, ma i dati tecnici suggeriscono che la migrazione verso il cloud di Amazon potrebbe, paradossalmente, ridurre l'intensità energetica complessiva del sistema informatico italiano.
Il confronto chiave è quello del PUE (Power Usage Effectiveness), l'indice che misura quanto efficacemente viene utilizzata l'elettricità. I data center aziendali on-premise, ancora diffusi in molte aziende italiane, operano spesso con un PUE medio di 1.63 o superiore: questo significa che per ogni kilowattora usato dai server, ne vengono sprecati più di 0,6 in raffreddamento e conversioni inefficienti. Le infrastrutture di Amazon, grazie a economie di scala e design avanzati, dichiarano un PUE medio globale di 1.15. Spostare i carichi di lavoro da sale server obsolete ai cloud provider comporta quindi un taglio immediato degli sprechi termodinamici. Per approfondire l'impatto economico e ambientale di queste tecnologie, rimandiamo all'analisi su come raffreddare i data center sia diventato un business milionario.
Per mitigare l'aumento della domanda assoluta, spinta oggi anche dai carichi di lavoro dell'intelligenza artificiale, Amazon ha accelerato drasticamente sulla transizione verso le rinnovabili, raggiungendo l'obiettivo del 100% di energia pulita per i consumi globali già nel 2023. In Italia e Spagna, questo impegno si traduce nella firma di contratti di acquisto a lungo termine (PPA) che finanziano la costruzione di nuovi parchi solari ed eolici senza pesare sugli incentivi statali. Il cloud provider diventa così un anchor tenant che rende bancabili progetti energetici che altrimenti faticherebbero a decollare, contribuendo a decarbonizzare il mix energetico nazionale.
Inoltre, la risposta di Amazon alla fame di energia non si limita alle fonti, ma scende fino al livello del silicio. Lo sviluppo dei processori proprietari Graviton, basati su architettura ARM, mira a disaccoppiare le prestazioni dai consumi: questi chip offrono un'efficienza per watt superiore fino al 60% rispetto alle architetture x86 tradizionali. Progettare l'hardware internamente permette ad Amazon di eliminare ogni funzione superflua, garantendo che ogni elettrone prelevato dalla rete italiana venga convertito in calcolo utile e non in calore da dissipare.
Risorse idriche: tecnologie per non prosciugare il territorio
Se l'energia è una questione di costi e infrastrutture, l'acqua rappresenta, specialmente nel Sud Europa, una criticità ambientale e sociale di primo piano. La decisione di Amazon di espandersi in regioni come l'Aragona o la Lombardia non è casuale, ma evidenzia un parallelismo critico: sebbene geograficamente distanti e climaticamente diverse, entrambe le aree si trovano oggi a gestire una vulnerabilità idrica acuta. Sia nella valle dell'Ebro che nella Pianura Padana, l'agricoltura intensiva rappresenta l'attore dominante e idrovoro, e i recenti periodi di siccità estrema hanno reso ogni goccia d'acqua una risorsa contesa. In questo scenario di stress idrico condiviso, l'arrivo di data center industriali rischia di esacerbare conflitti d'uso preesistenti, trasformando la gestione del raffreddamento da questione tecnica a problema di tenuta sociale.
La strategia di Amazon per affrontare questo nodo si basa sull'ottimizzazione estrema dell'uso dell'acqua (WUE - Water Usage Effectiveness). L'azienda dichiara un valore di 0.15 litri per kilowattora, una metrica che posiziona le sue strutture tra le più efficienti del settore, ben al di sotto della media industriale che spesso supera il litro. Per ottenere questi risultati in climi caldi, Amazon sta progressivamente abbandonando i sistemi di raffreddamento evaporativo continuo a favore di soluzioni ibride o "dry", che utilizzano l'acqua solo durante i picchi termici estivi, affidandosi all'aria esterna per la maggior parte dell'anno. A tal proposito, vale la pena ricordare che esistono anche i sistemi di raffreddamento a liquido basati su circuito chiuso: praticamente non consumano acqua se non durante il riempimento; ma sono molto più cari e alzano i costi per realizzare il data center stesso.
Ancora più rilevante è l'impegno verso l'utilizzo di acque non potabili. In diverse region, Amazon ha iniziato a implementare sistemi che sfruttano acque reflue urbane trattate per i circuiti di raffreddamento industriale, sganciando così completamente il fabbisogno dei data center dalle riserve destinate all'uso civile e agricolo. Questa separazione dei flussi è la chiave per garantire la coesistenza pacifica tra infrastrutture tecnologiche e territorio, trasformando un potenziale conflitto per le risorse in un modello di gestione circolare.
L'ambizione dichiarata da Amazon è quella di diventare "Water Positive" entro il 2030, ovvero di restituire all'ambiente più acqua di quella consumata dalle proprie operazioni dirette. Questo obiettivo viene perseguito attraverso investimenti in progetti locali di ripristino idrografico, come la riduzione delle perdite nelle reti idriche municipali o la modernizzazione dei canali di irrigazione agricola. In questo modo, l'efficienza tecnologica del cloud provider finisce per generare benefici tangibili per gli agricoltori e le comunità locali, dimostrando che la presenza di un data center può, se ben gestita, contribuire alla resilienza idrica del territorio anziché minacciarla.
Governare questa transizione richiede vigilanza, ma i dati indicano che la strada tracciata dall'innovazione tecnologica offre strumenti concreti per conciliare progresso digitale e tutela ambientale.