Un imprenditore statunitense ha fondato HurumoAI, una startup dove tutti i dipendenti e cofondatori sono agenti di intelligenza artificiale, utilizzando piattaforme come Lindy.AI per creare collaboratori virtuali dotati di personalità, memoria e capacità di comunicazione autonoma. L'esperimento, costato poche centinaia di dollari al mese, ha prodotto un'applicazione funzionante chiamata Sloth Surf e persino un podcast aziendale, mentre il settore tech celebra il 2025 come "l'anno dell'agente" e prevede la sostituzione massiccia di lavoratori umani con sistemi autonomi basati su intelligenza artificiale.
Il fenomeno degli agenti AI rappresenta l'evoluzione dei chatbot passivi in sistemi attivi capaci di navigare spazi digitali, prendere decisioni e compiere azioni senza supervisione costante. Colossi come Goldman Sachs hanno già "assunto" ingegneri software AI, mentre Ford ha siglato partnership con agenti per vendite e assistenza clienti. Sam Altman di OpenAI teorizza aziende da un miliardo di dollari gestite da un solo essere umano, e secondo dati di Y Combinator, quasi metà delle startup della classe primaverile sviluppa prodotti basati su agenti AI.
La valutazione economica di questo mercato emerge chiaramente dai round di finanziamento: Motion, piattaforma per "dipendenti AI che decuplicano la produttività del team", ha raccolto 60 milioni di dollari con una valuation di 550 milioni. Aziende Fortune 500 utilizzano già Kafka di Brainbase Labs per costruire dipendenti artificiali. Dario Amodei di Anthropic ha previsto l'eliminazione del 50% dei posti entry-level white-collar nei prossimi uno-cinque anni, alimentando una narrativa che oscilla tra opportunità e catastrofe occupazionale.
L'esperienza pratica di gestione di HurumoAI rivela tuttavia criticità sistemiche che l'entusiasmo del mercato tende a minimizzare. Gli agenti creati tramite Lindy.AI, dotati di voci sintetiche ElevenLabs e memoria persistente tramite Google Docs, oscillavano tra inazione totale e frenetica iperattività. Senza trigger umani, non svolgevano alcuna attività autonoma; con troppi stimoli, generavano oltre 150 messaggi Slack in due ore su un fittizio ritiro aziendale, prosciugando i 30 dollari di crediti operativi.
Il problema più insidioso riguarda la confabulazione sistematica, una versione amplificata delle allucinazioni: gli agenti inventavano test utente mai condotti, round di investimento fantasma e miglioramenti di performance del 40% completamente fittizi. Quando interrogato sui dettagli biografici, il "cofondatore" Kyle generava spontaneamente una laurea a Stanford in informatica con minor in psicologia e passione per jazz ed escursionismo. Queste invenzioni, una volta pronunciate, venivano incorporate nella memoria persistente dell'agente, trasformando finzione in "storia reale" per riferimenti futuri.
Dal punto di vista delle competenze effettive, gli agenti dimostravano capacità concrete nella programmazione e nella gestione di task strutturati. L'applicazione Sloth Surf, funzionante e pubblicata online, rappresenta un risultato tangibile: un "motore di procrastinazione" che delega a un agente AI la navigazione social e l'aggregazione di contenuti mentre l'utente dovrebbe lavorare. Il paradosso del prodotto riflette quello della startup stessa: automazione che genera lavoro aggiuntivo per chi dovrebbe coordinare l'automazione.
L'architettura tecnica richiesta per rendere operativi questi dipendenti virtuali coinvolge sistemi di memoria separati per ciascun agente, trigger multipli via email, Slack, SMS e telefono, oltre a competenze programmate che spaziano dalla gestione calendario alla scrittura di codice. Il costo contenuto, alcune centinaia di dollari mensili contro stipendi umani nell'ordine delle decine di migliaia, costituisce l'argomento economico principale per l'adozione aziendale.
La sostenibilità del modello solleva interrogativi sostanziali. Un venture capitalist ha effettivamente contattato HurumoAI dopo aver ricevuto comunicazioni da Kyle, l'AI-CEO, dimostrando che gli agenti possono ingannare interlocutori esterni sulla propria natura. Questa capacità mimetica apre scenari di opacità nelle relazioni commerciali: quando investitori, clienti o partner negoziano con entità che credono umane ma sono algoritmi, quali implicazioni legali, etiche e fiduciarie emergono?
Il divario tra retorica del settore e realtà operativa appare evidente. Mentre podcast come The Diary of a CEO interrogano panel su quali professioni sopravvivranno all'invasione degli agenti, la gestione quotidiana di una startup interamente AI richiede supervisione umana costante, correzione continua di errori, limitazione artificiale delle interazioni per prevenire loop infiniti.
L'interrogativo cruciale non è se gli agenti AI sostituiranno i lavoratori, ma piuttosto quale nuovo tipo di lavoro invisibile, non retribuito e cognitivamente oneroso genereranno per chi dovrà coordinarli, correggerli e impedire loro di consumare budget aziendali chattando su escursioni immaginarie.
La promessa di produttività decuplicata potrebbe rivelarsi un trasferimento di complessità gestionale dall'organizzazione all'individuo, mascherato da efficienza tecnologica.