Recenti rilevazioni condotte tra Stati Uniti e Giappone evidenziano come molti lavoratori temono di essere sostituiti, e la paura riguarda almeno tre ruoli su dieci nei prossimi dieci anni. Il dato più interessante, tuttavia, emerge analizzando la correlazione tra utilizzo e paura: negli Stati Uniti, dove l’adozione è più massiccia (69%), il timore è paradossalmente più alto rispetto ai non utilizzatori. In Giappone, dove l'uso si ferma al 31%, questa forbice emotiva non esiste.
È evidente che la familiarità con lo strumento, se non accompagnata da una visione strategica, non rassicura, ma amplifica la percezione della potenza di calcolo come minaccia diretta, creando spesso un paradosso di utilizzo fittizio in azienda pur di compiacere il management.
Questo scenario delinea un quadro psicologico complesso per i manager e gli HR director. La tecnologia non è neutrale: la sua adozione modifica le aspettative e, senza una guida, alimenta l'ansia da prestazione. Il divario si riflette anche nel mercato del lavoro: negli USA, gli annunci che richiedono competenze GenAI sono quasi il doppio rispetto al mercato nipponico (0,26% contro 0,16%). Siamo di fronte a una trasformazione che non riguarda solo il software, ma l'identità stessa del lavoratore moderno.
Dalla paura alla competenza: il ruolo della formazione
La risposta a questa crisi di fiducia non può essere il luddismo digitale, ma una ristrutturazione profonda dei ruoli ibridi e delle competenze. Come sottolineano Giacinto Fiore e Pasquale Viscanti di "Intelligenza Artificiale Spiegata Semplice", il vero nemico non è l'algoritmo, ma l'analfabetismo tecnologico. C'è un abisso tra l'usare ChatGPT per scrivere una mail goliardica e integrare Gemini Enterprise o Claude in un flusso di lavoro aziendale per ottimizzare la produttività.
I numeri confermano che il mercato sta recependo questo messaggio. La recente Generative AI WEEK 2025 ha registrato oltre 14.500 iscritti, manager e professionisti alla ricerca di formazione specifica su come sfruttare l’AI sul lavoro. Questa e altre occasioni di formazione sono sempre più piene perché c’è fame di contenuti tecnici e normativi, specialmente alla luce della recente legge italiana sull’IA. Le aziende stanno cercando di colmare il gap tra l'adozione consumer e l'implementazione business, trasformando la "magia" dell'IA in processi misurabili.
Uno sguardo al 2026: l'ecosistema italiano si organizza
Il successo della formazione online è il preludio a un consolidamento fisico della community. Le previsioni per la AI WEEK 2026 a Milano parlano di 25mila presenze, con un parterre che include figure chiave come Luca Ferrari di Bending Spoons, fresco della massiccia acquisizione di Vimeo, Michele Catasta di Replit e molti altri ancora.
Sarà un evento enorme, e non può lasciare indifferenti vedere che si possono riunire 25.000 persone a Milano per parlare di AI. Chi compra il biglietto lo fa perché sa che ad AI Week 2026 troverà risposte alle sue domande, e partner per continuare a far crescere il business.
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Resta tuttavia una domanda aperta, che va oltre l'entusiasmo per i numeri delle fiere. Se la formazione è l'antidoto alla paura, basterà il semplice upskilling tecnico a salvare quei "3 posti su 10"? O stiamo semplicemente addestrando i lavoratori a nutrire meglio la macchina che un giorno potrebbe rendere superfluo il loro contributo cognitivo?
La nostra crescita, come professionisti e come persone, non si può certo limitare al fare prompt sempre migliori; quella è una strada senza uscita, un vicolo chiuso che non ci porta da nessuna parte a lungo termine. Dobbiamo imparare a valorizzare e a far crescere il nostro Capitale Semantico: solo così possiamo diventare quel tipo di persona che continua a crescere anche nell’era dell’Intelligenza Artificiale.