Ai confini della realtà, i migliori episodi

I migliori episodi della serie cult “Ai confini della realtà”. Simbologia e momenti più importanti.

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a cura di Omar Serafini

Nota del curatore. Non saprei dire esattamente in che momento ho smesso di essere un bambino che leggeva storie a un amante della narrativa. Forse il momento cruciale è stato Momo, romanzo che oggi non credo che consiglierei a nessuno. O forse è stato Il Signore degli Anelli, che invece apprezzo ancora per quanto i miei gusti siano cambiati.

Sono sicuro però che oggi il racconto breve e brevissimo sia la massima espressione dell’arte narrativa. E non parlo di certi imbrattacarta che in qualche modo sono riusciti a convincere un editore sballato che i loro “microracconti” valessero qualcosa. Parlo di maestri come Borges o Calvino, tanto per citare i due scrittori che da soli riassumono e simboleggiano un intero secolo.

E poi c’è la TV, che ogni tanto ha dimostrato di essere un luogo accogliente per il racconto. Ai Confini della Realtà ne è un esempio perfetto, e anche l’occasione preziosa (per me) di guardarvi da chi si dilunga troppo, con le parole con le immagini. Nella maggior parte dei casi sono autori riempiono di roba inutile la loro totale mancanza di talento, o compensano con la logorrea un’evidente incompetenza.

E poi c’è Omar Serafini, che in questo secondo articolo ci dimostra che un episodio di 30 minuti, talvolta, può valere decenni di storia televisiva. E se lo dice lui, potete fidarvi.

Buona lettura e alla prossima

Valerio Porcu

Omar Serafini

 Classe 1965, è laureato in Ingegneria Elettronica e in Scienze della Comunicazione, con una tesi sulla Storia e critica della filmografia di Godzilla del periodo Showa. Ha curato molti prodotti dedicati al genere kaiju eiga, e ha collaborato con Fantascienza.com, e Università dell'Insubria di Varese nell'ambito dei seminari Scienza & Fantascienza. Nel 2011 crea il podcast FantascientifiCast (FacebookTwitter), già vincitore di diversi riconoscimenti. Potete seguire Omar su Twitter.
C'è una quinta dimensione oltre a quelle che l'uomo già conosce; è senza limiti come l'infinito e senza tempo come l'eternità; è la regione intermedia tra la luce e l'oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l'oscuro baratro dell'ignoto e le vette luminose del sapere: è la regione dell'immaginazione, una regione che potrebbe trovarsi… ai confini della realtà!

È questa la celeberrima introduzione che apre gli episodi italiani della serie The Twilight Zone, tradotta come Ai confini della realtà. Trasmessa dalla CBS tra il 1959 e il 1964, la serie antologica - che giunge in Italia nel 1962, in un momento pionieristico della nostra televisione, ancora tutta in bianco e nero e con un solo canale nazionale - copre tutti gli ambiti del fantastico, con maturità e inventiva invidiabili.

Gli episodi, più che racconti di fantascienza propriamente detti, sono vere e proprie short stories del mistero, dell'ignoto, del grotesque, dell'orrore anche; storie brevi ambientate in un universo che non ha più punti di riferimento o certezze e nel quale la realtà esterna stessa si confonde e sovrappone con quella psichica: il mondo è davvero come mi appare? Oppure sono io che, di volta in volta, lo rendo ciò che è?

Attraverso le sue storie fantastiche, l'ideatore/sceneggiatore/produttore Rod Serling cerca sempre di proporre un suo commento morale sulla natura umana e, soprattutto, sulle sue tante manchevolezze. Lo sguardo dell'autore è, per questo, sarcastico, pessimistico e tocca quelle corde della sensibilità umana che più di altre teniamo nascoste innanzitutto a noi stessi: cioè le corde della paura e dell'inconscio, di tutto ciò che ci spaventa e che releghiamo negli angoli più remoti della nostra coscienza.

Ai confini della realtà

Dal punto di vista concettuale la serie antologica di Serling affonda le sue radici nella ricca tradizione letteraria che va dalle allegorie di Nathaniel Hawthorne al grottesco dark e al mistery di Edgar Allan Poe, mixati con la scioccante e sfrenata creatività dei pulp magazine dei decenni 30 e 40.

Fondamentale nell'economia del progetto risulta essere la durata breve degli episodi (ciascuno di 30 minuti, compresa la pubblicità), che consente tocchi fulminanti ed estremamente incisivi: non è un caso, dunque, che il declino del telefilm inizi a partire dalla quarta stagione, quando il network decide di allungare a 60 minuti la durata di ogni episodio.

Lo stile visivo - fondamentale per creare la sensazione di immersione in una realtà “altra” - si rifà esplicitamente alle ombre rivelatrici e alle angolazioni bizzarre della macchina da presa tipiche del cinema espressionista tedesco di quarant'anni prima, con il magnifico bianco e nero di una fotografia volutamente ambigua e dai contorni spesso incerti, perfetta per restituire il look della “zona del crepuscolo”.

Da tutti i punti di vista, chi apprezza oggi X-Files e dintorni non può e non deve ignorare il fatto che alcune decine di anni fa, nell'essenzialità del bianco e nero, un “signore delle illusioni” di nome Rod Serling raccontava già appassionanti storie dell'inconsueto, trasmettendo emozioni inusuali per l'epoca e colpendo la fantasia e la sensibilità del vasto pubblico televisivo.

Un episodio dopo l’altro

L'autore, tra l'altro, introduce personalmente ogni puntata alla maniera dei mostruosi host resi celebri dai fumetti “maledetti” della EC Comics di Bill Gaines: inserito nella scenografia stessa del racconto che sta per cominciare, Serling dà le coordinate di partenza per l'esplorazione della Twilight Zone e, al termine, aspetta il telespettatore per ricondurlo sano e salvo nel tinello di casa propria, naturalmente solo fino al successivo viaggio fantastico.

Ai confini della realtà ha un efficace prologo in The Time Element, un episodio pilota che confluisce, nel 1958, all'interno della serie antologica Westinghouse Desilu Playhouse e risulta il più visto e apprezzato dell'intera stagione: già qui sono presenti tematiche e filosofia serlinghiane emergenti dalla strana storia di uno psicologo che si trova a dover visitare un misterioso paziente, collegato in qualche modo al bombardamento giapponese della base militare di Pearl Harbor nelle Hawaii.

L'autentico pilot della serie, comunque, è La barriera della solitudine, in onda il 10 febbraio 1959, scritto dallo stesso Serling, diretto da Robert Stevens e interpretato da Earl Holliman (che, in seguito, sarà il collega dell'agente Pepper/Angie Dickinson nella serie Pepper Anderson Agente Speciale, 1974). Ne è protagonista Mike Farris (Holliman), un astronauta che, senza alcuna memoria di come possa essere giunto sul posto, si ritrova in una graziosa e tranquilla cittadina della provincia americana misteriosamente priva di abitanti: l'uomo attraversa il desolante scenario in preda a un'angoscia sempre maggiore, quasi come se stesse vivendo un incubo a occhi aperti; soltanto alla fine, grazie al tipico colpo di scena “alla Serling”, scopriamo che lo “svuotamento” della città è stato provocato da un test per verificare le reazioni umane alla solitudine durante i voli spaziali.

Nonostante la conclusiva spiegazione razionale, non soddisfacente nemmeno per l'autore, l'episodio indica in modo chiaro quelli che saranno i temi portanti del telefilm: lo sviluppo inarrestabile della tecnologia, soprattutto con riferimento a quella aerospaziale e quindi ai viaggi nello spazio, la presenza ossessiva della morte, il gioco inteso come beffa e sberleffo inatteso, ma anche scommessa sull'incerto futuro che attende la società statunitense.

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L'epoca storica del telefilm è fortemente caratterizzata dai primi esperimenti spaziali americani e dalla continua competizione tra tecnologia astronautica statunitense e sovietica. Lo Sputnik, primo satellite artificiale sovietico, è del 1957; nel 1961 Gagarin e Shephard sono i primi uomini tornati vivi dallo spazio. In questi anni, poi, il presidente degli USA John F. Kennedy annuncia al mondo l'avvio ufficiale della sfida che il 21 luglio 1969 porta l'equipaggio dell'Apollo 11 a calpestare per primo il suolo lunare (ed è curioso notare come, in Italia, la RAI trasmetta proprio due episodi di Ai confini della realtà, Ore perdute e Chi è il vero marziano? per riempire adeguatamente l'attesa del fatidico momento dello sbarco sulla Luna). Gli anni 60 sono segnati, dunque, dalla conquista dello spazio ed è comprensibile come gran parte degli episodi della serie risenta dell'attenzione che il mondo ha nei confronti del cosmo.

In particolare, il tema dei marziani o extraterrestri che ci spiano, condizionano e prendono anche un po' in giro, è presente in molti episodi e la loro comparsa non è quasi mai rassicurante, ma evidenzia un senso d'inquietudine per ciò che l'uomo avrebbe trovato una volta al di fuori dell'atmosfera terrestre.

Invasioni aliene

Allo stesso tempo, però, la relativa vicinanza agli orrori dell'ultimo conflitto mondiale - che tiene vivi i sensi di colpa per le esplosioni atomiche sul Giappone - e la sua conclusione vittoriosa che autorizza grande speranza nel futuro degli Stati Uniti, fa sì che nell'americano medio cresca la voglia di una “guida” capace di condurlo in una nuova era e verso un progresso che percepisce come inarrestabile: magari proprio un essere “not of this world”, superumano (Kennedy?). C'è tanta paura, quindi, nel suo animo, ma anche tanta speranza in un futuro sempre più all'insegna dell'American Way of Life: paura e speranza sono proprio i due poli tra i quali oscilla la maggior parte degli episodi di Ai confini della realtà.

In Gli invasori - scritto da Richard Matheson, diretto da Douglas Heyes e interpretato da una straordinaria Agnes Moorehead - l'invasione aliena è descritta in modo inusuale e persino scherzoso, con un rovesciamento finale di cui sicuramente si ricorderà lo stesso Serling quando scriverà Il pianeta delle scimmie di Franklin J. Shaffner.

Minuscoli extraterrestri, simili a pupazzetti di plastica, invadono la baracca in cui vive una selvaggia megera che tenta di scacciali a colpi d'ascia. La donna pronuncia solo suoni gutturali quasi bestiali e tenta di difendersi in ogni modo. Nel finale, dopo un messaggio inviato via radio verso la Terra e dopo che viene inquadrata la scritta “USA” sulla navicella, capiamo improvvisamente che gli invasori sono, in realtà, terrestri capitati su un pianeta popolato da giganti.

Il tema dell'attacco alieno è visto in modo diversissimo in un altro episodio, tra i più polemici dell'intera serie: Mostri in Maple Street, scritto da Rod Serling e diretto da Ron Winston (con Claude Akins, Jack Wagner e Ben Erway). In un tranquillo quartiere suburbano, un'improvvisa mancanza di elettricità fa scatenare la paranoia verso i propri vicini, col terrore che dietro il guasto si nasconda, in realtà, un subdolo tentativo di invasione aliena.

Nessuno si fida più di nessun altro e il quartiere (come tanti altri adiacenti) è messo, letteralmente, a ferro e fuoco. Nella sequenza conclusiva è inquadrato un gruppo di extraterrestri che, dalla sommità di una vicina collina, guarda con soddisfazione la “guerra di tutti contro tutti”, constatando come, per conquistare la Terra non sia nemmeno necessario attaccare gli umani che - se adeguatamente provocati - possono annientarsi l'uno con l'altro.

L'episodio rappresenta un agghiacciante, anche se fin troppo didascalica, metafora della cosiddetta “caccia alle streghe” condotta negli anni 50 dal senatore Joseph McCarthy nei confronti di chiunque fosse stato anche solo sospettato di simpatie verso il partito comunista. Il maccartismo - particolarmente duro proprio verso le comunità artistiche di cinema e televisione - è tra le ragioni di quel diffuso conformismo sociale che fa ricordare il decennio in questione come Silent Fifties, con influenze decisive oltre che sulla produzione artistica anche sulla vita quotidiana degli americani.

Anche uno tra gli episodi più famosi della serie, È bello quel che piace (scritto da Serling e diretto da Heyes, con William B. Gordon e Donna Douglas), può essere letto in chiave anti-maccartista: in una strana clinica creata da un regime totalitario futuristico (che ha nell'omologazione il valore primario), una donna con il volto fasciato si prepara a verificare la riuscita dell'ennesima operazione effettuata per renderla... uguale agli altri. Lei si sente brutta (ed è trattata come tale), perché, come si scopre al termine della puntata, è in realtà l'unica non sfigurata anzi è bellissima, in un mondo popolato da mostri tutti uguali e con la faccia simile a quella dei maiali. Anche qui, la metafora è fin troppo evidente.

Solitudine e morte

Ma tornando alle tematiche aerospaziali, un terzo esempio di come sono trattate in Ai confini della realtà può essere l'episodio Solitudine (scritto da Serling, diretto da Jack Smight e interpretato da Jack Warden, Jean Marsh e John Dehner) che, peraltro, porta anche al secondo tema della serie, la morte.

In Solitudine, un uomo deve scontare la propria pena su un lontano asteroide, completamente isolato nello spazio. L'anomalo carcerato, però, riceve periodicamente le visite del suo sorvegliante che un giorno, con molta compassione, decide di portargli dalla Terra una donna-robot in tutto simile a un essere umano.

Dopo l'iniziale diffidenza, tra i due nasce un amore che va oltre ogni differenza strutturale. Ma, alla fine, il destino decide di separare sadicamente i due amanti, nel momento in cui all'uomo è concessa l'opportunità di completare la propria reclusione sulla Terra: l'angusta astronave che deve riportarlo sul pianeta natio, infatti, non può contenere il robot che, quindi, pur in apparenza così umano, sarà ucciso/distrutto freddamente dai carcerieri e abbandonato sull'asteroide.

L'inquadratura finale è inquietante perché rivela l'ingannevole natura di puro simulacro della donna metallica: il suo vero volto è di metallo, non di carne. Echeggiano nell'episodio tematiche e atmosfere molto simili a quelle che, nel 1982, saranno al centro di Blade Runner di Ridley Scott (imperniato sul dilemma della vera natura dei replicanti) oppure, nel 1987, di una serie televisiva come Star Trek: The Next Generation, attraverso il personaggio del “Pinocchio” androide Data.

L'altro tema portante presente nella serie è, come detto, quello della morte, riconducibile non alla paura di un'assenza dell'Aldilà ma, al contrario, alla descrizione di un Aldilà inquietante e, a volte, davvero tremendo. Viene trattato piuttosto frequentemente proprio il momento del trapasso, spesso non avvertito da chi lo subisce (un buon esempio è L'autostoppista, scritto da Serling e diretto da Alvin Ganzer) e, quindi, subito affiancato dalla difficoltà a prendere coscienza della propria morte: un esorcismo, forse, un modo per rimuovere la fine della vita attraverso storie che indicano, tra la vita e la morte, una continuità nel corpo, nelle sensazioni personali, nell'ambiente.

La morte diventa insomma un altro livello di vita o un'autentica, nuova esperienza parallela. E il terrore del riconoscimento della propria morte viene così mitigato dalla consapevolezza che niente è finito ma che, anzi, tutto continua.

Un discorso per gli angeli (scritto da Rod Serling e diretto da Robert Parrish, con Ed Wynn e Murray Hamilton) propone una rappresentazione davvero insolita della morte, che ha l'aspetto di un piccolo burocrate indaffaratissimo e preoccupato di non mancare gli appuntamenti segnati sulla propria agendina.

In particolare, nell'episodio ne ha uno con un venditore ambulante che, però, cerca in ogni modo di ritardare il momento della propria “partenza” (così è definito l'arrivo della fine), contrattando il tempo che gli rimane con l'oscuro emissario giunto per portarlo via. Riuscirà a ottenere di “partire” solo dopo aver fatto il discorso che ha sempre desiderato, un discorso in grado di commuovere persino gli angeli: ma, come si sa, nessuno può permettersi di ingannare la morte, nemmeno l'abile venditore ambulante.

In Il Sole a mezzanotte (scritto da Serling, diretto da Anton Leader e interpretato da Lois Nettleton, Betty Garden e Jason Wingreen) la morte è presente in ogni inquadratura, poiché la storia parla di un pianeta Terra ormai condannato che, uscito dalla propria orbita, si avvicina sempre più velocemente al Sole con la temperatura che aumenta in modo insopportabile. Anche qui, nel finale, un rovesciamento completo muta il contesto, ma non l'apocalittico risultato: la Terra è destinata a scomparire, ma per il troppo freddo invece che per il troppo caldo (la beffa!).

Tra gli episodi più belli, ancora una volta in bilico tra il tema della morte e quello del gioco, c'è Ore perdute, scritto sempre da Serling e diretto da Heyes (con Anne Francis, Elizabeth Allen e James Millhollin). Qui una bellissima ragazza (Francis) di nome Marsha White visita il piano inesistente (il nono) di un grande magazzino a otto piani sempre gremito di clienti.

Al termine di altre incredibili vicissitudini, vissute in un'atmosfera quasi kafkiana, la fanciulla ricorda la sua vera natura: è un manichino smemorato. Ogni mese, infatti, i manichini del negozio hanno diritto a un solo giorno da vivere come umani (quasi come gli americani medi, schiavi del proprio lavoro e con sempre meno tempo libero a disposizione) e la “ragazza” ha semplicemente dimenticato che il suo “turno da essere umano” è terminato: adesso le tocca “morire” di nuovo e ritornare a essere, nonostante il tentativo di ribellione alle leggi non scritte della sua società, poco meno che un giocattolo privo di anima.

Il gioco e la beffa

Terzo tema portante è quello del gioco, nell'accezione più ampia del termine: basti, tra i tanti, l'esempio di un episodio come La febbre, scritto da Serling, diretto da Ganzer e interpretato da Everett Sloane. Più in generale però il gioco in Ai confini della realtà è inteso come rischio e sfida all'ignoto: in questi casi o si usa il cervello e la ragione - il cui sonno, com'è noto, genera mostri - oppure si viene sopraffatti.

Soltanto attraverso un sano e attento esercizio della razionalità, dunque, si può sfuggire alla dipendenza da elementi assolutamente imprevisti e in grado di insinuarsi persino tra le pieghe della tranquilla e agiata esistenza dell'homo americanus: l'irrazionale e il lato primordiale dell'uomo, però, non possono mai essere messi a tacere in modo definitivo e - l'esempio migliore arriva dai film di fantascienza del decennio, con mostri mutanti che si ribellano alle violenze di una società sempre meno attenta alla “naturalità” - torna appena può per far sentire il proprio grido, più forte di qualunque regola, moda, imposizione o corsa verso il successo e il progresso.

Il gioco però è anche beffa e sberleffo in diversi capitoli della serie; come nel bellissimo Tempo di leggere - scritto da Serling, diretto da John Brahm e interpretato da Burgess Meredith - che lo intreccia mirabilmente con la tematica della morte e con quella del controverso rapporto con il progresso tecnologico. Protagonista del segmento - forse il più amato in assoluto, insieme a È bello quel che piace - è Henry Bemis, un mite impiegato di banca, occhialuto e di mezz'età, il quale cerca di leggere tutte le volte che può.

Né la moglie a casa però, né il capo ufficio al lavoro glielo permettono a cuor leggero: la sua è un'attività “non produttiva” e per questo malvista da una società già molto competitiva. Ma in seguito all'esplosione in un ordigno nucleare, l'omino sarà l'unico sopravvissuto sulla Terra e perciò avrà a disposizione tutto il tempo che gli serve per dedicarsi al suo hobby. Non sa, il poveretto, che la beffa lo attende dietro l'angolo: proprio nel momento in cui, tra le macerie, trova un'enorme biblioteca pubblica, ormai deserta e quindi a sua completa disposizione, gli cadono gli occhiali che si rompono lasciandolo “al buio” in un mondo senza più vita.

Mettere tutto in discussione

In definitiva, il principale messaggio “politico” di Ai confini della realtà, “eversivo” da più di un punto di vista, potrebbe essere: ecco le stranezze che si insinuano nel benessere troppo ordinato (omologato?) della nostra società e delle nostre vite; sono presenti tra le pieghe del reale, anche se fingiamo di non accorgercene, e influenzano persino le nostre percezioni. Forse, dunque, non bisognerebbe essere troppo sicuri di nulla e, anzi, sarebbe più opportuno ridiscutere meglio ogni cosa, a cominciare dal giusto ruolo dell'uomo in un mondo che è molto più ricco e sfaccettato di quanto lontanamente immagini. In un'epoca di troppe certezze, come i primi anni 60, la serie di Serling, quindi, rappresenta un autentico “elogio del chiaroscuro”, reso benissimo anche dall'inconfondibile stile visivo ambiguo della serie.

Trasmesso proprio al termine della cosiddetta Golden Age della televisione americana - nel momento cruciale del passaggio dalla live television ai programmi registrati che segnano il definitivo trionfo dei network - lo show è importante anche da un altro punto di vista, come fa notare William Boddy in un saggio tradotto anche in Italia.

“Per molti versi - scrive, infatti, Boddy - Twilight Zone rappresenta un compromesso fra l'impostazione drammaturgica e riformistica della Golden Age televisiva e le strutture del telefilm da 30 minuti. La struttura di Twilight Zone, nel contesto della stagione televisiva, ha più a che vedere con i lavori teatrali singoli dell'inizio e della metà degli anni 50 che con il tipico serial che ripropone gli stessi personaggi; il programma è infatti privo di personaggi o ambienti e perfino di trame standard. Il tema generale di Twilight Zone è organizzato con estrema libertà e ha ben poco a che spartire con il tradizionale genere della fantascienza televisiva, che negli anni 50 era una forma studiata soprattutto per un pubblico giovanissimo. Sicuramente, Twilight Zone presenta evidenti continuità di voce narrante, di caratterizzazioni, e ha quel tono un po' didattico d'impronta liberale di cui è permeata tutta l'opera di Serling durante gli anni 50.»

Gli anni ‘80

Un remake della serie classica è realizzato a metà degli anni 80, e la regia venne affidata, tra gli altri, a cineasti del calibro di Joe Dante, Wes Craven, William Friedkin. Va immediatamente detto che il risultato complessivo - come quello del film del 1983, Ai confini della realtà, con quattro episodi diretti da Steven Spielberg (anche produttore), John Landis, Joe Dante e George Miller - non riesce mai a eguagliare i picchi del telefilm di 25 anni prima, sbilanciando gli esiti più sul versante dello spavento fine a se stesso che su quello dell'emozione, ben più destabilizzante, della serie originale.

L'importanza storica di telefilm come Ai confini della realtà, Thriller e The Outer Limits risiede nell'aver avvicinato la middle class americana al Fantastico e alle sue tematiche di base, familiarizzando il grande pubblico con concetti come le invasioni aliene, le realtà alternative, i viaggi nel tempo e le manipolazioni genetiche.

Certamente il successo di queste serie è servito per piantare nelle menti dei telespettatori il seme della fantascienza, destinato a germogliare nel 1966, con l'avvento di Star Trek e, soprattutto, con i grandi film che, a partire dalla metà degli anni 70, modificano per sempre l'immaginario collettivo di appassionati che però, come detto, sono già in grado di sospendere la propria credulità ed entrare in un altro mondo situato “oltre i limiti” oppure “ai confini della realtà”.

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