Copenhagen Cowboy, recensione: Refn fra crime e supereroine

Nicolas Winding Refn torna a misurarsi con la serialità televisiva con Copenhagen Cowboy introducendo la (super)eroina Miu.

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a cura di Domenico Bottalico

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A circa tre anni di distanza dall'anticonvenzionale Too Old To Die Young, il regista cult danese Nicolas Winding Refn torna a misurarsi con la serialità televisiva, sempre dettando le sue peculiari regole, con Copenhagen Cowboy i cui 6 episodi saranno disponibili su Netflix a partire dal prossimo 5 gennaio. Una storia lisergica ambientata nei sottoboschi criminali di una Copenhagen desolata in cui la giovane Miu fra poteri soprannaturali e arti marziali dispensa vendetta risvegliando la sua stessa nemesi nell'eterna lotta fra bene e male.

Copenhagen Cowboy: spiriti della vendetta sotto luci al neon

Miu arriva a Copenhagen dai Balcani venduta come una sorta di portafortuna. Rosella è una donna albanese di mezza età che cerca disperatamente di avere un figlio dal silenzio marito danese, che pare avere ben altri appetiti, ed è anche la sorellastra di Andre un piccolo boss che gestisce un racket di prostitute, tutte ragazze provenienti dall'est e attirate in Danimarca con la promessa di un lavoro come modelle. Quando Rosella non riesce a rimanere incinta, Miu viene rivenduta proprio ad Andre. Fra le altre ragazze con cui viene rinchiusa, la mingherlina Miu sembra stabilire una connessione con Cimona tanto da progettare con lei la fuga.

Le due ragazze si danno appuntamento appena fuori dal mattatoio adibito a club del clan albanese ma non si incontreranno mai. Cimona infatti viene caricata in macchina dall'algido Nicklas che la uccide. Miu quindi trova rifugio presso Madre Hulda, una donna cinese proprietaria di un ristorante, che ne intuisce le capacità quando improvvisamente "riporta in vita" una bambina nata morta. Dopo che Miu compie la sua vendetta nei confronti di Rosella, Hulda le chiede di aiutarla ad alleviare le forti emicranie del suo capo il boss Chiang. Hulda infatti confessa che Chiang ha preso in ostaggio sua figlia Ai e anche per questo è costretta a lavorare per l'uomo che le porta regolarmente cadaveri da far smaltire ai suoi maiali. Miu applica le sue capacità taumaturgiche alleviando il dolore di Chiang ed entrando nelle sue grazie.

Quando uno dei maiali di Hulda muore, le due donne si recano presso un allevamento locale per acquistarne un altro. L'allevamento è di proprietà di un ricca famiglia danese: proprio nella loro casa, dove si contratta per il prezzo dell'animale, Miu vedere il fantasma di Cimona. La ragazza insiste quindi nel voler indagare trovandosi di fronte Nicklas e intuendo che si tratta dell'assasino della sua amica lo affronta lasciandolo esanime nel recinto dei maiali che lo sfigurano.

Sicura di aver vendicato Cimona, Miu decide di aiutare ancora una volta Chiang con la sua emicrania a patto che lui liberi Ai, il boss acconsente ma fissa un prezzo esorbitante. La ragazza quindi viaggia fino in città e chiede al corrotto avvocato Miroslav di procurarle un lavoro. Miu inizia quindi a spacciare per una gang locale finendo nel fuoco incrociato di una guerra a tutto campo. Trovandosi con una grossa partita di coca per le mani, Miu prova a ripagare il suo debito con Chiang che però rifiuta seccamente chiedendo invece alla ragazza di unirsi a lui come sua moglie e amante.

Nicklas intanto, deforme e privo di forze, risveglia con un rituale la sorella Rakel nella speranza che questa lo vendichi. Come Miu anche Rakel ha delle abilità speciali e fra le due il confronto è solo una questione di tempo.

Copenhagen Cowboy: fra noir e supereroine

In Copenhagen Cowboy vi è un lapalissiano cambio di paradigma nella narrazione di Nicolas Winding Refn: l'introduzione di una protagonista femminile, una eroina quasi super. Per il regista sembrano quindi essersi aperte improvvisamente nuove digressioni narrative dove alle classiche ispirazioni crime e noir, quelle western e del cinema di arti marziali si aggiunge una componente di autocoscienza e di social commentary (già presente a dir la verità nel suo film del 2016 Neon Demon) in cui la sua prospettiva privilegiata, quella del viaggio dell'eroe possibilmente silenzione e dal passato oscuro, è ribalta e osservata di traverso.

Vi è la mercificazione del corpo femminile, ed il suo potere metafisico non sempre positivo, dove verità e redenzione fanno rima con vendetta. Simbolismi animali neanche troppo velati (le aquile albanesi, i draghi cinesi e così via) trovano nella figura dell'uomo-maiale, con personaggi maschili che anziché parlare grugniscono, la loro apoteosi depauperando dell'invincibilità l'idea stessa di mascolinità (intorno al quarto episodio ai simbolismi animali si sostuiscono quelli fallici) ma anche quella di possessività e addirittura di purezza di razza. Tutti sono travolti dalla violenza e la vendetta è un sentimento universale.

In tal senso Miu è una Beatrix Kiddo in blu, il colore della calma, il cui potere salvifico è però, come quello dei supereroi, incastrato in circolo vizioso di morte e resurrezione contro un Male che si è contribuito a creare/risvegliare, con i connotati di una vampira/cannibale nel caso specifico, e impossibile forse da fermare definitivamente ma contro cui bisogna misurarsi ciclicamente. Questa potrebbe essere una ipotetica lettura del finale aperto della serie al netto di una possibile seconda stagione forte anche del cammeo di Hideo Kojima come boss della yakuza.

La serie si divide praticamente in 3 archi narrativi da 2 episodi l'uno in cui soprattutto gli ultimi due diventano estremamente lisergici e rarefatti e dove le influenze di David Lynch e Lars Von Trier si fanno più marcate. Una narrazione estremamente posata, silenziosa ed intervallata solo dai beat synth wave di Cliff Martinez, in cui sguardi e gesti dominano le inquadrature e ogni movimento è lento e volutamente assimibile a una performance di danza moderna anziché alla muscolarità del cinema d'azione.

Una sinestia di contrasti cromatici al neon e di estetica vapor wave in cui la correttezza formale e il percorso narrativo stesso vivono di bruschi flare e dissolvenze stranianti e dove i movimenti di camera sono laterali a 360° rimarcando la ciclicità di quello che stiamo esperendo fra caos criminale e una sublimazione onirico-catartica della componente simbolica ed euristica dell'azione.

Copenhagen Cowboy è un esercizio di stile che farà felici i fan di Nicolas Winding Refn pur muovendosi su binari leggermente diversi rispetto alla precedente Too Old To Die Young. Più fruibile per certi aspetti ma ancora più rarefatta per altri, questa serie è una celebrazione dell'anti-commercialità sotto molteplici punti di vista e proprio per questo non poteva che approdare su quella che è la piattaforma streaming con più utenti al mondo: come una forza dirompente e dissacrante che farà tremare i polsi, e forse perdere la pazienza, allo spettatore medio.