L'Altro e il Divino

Il film che più di tutti ha definito il design audiovisivo degli anni Ottanta. Alcune di quelle sequenze concepite e orchestrate da Steven Spielberg sono diventate totem per le retine nerd di tutte le epoche.

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a cura di Tom's Hardware

Parliamo di un difetto tecnico voluto, una sporcatura della visione che segnala il primato della cinepresa nel farsi carico della funzione caratterizzante. L'inquadratura stravagante e quindi peculiare diventa filtro narrativo, "scultura di luce". Il frame sporcato dai lens flare caratterizza la situazione proprio perché imperfetto e quindi teoricamente unico e non riproducibile. Specie dopo E.T. l'extraterrestre gli abbagli dei lens flare si accompagnano spesso a particolari momenti di chiaro-scuro emotivo del fantastico cinematografico dei primi anni Ottanta alimentando atmosfere che ostruiscono lo sguardo, confondono e caratterizzano allo stesso tempo.

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Nascono così, con la luce, contesti di alterità, imperscrutabilità visiva, inaccessibilità cognitiva rispetto ad una dimensione aliena; ed ecco che molti di noi cresciuti in quegli anni oggi li consideriamo cult dalla sacralità inarrivabile. Anche grazie a queste operazioni con la luce il corpo rugoso di ET (come già prima era avvenuto con gli alieni dell'altro capolavoro fantascientifico spielberghiano Incontri ravvicinati del terzo tipo) diventa referente di un divino che decide per chissà quale oscuro motivo di farsi carne e di scendere sulla Terra.

In questa discesa del divino sulla Terra (un pianeta tutto sommato non proprio per bene) è possibile ravvisare l'affermazione definitiva di un filone particolare della fantascienza che intende mettere in discussione l'essere umano in quanto detentore di superiorità morale. In questo senso la fantascienza spielberghiana prosegue quel lavoro culturale originato dai western "anticonformisti" degli anni Settanta di autori come Arthur Penn e Martin Ritt che hanno provato a riscrivere la Storia del Far West dalla parte dei perdenti. Il sogno della società perfetta, dell'utopia di un nuovo mondo da costruire viene sporcato più e più volte dall'epica del fango e del sangue.

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Barriere, muraglie, fili spinati, genocidio di nativi: questo è stato per molti anni il sogno americano. Per una strana coincidenza il filone dei western "progressisti" e le innovazioni fotografiche che guardano al cinema europeo dell'epoca si incrociano in Easy Rider (1969) - un film di culto con motociclette che scappano verso un sogno di libertà. La pellicola diretta da Dennis Hopper e fotografata da Laszlo Kovacs è passata alla storia del cinema anche per essere stata una delle prime ad utilizzare programmaticamente l'espediente del lens flare.

In quegli anni, parallelamente a queste innovazioni nella tecnica filmica e nella sceneggiatura hollywoodiana la fantascienza andava elaborato le sue riforme sul piano narrativo: pellicole come Ultimatum alla Terra (Robert Wise, 1951), L'invasione degli ultracorpi (Don Siegel, 1956) e 2001 Odissea nello spazio (Stanley Kubrick, 1968) hanno preparato il terreno ad un modo nuovo di vedere l'alieno. Diventa in qualche modo il selvaggio pellerossa abitante nativo di una frontiera tecnologica e (soprattutto) culturale tutta da esplorare.

I primi alieni buoni come il Klaatu di Ultimatum alla Terra non sono alfieri di chissà quale specifico sistema valoriale o miracolo tecnologico: sono semplicemente simboli di un'alterità sociale e biologica che ha trovato un modo di vivere che non implichi necessariamente l'atto di soggiogare la natura o l'altro da sé. La figura dell'alieno non è più sovrapponibile al pellerossa selvaggio e imprevedibile o al mostro squamoso che emerge da terrificanti lagune nere: si avvicina di più all'incarnazione di una visione del mondo intellettualmente simile al nostro ma superiore perché tecnologicamente più avanzato o socialmente più organizzato.