Perché abbracciare il caos di Everything Everywhere All At Once, recensione

Everything Everywhere All At Once: un meraviglioso elogio del caos, ma anche una storia di possibilità e amore.

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a cura di Rossana Barbagallo

Everything Everywhere All At Once (ovvero “tutto, ovunque, tutto in una volta”, più o meno). Come la sensazione di sopraffazione che esplode nella mente nel momento in cui iniziamo a pensare alla nostra vita, ai nostri fallimenti, a quello che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto, alle fantasie su ciò che avrebbe potuto essere o sarà, mentre il mondo sembra schiacciarci sotto le macerie di tutti i i rimpianti e i “se solo...”. Quello dei Daniels e prodotto dalla A24 non è però un film sulla sconfitta, sull'abnegazione degli individui verso un presente di routine e disfatta, o su quanto a volte il nostro sentirci delle nullità ci renda meschini verso chi amiamo. Questa è una storia di possibilità e di amore e di tutto ciò che di buono si può ricavare da quel caos che sono diventate le nostre esistenze col tempo, su un sottofondo di colpi d’arti marziali e inconcepibili salti tra gli universi. Scoprite dunque con noi perché dobbiate assolutamente guardare questo film. Lasciatevi sopraffare dalle esplosioni visive ed emotive di Everything Everywhere All At Once. Abbracciate il caos.

Una questione di prospettive

A marzo di quest’anno salta fuori che negli States è stato distribuito al cinema un film intitolato Everything Everywhere All At Once. Se già il titolo sembra qualcosa di improbabile, anche il trailer contribuisce a confondere le idee, con una Michelle Yeoh travolta da un turbine di eventi che la sballottano qua e là attraverso le situazioni più disparate. Da esso, emerge che la trama c’entra qualcosa con i multiversi (un concetto con cui ormai la cinematografia odierna sembra andare a nozze, soprattutto nel MCU), con i combattimenti e con questa donna che, suo malgrado, viene trascinata in folli salti tra le realtà che compongono l’esistenza, benché le sue uniche preoccupazioni siano le tasse e la gestione della sua lavanderia a gettoni. Salta fuori anche, però, che questa pellicola è molto più di ciò che sembra. Il pubblico che ha avuto modo di vederla è piuttosto concorde nei giudizi positivi. Gli incassi vanno bene. Col tempo Everything Everywhere All At Once ha iniziato perciò a non sembrare più un titolo così assurdo e la curiosità è aumentata in Italia, alla notizia che il film sarebbe arrivato anche nel nostro paese.

Probabilmente, però, nulla poteva prepararci a ciò a cui abbiamo assistito con la sua proiezione. Everything Everywhere All At Once, diretto da Daniel Kwan e Daniel Scheinert (detti i Daniels) e prodotto dall'indipendente A24, è un meraviglioso elogio del surreale e dell’improbabile. Una pellicola che sulla carta si presenta come un action d’arti marziali con in mezzo i viaggi nel multiverso, ma che in realtà valica i confini di qualsiasi possibile categoria con una sbalorditiva originalità e un tripudio di caotica, sfolgorante creatività. Facile paragonarlo al Matrix delle sorelle Wachowski e dire “è solo Matrix con delle gag”, annullando così tutta l’inventiva che Everything Everywhere All At Once porta invece con sé. Sì, c’è anche Matrix nel film dei Daniels, come lo si può negare? E tuttavia questa pellicola sorta quasi dal nulla nel nostro feed di notizie sui film in arrivo è molto più delle sue ispirazioni e delle citazioni che fa, anche agli stessi meccanismi che muovono la settima arte (ad esempio: fare di un’esperta d’arti marziali una bellissima star del cinema). Originale, folle, pronto a stupire proprio quando meno lo si aspetta: insomma, non si può semplicemente ridurre Everything Everywhere All At Once al bagaglio di conoscenze filmiche a cui i registri strizzano l’occhio.

Grossomodo, la trama è questa: Evelyn Wang possiede una lavanderia a gettoni, che gestisce con il marito Waymond (Jonathan Ke Quan), ma di cui potrebbe essere espropriata a breve. L’evasione fiscale è lo spettro che aleggia sull'attività. Mentre Evelyn è troppo presa dall'evitare di andare a fondo con essa, non si accorge che intanto Waymond sta preparando i documenti per il divorzio e la figlia Joy (Stephanie Hsu) muore dentro ogni giorno di più tanto per la mancanza di attenzioni da parte della madre, quanto per l’imbarazzo che la sua omosessualità causa in Evelyn. Se le tasse da pagare sembravano un incubo, tutto precipita quando Evelyn viene avvicinata da un Waymond di un universo alternativo che le spiattella in faccia un’assurda verità. Lei potrebbe essere l’unica, tra innumerevoli versioni di sé stessa, a poter salvare ogni universo esistente dalla minaccia di Jobu Tupaki: un’essere che ha visto e ha appreso ogni cosa del multiverso ed è in grado di vivere tutte le versioni di sé contemporaneamente, alla ricerca dell’annientamento totale, suo e di chiunque altro.

Il problema, con Everything Everywhere All At Once, sono forse le aspettative a cui anni di cinema sui multiversi, sui combattimenti, sull'azione supereroistica da cinecomic, ci hanno abituati e praticamente assuefatti. Per guardare questo film rivelazione della A24, invece, bisogna sedersi in sala abbandonando tutto ciò che si è appreso finora, lasciandosi andare all'imprevedibilità, a colpi di scena così kitsch da essere geniali, a un ritmo disomogeneo che tuttavia riesce a bilanciare i “tempi morti” con un’azione esplosiva e una rappresentazione visiva brillante e spettacolare. Già la sola teoria di un multiverso in cui ciascuna versione di sé possa essere interconnessa e apprendere in maniera reciproca memorie e competenze dalle altre, è una vera furbata che non solo giova ai fini di una trama che si basa molto sui combattimenti (addirittura coi mignoli! Mignoli coi muscoli!), ma è anche visivamente appagante e coinvolgente nel montaggio. Non solo: in Everything Everywhere All At Once ci sono anche trovate umoristiche che arrivano senza preavviso, tanto da lasciare ai due estremi di un riso a crepapelle o di un paralizzante stordimento. A questo proposito, chiamiamo in causa l’uomo che si è lanciato in un tuffo a bomba esattamente sopra a un butt plug, acquisendo così l’arte del kung fu. O le sequenze in cui Jamie Lee Curtis e Michelle Yeoh hanno delle salsicce al posto delle dita e compiono ogni azione con i piedi. Insomma, bisogna cambiare la propria prospettiva e non aspettarsi nulla di già visto: mettersi comodi e godersi questo viaggio nell'assurdo.

Everything Everywhere All At Once: amore e odio

Un viaggio nel quale siamo accompagnati da interpreti che sbalordiscono. Michelle Yeoh è una madre, una moglie, una combattente e una diva perfetta: se nei piani iniziali della sceneggiatura il casting prevedeva di inserire Jackie Chan come protagonista, non vediamo adesso come Everything Everywhere All At Once possa essere lo stesso senza Yeoh. Jamie Lee Curtis è stupefacente nella sua credibilità come impiegata del fisco, salvo poi ribaltare tutto ciò che sapevamo su The Body nel momento in cui la vediamo lanciarsi come un bestiale wrestler contro i suoi nuovi nemici (e no, non sono gli evasori fiscali). Massima ammirazione anche per James Hong (Grosso Guaio a Chinatown), nei panni dell’anziano padre di Evelyn, che dall'alto dei suoi 93 anni dimostra la prontezza di un uomo con almeno vent'anni di meno. Ma anche per Stephanie Hsu: glaciale, inquietante, una diva al pari di Yeoh, spacca lo schermo con una presenza forte e adornata di outfit che sono prodigi costumistici. Sul podio però va lui: Jonathan Ke Quan (I Goonies), nei panni di un marito a cui arriva allo stomaco il pugno di una frase come “Ho visto la mia vita senza di te. Era bellissima”. Che non abbandona mai la sua indole pacifica e bonaria e soffre e fa soffrire anche noi per questo, rompendo gli argini delle lacrime. E sa interpretare il suo personaggio, scritto eccezionalmente, sia quando è un marito sconfitto, sia quando è un agente del multiverso con un ampio ventaglio di mosse da sfoggiare.

Ma perché poi, alla fine, dovreste imbarcarvi nella visione di Everything Everywhere All At Once? Perché il film dei Daniels non è azione, gag e teorie fantascientifiche fini a sé stesse, per quanto creative, spettacolari, sorprendenti (e deliranti). Ma una pellicola che sfrutta la sua esplosività per puntarci un dito contro il petto, guardarci negli occhi e dirci “non è finita, hai ancora molto da fare e molto da dare, sei importante per chi ti ama perciò vedi di esserlo anche per te stesso”. Bisogna dire le cose come stanno: sul finire del film, certi concetti vengono espressi in maniera ridondante e il minutaggio sembra essere stato stiracchiato e strizzato per farne fuoriuscire quanto più “succo di feels” possibile. Insomma, in questa fase le tempistiche avrebbero potuto essere ridotte e l’effetto finale, siamo abbastanza certi, non sarebbe mutato. Ovvero, quell'effetto dato dal prendere il nostro cuore e stringerlo in un pugno, dopo averci illusi di essere stati finora di fronte a un action-comedy.

Perché Everything Everywhere All At Once parla d’amore, quello per la famiglia e quello che è mancato per noi stessi quando più ce n’era bisogno. E poi parla anche di odio, quello che nasce dai sensi di colpa, dal sentirsi inadeguati, incompresi, falliti, cresce e si autoalimenta e quell'odio per sé stessi diventa un buco nero (o un bagel, a seconda dei casi) capace di inghiottirci e condurci all'autodistruzione. E tutto questo amore e questo odio scaturiscono da ogni nostra, minuscola e apparentemente insignificante azione: tutto ciò che facciamo o che non facciamo ha delle conseguenze. Ed è delle innumerevoli possibilità che il film dei Daniels parla: quelle che ci siamo preclusi quando non ci siamo sentiti all'altezza, quelle che rimpiangiamo ancora, quelle per le quali abbiamo la facoltà di scegliere adesso ma che ci spaventano a morte per il futuro.

Ci troviamo di fronte a uno specchio, diventiamo Evelyn e al contempo la detestiamo e nell'intraprendere questo vorticoso viaggio attraverso i suoi rapporti interpersonali con il marito, la figlia, il padre, non possiamo che ammettere quanto sia difficile amarsi e amare, alla luce delle scelte che ci hanno condotti a oggi e ci hanno cambiati, modificando anche la nostra percezione degli altri. Le lacrime, vi avvertiamo, sono garantite, perciò abbandonatevi alle emozioni che Everything Everywhere All At Once procura e lasciate che vi faccia del male. Perché solo abbracciando le sue dolorose verità sarà possibile comprendere che, se chi ci sta accanto adesso è il frutto dei nostri fallimenti, allora forse tanto falliti non siamo.