Niente è reale, tutto può esistere

La storia del pensiero umano è un continuo inseguirsi tra realtà e immaginazione, destinato a non finire mai.

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a cura di Alberto Costantini

Nota del curatore. Retrocult è una rubrica dedicata alla narrativa fantastica, e per definizione parla di cose che non esistono. Un’affermazione indiscutibile, si direbbe, giacché di draghi, robot, supereroi in calzamaglia e degli altri residenti fissi, che io sappia, non c’è traccia nel mondo reale.

Già, ma Fantastico e Fantascienza sono modi di creare nuove realtà e di riscrivere quella che conosciamo. È sempre un gioco di prestigio - come ci ha insegnato il regista Christopher Nolan - che funziona perché tutto sommato abbiamo un irrefrenabile desiderio di essere ingannati.

E allora dev’essere una specie di miracolo, il fatto che la maggior parte di noi 7 miliardi e rotti, siamo tutto sommato d’accordo riguardo a ciò che è reale e ciò che è fantasia. Lo so, avete già pronta una contestazione sulle religioni e un’altra sulla forma del pianeta, ma queste sono già cose sofisticate: tutti “sappiamo” che l’acqua è bagnata e che il fuoco scotta, e che il vento alimenta speranze di gonne sollevate.

Eppure sin da bambini ci rincorrono domande a cui curiosamente nessuno può rispondere: esistiamo davvero? E se fossimo il sogno di qualcun altro, come potremmo saperlo? E se non possiamo affermare con statuaria certezza “io esisto”, allora non possiamo nemmeno dire che qualcos’altro non esiste. È così che la vita all’improvviso si complica, facendosi le domande giuste.

Buona lettura e alla settimana prossima

Valerio Porcu

Non è reale…

Paleolitico inferiore o giù di lì.

Un gruppo di uomini primitivi è riunito attorno al focolare; poco discosto, un cucciolo si sta agitando nel sonno, e uno dei componenti della banda chiede se, secondo loro, anche i cani sognano. Si intrecciano opinioni diverse, e Krug detto Mano – alla – lancia racconta che, la notte prima della caccia, aveva sognato di essere un  mammut che pascolava nella grande pianura; il sogno era stato così realistico che, al risveglio, si era chiesto se era proprio un uomo che aveva sognato di essere un pachiderma, o un pachiderma addormentato che stava iniziando il suo sogno da essere umano.

A questo punto, qualcuno, ritirando il suo pezzo di carne abbrustolito, ricorda la storia del povero Grod che, dopo un vivace scambio di opinioni con una tigre dai denti a sciabola, aveva cominciato a vedere in giro cose strane, che non esistevano e non potevano esistere: mastodonti color ravanello pallido, caverne con l’impianto di riscaldamento centralizzato, agenti del fisco …

Immaginiamo la loro conversazione che prosegue mentre le braci occhieggiano: un cacciatore domanda allo sciamano perché, quando immerge la sua lancia nel fiume, gli occhi gli dicono che si è spezzata, ma quando poi la tira fuori la ritrova intatta e pronta a ferire come prima?

Quegli uomini – o forse erano donne? – stanno scoprendo una cosa molto importante per la storia dell’umanità: non tutto quello che il cervello riceve (visione, suoni, odori, immagini, esperienze…) è coerente con la realtà.

Storie, filosofie, occhiali e specchi

Ma cos’è allora la realtà, se non ci possiamo fidare neppure di ciò che vediamo, tocchiamo, annusiamo? Cos’è vero e cos’è immaginazione? Siamo sicuri che anche le cose sognate o immaginate non esistano, in qualche modo e da qualche parte? O che quelle che riteniamo esistenti siano soltanto illusione?

E c’è di peggio: quando chiediamo “passami la camicia azzurra, cara” scopriamo che quello che per me era azzurro, per la mia dolce metà potrebbe essere verdolino; o grigio. In questo caso, come ci si regola?  

Migliaia di anni dopo, i saggi dell’India arrivano ad una conclusione sconvolgente, ma quasi unanimemente condivisa in quella cultura: ciò che noi chiamiamo realtà, è solo apparenza, un gioco di qualche dio capriccioso che ci proietta davanti agli occhi un mediocre film dandoci l’illusione che nella sceneggiatura sia prevista una particina anche per noi. Per dirla con il nostro San Paolo: vediamo come in uno specchio, uno specchio deformato, una percezione sfocata e illusoria della realtà.

Una delle più grottesche truffe di questo “velo di Maya” è la convinzione – e già immaginiamo le risate di sottofondo – che noi possediamo un’essenza individuale propria e distinta.

Il concetto verrà ripreso molto più tardi da Arthur Schopenhauer, il quale nella propria filosofia sostiene che la vita è più o meno sogno, anche se questo “sognare” è innato, costituendo quindi la nostra unica “realtà”, se così la possiamo chiamare. Riprendeva e razionalizzava quanto ci aveva raccontato un secolo prima il grande Calderon de la Barca.

E siamo così arrivati, uscendo dal mondo dei miti e delle religioni, ad ascoltare la voce dei filosofi, ben agguerriti nell’interrogarsi sull’attendibilità che dobbiamo dare ai sensi.

Ecco allora il genietto maleducato di Cartesio, quello che si divertiva a ingannarci ogni volta che provavamo a conoscere qualcosa; e poi Berkley, che si chiede perché un albero continui ad esistere anche se nessuno lo sta a guardare, Hume che arriva a dubitare che gli oggetti ci siano veramente.

E  Kant? Beh, quello è il vero inventore degli occhialini tridimensionali, nel senso che si chiede in che misura la percezione degli oggetti come dovrebbero essere in natura viene modificata dai nostri organi deputati alla ricezione.

L’altro tedesco Fichte, poi, si inventa la scoperta più esaltante del secolo: alles was ist, ist Ich! tutto ciò che esiste è “io”, il resto è una specie di telenovela più o meno interessante che il nostro io-regista-operatore si proietta davanti al naso, per evitare di annoiarsi e dare un senso alla sua esistenza; dal che si deduce che il vero inventore della realtà virtuale potrebbe essere quel filosofo tedesco un po’ guerrafondaio.

Dalla caverna alla realtà virtuale

Tornando ai filosofi greci, tutti conoscono il mito platonico della caverna, con gli uomini incatenati che potevano guardare solo le ombre proiettate da un fuoco, ignorando che a crearle erano le esseri in carne ed ossa che ci passavano davanti. Ebbene, nel Novecento il mito della caverna è divenuto una metafora che simboleggia quanto i mass media influenzino e dominino l’opinione pubblica, interponendosi tra l’individuo e la notizia, e manipolando quest’ultima secondo necessità.

Ma anche l’idea di un mondo completamente falso, che nasconde la verità di quello che succede realmente, è diventato un tema letterario e cinematografico: pensiamo al film The Truman Show, in cui il protagonista crede di vivere in una tranquilla cittadina americana; è abituato a considerare “reali” i suoi amici, il suo lavoro, il suo paese, la sua fidanzata. In realtà egli vive, fin dalla nascita, in un reality show televisivo, un Grande Fratello di cui è l’unico inconsapevole protagonista e le persone con le quali ogni giorno si rapporta sono semplicemente le comparse di un programma.

Un altro esempio si trova nella trilogia Matrix, in cui la nostra razza è controllata e sfruttata dalle macchine, che fanno credere agli umani di vivere liberamente nel mondo del XX secolo, mentre in realtà li tengono imprigionati, “coltivandoli” per trarne l’energia necessaria alla loro sopravvivenza meccanica; la gente vive senza accorgersi minimamente della realtà perché vive collegata a un sistema informatico, chiamato appunto Matrix, che invia impulsi elettrici al cervello, convincendo uomini e donne di abitare in un mondo che, in realtà, non esiste più da centinaia di anni. Spetterà all’Eroe liberarsi dall’illusione biochimica e, con l’aiuto dei ribelli, ritornare nel sistema per tentare di liberare la razza umana dal controllo delle macchine.

Il bello è che, anche messi di fronte alla tragica ma vera realtà delle cose, non tutti gli uomini sono disposti ad abbandonare la loro “prigionia” virtuale, preferendo la tranquillità e la sicurezza della loro vita illusoria, un po’ come gli eroi dell’Ariosto che, liberati dall’illusione che li imprigionava nel castello di Atlante, sembrano quasi rimpiangere la loro cattività dorata.

Sbrigossi de la donna il mago alora,

come fa spesso il tordo da la ragna;

e con lui sparve il suo castello a un’ora,

e lasciò in libertà quella compagna.

Le donne e i cavallier si trovar fuora

de le superbe stanze alla campagna:

e furon di lor molte a chi ne dolse;

che tal franchezza un gran piacer lor tolse.

Ma in genere il mondo dell’Ariosto è tutto dominato dalla dialettica illusione/realtà, che si incarna in luoghi fantastici come il secondo Palazzo di Atlante, in cui ogni cavaliere credeva di vedere l’oggetto del suo desiderio, e quando iniziava a dubitare che ci fosse, questo riappariva magicamente allettandolo e rassicurandolo nel suo inganno. Il risultato era che nessuno riusciva più ad allontanarsene: una bella metafora dell’illusione, che ci attacca allo spettacolo di quello che vediamo e, benché siamo persuasi che non è reale, non riusciamo a staccarcene.

A messer Ludovico sarebbero piaciute le soap operas, immagino. Ma anche le persone non sono sempre quello che appaiono:

così Ruggier, poi che Melissa fecech’a riveder se ne tornò la fatacon quell’annello inanzi a cui non lece,quando s’ha in dito, usare opra incantata,ritruova, contra ogni sua stima, invecede la bella, che dianzi avea lasciata,donna sì laida, che la terra tuttané la più vecchia avea né la più brutta.

Pallido, crespo e macilente aveaAlcina il viso, il crin raro e canuto,sua statura a sei palmi non giungea:ogni dente di bocca era caduto;che più d’Ecuba e più de la Cumea,ed avea più d’ogn’altra mai vivuto.Ma sì l’arti usa al nostro tempo ignote,che bella e giovanetta parer puote.

Insomma, il povero Ruggero si era invaghito di una laida vecchiaccia che, a forza di magia, si spacciava per una ragazzina, illudendo i suoi sensi, ma senza poter sfuggire all’implacabile azione dell’anello magico. Chissà cosa avrebbe detto l’Ariosto della computer-grafica, che permette di togliere rughe, cellulite, lisciare la pelle, aggiungere abbronzatura, rassodare o assottigliare le forme.

Ma anche nel mondo del Tasso, questa dicotomia dell’essere e dell’apparire diventa metafora della capacità dell’uomo saggio e coraggioso di non lasciarsi vincere dall’inganno “virtuale”: Rinaldo vince la selva di Saron rendendosi conto che tutto quello che vede non esiste. Di lì la conclusione:

     poscia sorride, e fra sé dice: “Oh vane

     sembianze! e folle chi per voi rimane!”

Insomma, l’apparenza si può presentare con le caratteristiche della realtà, al punto tale da insinuare in noi il dubbio di quale sia questa “verità”.

Streghe e assassini

Un dubbio del genere lo ebbero gli inquisitori del medioevo, avendo a che fare con le streghe: che queste donne fossero spesso in combutta con le forze del Male era abbastanza pacifico, ma quando, sotto interrogatorio, confessavano di aver volato in groppa ad una scopa, l’avevano fatto realmente o era solo inganno diabolico? A onore dei giudici di allora, va detto che, a differenza del “moderno” XVII secolo, questi uomini del buio medioevo optavano per la seconda ipotesi: macché poteri magici, dicevano convinti, erano solo povere illuse, pienamente immerse in una specie di realtà virtuale di voli radenti tra i comignoli della case e balli sfrenati nelle radure tra i boschi, eventi che però avvenivano solo nella loro mente bacata.

Tutto un altro problema, molto più complesso, era quello dell’alterazione dei sensi della persona ottenuto con l’ausilio di allucinogeni, soprattutto se lo si combinava con la creazione di un ambiente “virtuale”. Era il caso del celebre Vecchio della Montagna, un principe musulmano che drogava le persone e le trasportava in un giardino meraviglioso, convincendole che erano morte; dopo di che, le faceva resuscitare nel mondo dei “vivi”, promettendo che le avrebbe riportate nel suo (falso) paradiso, se fossero riuscite nell’impresa di uccidere un suo nemico personale o se fossero morte nel tentativo. Una perfetta combinazione di piccolo mondo artificiale (l’improbabile giardino in mezzo alle aspre montagne) e di hashish, tanto che la setta venne denominata degli “assassini”, e il nome rimase come sinonimo di sicario.

A proposito di ambienti ricreati a scopo terapeutico, in uno dei romanzi di Salgari, credo si tratti di Alla conquista di un impero, per far recuperare la ragione alla povera Sarah Corishant, traumatizzata dalla morte del padre ad opera dei fanatici thugs, Yanez organizza una scena che riproduce gli eventi che l’avevano sconvolta, con ambienti e “attori”, determinando un benefico choc nella giovane fidanzata di Tremal-Naik.

E ricordo un film piuttosto intrigante, ma anche qui avrei bisogno di una mano per ritrovare il titolo, in cui dei medici tedeschi organizzavano un ospedale per i militari vittime di trauma bellico, nel quale si convincevano i ricoverati che la guerra era finita e il Nazismo con essa. Ovviamente, i nazisti cattivi lo utilizzavano per ospitarvi le spie alleate che, persuase di essere rimaste in coma per anni, si lasciano andare a pericolose confidenze.

Fino a qui, siamo però di fronte a speculazioni filosofiche, fantasie letterarie, al massimo mediocri rappresentazioni teatrali, ma la rivoluzione vera avviene soltanto con la realtà virtuale. Già negli anni cinquanta, per la verità, erano stati avviati esperimenti di cinema “realistico”, che coinvolgeva tutti i sensi, creando il cosiddetto Sensorama, ma la novità, quella vera, deve aspettare l’arrivo e il perfezionamento del computer: è in questo ambito che viene coniata l’espressione virtual reality, nel 1989 ad opera di Jaron Lanier, a definire un ambiente costruito intorno all’utente, che vi si trova immerso grazie ad alcune periferiche: il visore, di solito un casco o degli occhiali, in cui gli schermi vicini agli occhi annullano il mondo reale dalla visuale dell’utente, auricolari, guanti, magari una cyber-tuta che avvolge il corpo.

Aggeggi del genere sono già oggi utilizzati, sia a scopo di divertimento, sia per la preparazione ad attività rischiose o costose, come i simulatori dei piloti; a questo livello, però, per la mente umana è ancora piuttosto semplice stabilire la differenza tra l’esperienza in un ambiente reale e in uno virtuale, sia per la qualità non ancora perfetta delle immagini, sia per la difficoltà nello sfruttamento degli altri sensi, udito a parte; ma in un futuro, forse nemmeno troppo lontano, sarà possibile collegare le periferiche direttamente al cervello dell’utente, e allora se ne vedranno delle belle.

Uccidimi perché non esisto

Qual è il rapporto fra questa realtà e la verità-vera?

Immaginiamo di osservare uno sciame di api con un buon binocolo o, se siamo coraggiosi, di avvicinarci cautamente all’alveare: oltre a vedere le piccole amiche intente al lavoro, possiamo sentire il ronzio, l’odore della cera e del nascente miele, cogliere certi particolari che, a distanza di sicurezza, non riusciremmo a distinguere. Bene, nessuno dubiterà che questa percezione è reale, mentre quella di un documentario televisivo non lo è. Giusto?

Mica tanto. In primo luogo, se proprio vogliamo, quello che percepisce “naturalmente” il nostro occhio è pur sempre una combinazione di radiazioni elettromagnetiche, del tutto simile a quelle dello schermo di un computer, che però potrebbe fornirci ulteriori particolari inediti: i suoni che l’orecchio non sente, dettagli che ad occhio nudo non si colgono, ingrandimenti, effetti all’infrarosso… E allora, torniamo a chiederci: quale delle due visioni è più reale? Difficile rispondere.

Provvisoriamente, potremmo accontentarci di affermare che, nell’insieme delle esperienze che il nostro cervello si costruisce e immagazzina, una parte ce l’ha anche quella che noi chiamiamo Realtà vera, ma appunto solo una parte, forse nemmeno la più significativa: se sommiamo sogni, programmi TV, elaborazioni della nostra fantasia, il contributo che dà la realtà alla biblioteca che abbiamo in testa non è nemmeno il più significativo.   

La scoperta della realtà virtuale, ha sollecitato la fantasia di scrittori e sceneggiatori, che hanno immaginato avventure nel cosiddetto cyberspazio, teatro delle lotte fra gli elementi umani che entrano a farvi parte e le simulazioni che vengono create. Uno dei primi film ad occuparsene è stato Tron del 1982, di Steven Lisberger; abbiamo citato Matrix, del 1999, ma sette anni prima era apparso  l’inquietante Il tagliaerbe, e nel  1997 Nirvana, diretto da Gabriele Salvatores, giocato sul tema del personaggio virtuale che, resosi conto della sua non-esistenza nel mondo reale, dato che è solo il protagonista di un videogioco, chiede al suo creatore di essere “ucciso”.

Nel 1995 esce Strange Days (Strange Days, la realtà virtuale è una droga) il film prodotto e scritto da James Cameron, in cui grazie ad opportune droghe e ad un particolare congegno, vengono registrate dalla corteccia cerebrale delle persone che vivono una esperienza particolare (violenza, stupro, rapina, ecc.) tutte le sensazioni, emozioni, suoni e trasferite poi dentro un minidisk, di cui possono servirsi altre persone.

Ovviamente, se fosse possibile registrare tutte le esperienze di una persona nell’arco della sua vita e trasferirle su un supporto adatto, la persona in pratica non morirebbe mai, anche quando il suo corpo fosse andato in disfacimento. Nel terribile racconto New Hope for the Dead (Nuove speranze per i morti) di David Langford, a causa di una crisi dei fondi pensione, un personaggio viene richiamato dal suo paradiso virtuale, dove si sta divertendo come un pazzo anche se è morto da anni, e per continuare a sopravvivere nel cyberspazio, dovrà inventarsi un lavoro part-time, anzi post-mortem. Come a dire: virtuale o reale, la fregatura è sempre dietro l’angolo…

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