The Last Of Us: amare la serie senza aver mai provato il gioco

Si può amare The Last Of Us senza aver provato il gioco? La bellezza della serie HBO va oltre il fascino del videogioco

Avatar di Manuel Enrico

a cura di Manuel Enrico

Non ho mai giocato The Last of Us. Nel periodo in cui la trasposizione seriale del videogioco di Naughty Dog sta dominando le scene sembra una bestemmia, eppure mi son ritrovato a scoprire per la prima volta la struggente storia di Joel e Ellie vedendoli con i volti di Pedro Pascal e Bella Ramsey. Una confessione a cui molti amici e colleghi hanno reagito con stupore, consolandomi dicendomi che finalmente avrei conosciuto una storia appassionante, anche se spesso le frasi finivano con ‘però il videogioco…’. E qui inizia quel dubbio serpeggiante, la paura di non riuscire ad apprezzare pienamente la nuova produzione di HBO perché pariah videoludico totalmente digiuno dell’ambientazione. Ma poi, arriva la puntata della serie, si viene gettati in questo mondo futuro, si combatte con questi due sopravvissuti e alla fine posso dirlo serenamente: pur non avendo mai giocato The Last of Us, si può amare visceralmente la serie.

Dal mio punto di vista, non avere mai guidato Joel in un mondo di pixel è stato un valore aggiunto. Da quando un miliardario, playboy, filantropo è uscito da una grotta indossando un’armatura di fortuna, ho vissuto la crescita del Marvel Cinematic Universe con un costante misto di aspettative e timori di vedere delusi i concept originali delle controparti fumettistiche. Anni di fumetti, di immagini sedimentate nella memoria che vengono messi a dura prova da una nuova caratterizzazione nata per il grande schermo, che si è presa giuste (facile dirlo ora!) libertà, ma nei primi tempi del MCU le uscite dal cinema erano caratterizzate dalla ricerca non tanto degli easter egg, ma di quelli che si percepivano come errori, o peggio, tradimenti alla lore della Casa delle Idee.

Si può amare The Last Of Us senza aver provato il gioco?

E non affrontiamo il discorso sulle notizie, le indiscrezioni e i rumor che anticipavano le uscite, tra casting criticabili e storie riadattate per le esigenze della banda Feige. Non facile, non tanto per il sottoscritto, quanto per gli amici che si son subiti pistolotti sul perché e il perché come fosse sbagliato il Mandarino o perché Civil War tradisce il fumetto. Ecco, approcciarmi a The Last of Us mi ha messo per la prima volta dall’altra parte della barricata, e mi sono goduto con un certo distacco questa esperienza.

Soprattutto, mi ha aiutato a comprendere meglio come spesso siamo preventivamente critici, incapaci di lasciare libere le storie di vivere una propria evoluzione, ancorandole a un possesso malato che le avvelena, anziché valorizzarle. Nei mesi precedenti all’uscita di The Last of Us ho visto il web scatenarsi, non solo mostrando quando il videogioco di Naughty Dog sia stato epocale (si parla di un titolo del 2014), ma anche come spesso ci si accanisca con una spietata ferocia su prodotti anche work in progress. Da conoscitore occasionale di The Last of Us, non ho mai compreso l’astio con cui è stata Bella Ramsey, mi mancavano i riferimenti per comprendere come la storia si sarebbe sviluppata, lasciandomi la genuina curiosità per una serie televisiva, sensazione che dopo anni di bulimica sovrapproduzione marveliana e starwarsiana mi mancava enormemente.

E questa mia completa ignoranza mi ha consentito di vivere con un’intensità travolgente The Last Of Us. Non si tratta solamente di una condivisione collettiva di un’esperienza a lungo attesa, ma parlo di come dialoghi taglienti, recitazione impeccabile e creazione di un ambiente straziante e credibile. Vivendolo come semplice spettatore in cerca di un’avventura diversa e appagante, The Last of Us mi incuriosiva perché inizialmente temevo mi sarebbe sembrata l’ennesima variazione sul tema del mondo post-epidemico (The Walking Dead docet), ma sin dal primo istante si percepisce come siamo davanti a una serie che è stata minuziosamente curata. Sicuramente la presenza del creatore del gioco, Neil Druckman, come sceneggiatore ha aiutato a preservare quanto di meglio ci fosse nel gioco, ma per me neofita del mondo di Joel e Ellie ogni singolo passaggio, ogni scorcio di urbana devastazione o la nascita stessa dell’epidemia del Cordyceps è sembrato reale, possibile. Soprattutto, mi sono sentito parte di questo mondo, ne ho vissuto le sofferenze, ho sofferto e pianto con Ellie e Joel mentre li accompagnavo in questo viaggio nel mondo dopo la fine del mondo.

The Last of Us si può amare anche non avendo la minima conoscenza del gioco, diciamolo a gran voce. Sembrerà pretestuoso, ma in questo avvio di anno in cui sono uscite altre serie decisamente interessanti (come Shrinking o Hello, Tomorrow), ho la sensazione che difficilmente vedremo sul piccolo schermo una storia che sappia appassionare, coinvolgere e straziarci l’anima come The Last of Us. Sfido chiunque a rimanere insensibile ai dialoghi tra Ellie e Joel, alle vicissitudini di queste due anime perdute che ritrovano nella loro odissea una nuova scintilla vitale, passando da sofferenze indicibili eppure andando avanti, mossi prima da uno scopo e in un secondo momento dalla mera appartenenza l’un l’altro.

The Last of Us è più di una trasposizione dell'omonimo videogioco

The Last of Us non è una serie di fantascienza, non è un horror o una semplice trasposizione di un famoso videogioco, è una storia universale che parla all’animo, che fa propria la lezione di McCarthy nel dipingere un’umanità ferina alle porte dell’inferno, preservando al contempo una scintilla di umana pietas, fatta di piccoli gesti e lacrime condivise.

Una crescita emotiva costante, spietata e inesorabile, fatta di momenti di spiazzante umanità intrecciati a sprazzi di spaventosa oscurità dell’animo umano. Un equilibrio narrativo perfetto, ritratto con una sensibilità impagabile, portando su schermo un mondo post-pandemico spezzato ma ancora vivo, autentico.

Anzi, concretamente sporco, come lo ha definito una delle più autorevoli voci italiana della critica videoludica, Fabrizia Malgieri. Questa sporcatura non è un difetto, è una ricerca di autenticità che rende The Last of Us un’ambientazione affascinante per tutti gli spettatori, lo eleva a fotografia di una possibile mondo ‘after’, in cui assistere alla manifestazione di una disperazione capace di fagocitare ogni senso di umana comprensione ma anche di elevare le poche anime pure rimaste a simboli, icone di una sensibilità soffocata dal dolore ma in cerca di una boccata di ossigeno per tornare a vivere.

The Last of Us è un’esperienza emotiva pura, autentica, autonoma. Non servono conoscenze pregresse, se non per il gusto di dare la caccia agli easter egg, è sufficiente lasciare piena libertà alla storia di avvolgerci, seguendo queste due anime nel loro viaggio alla ricerca di una speranza, scoprendo infine quanto la salvezza sia una spesso una scelta. E ora, lo confesso, pensare di recuperare l’opera di Naughty Dog mi spaventa: e se non riuscisse a emozionarmi come la serie? Nel dubbio, faccio un bel sospiro, accendo la mia console e torno on the road con Ellie e Joel.