Gli Stati Uniti hanno compiuto un passo decisivo entrando nel capitale di Intel, con l'acquisizione di una quota del 9,9% del valore totale dell'azienda. Ma perché Washington ha compiuto questa mossa? Quali saranno le conseguenze per l'azienda e per il mercato? Cerchiamo di capire meglio le ragioni e la portata di questa operazione.
I dettagli dell'operazione
Per chi avesse perso i passaggi fondamentali, ecco il contesto. Pochi giorni fa, il governo degli Stati Uniti ha acquisito una partecipazione del 9,9% in Intel. L'investimento di Washington ammonta a circa 8,9 miliardi di dollari, attraverso la sottoscrizione di 433,3 milioni di azioni ordinarie a un prezzo unitario di 20,47 dollari. A queste condizioni, il Tesoro USA diventa di fatto il primo azionista singolo di Intel.
Accanto a questa sottoscrizione, è stato concesso anche un warrant quinquennale, ovvero un diritto (non un obbligo) di acquistare ulteriori azioni a un prezzo prestabilito. Nello specifico, il warrant permetterà al governo di salire di un altro 5% nel capitale, pagando 20 dollari per azione. Tuttavia, questo diritto potrà essere esercitato solo nel caso in cui Intel riduca la propria partecipazione nella divisione Foundry al di sotto della soglia del 51%.
Questa clausola rappresenta la chiave industriale dell’operazione: significa che lo Stato americano vuole assicurarsi che la catena produttiva dei chip resti sotto controllo nazionale, evitando spin-off o cessioni eccessive a partner stranieri.
C’è però un punto altrettanto cruciale: la partecipazione è definita “passiva”. Ciò significa che il governo non avrà un posto nel Consiglio di Amministrazione, non eserciterà poteri di veto e non avrà accesso privilegiato a informazioni strategiche. Tecnicamente, secondo le regole della SEC (la Securities and Exchange Commission), un azionista che si ferma sotto il 10% è considerato un investitore senza poteri di controllo. Oltre quella soglia, scatterebbero obblighi di dichiarazione più stringenti e, in alcuni casi, valutazioni antitrust.
L'effetto sul mercato è duplice. Da un lato, l'emissione di 433 milioni di nuovi titoli su un totale di circa 4,3 miliardi di azioni in circolazione rappresenta un aumento del 10%, diluendo la quota di ogni azionista precedente. Dall'altro, questa diluizione è compensata dall'ingresso di capitale fresco, destinato a finanziare investimenti industriali cruciali: nuove fabbriche, linee di produzione per nodi avanzati, ricerca su intelligenza artificiale e packaging 3D. In altre parole, chi già deteneva azioni possiederà una percentuale minore di un'impresa però più capitalizzata e, nelle intenzioni, più forte.
L’operazione si lega direttamente al CHIPS and Science Act, la legge varata nel 2022 per riportare negli Stati Uniti parte della produzione di semiconduttori. Quel provvedimento aveva messo sul piatto 52 miliardi di dollari in sussidi, crediti d’imposta e prestiti agevolati. La novità è che, con Intel, una parte di quei fondi non si traduce in semplici sovvenzioni o prestiti, ma diventa capitale di rischio. È una scelta che cambia completamente la logica, perché da un lato vincola il futuro dell’azienda all’interesse nazionale, dall’altro lega lo Stato alle fortune e alle sfortune di Intel. Se l’azienda andrà bene, gli USA potranno rivendere la quota con profitto; se andrà male, le perdite ricadranno anche sui contribuenti.
Dal punto di vista di Wall Street, il prezzo di sottoscrizione a 20,47 dollari è stato letto come un segnale. Da un lato, ha creato un "floor", una sorta di prezzo minimo psicologico, visto il livello a cui è entrato un azionista così importante. Dall’altro, ha alimentato dibattiti sul fatto che Intel abbia accettato un prezzo inferiore a quello di mercato dei giorni precedenti, un segnale della sua urgenza di incassare capitale. La reazione della Borsa è stata infatti altalenante: euforia iniziale per la stabilità garantita dallo Stato, ma anche timori per una possibile politicizzazione delle scelte aziendali.
La scelta strategica di Intel
La domanda sorge spontanea: perché proprio Intel? La risposta più ovvia, "perché è americana", si inserisce nella logica protezionistica degli USA, ma non è completa. Esistono altre aziende statunitensi di primo piano, come Qualcomm o Texas Instruments. Intel, però, ha qualcosa che la differenzia da tutte le altre, incluse AMD e NVIDIA.
Intel è una delle poche realtà IDM (Integrated Device Manufacturer) rimaste, cioè un'azienda integrata verticalmente che progetta, sviluppa e produce i propri chip. Quasi tutte le altre grandi aziende del settore sono fabless, ovvero progettano e sviluppano i chip ma affidano la produzione a terzi, come la taiwanese TSMC o la sudcoreana Samsung.
Questo modello integrato, che per anni è stato il cuore del dominio di Intel, si è recentemente trasformato in un fardello, soprattutto quando l'azienda ha perso terreno sui nodi produttivi più avanzati (7, 5 e 3 nanometri) rispetto a TSMC.
Tuttavia, è proprio questo doppio ruolo a renderla imprescindibile dal punto di vista strategico. Gli Stati Uniti non possono permettersi di dipendere da TSMC, situata in un'area ad alto rischio geopolitico come Taiwan. Allo stesso modo, Samsung, pur avendo impianti in Texas, resta un attore estero con il suo centro nevralgico in Corea del Sud.
Intel rappresenta l'unica piattaforma americana con il potenziale di riportare in casa non solo la progettazione, ma anche la produzione avanzata. Qui entra in gioco il tema della sovranità tecnologica. Avere una Intel forte significa per gli USA poter contare su un player domestico in grado di garantire che le produzioni più critiche — dai chip per l'intelligenza artificiale alle CPU per la difesa — restino su suolo americano. Non a caso, il warrant è vincolato al mantenimento del controllo sulla divisione foundry: è un sigillo per impedire la cessione di un asset strategico.
Oggi Intel non è leader nella produzione avanzata; TSMC e Samsung sono più avanti. L'azienda ha accumulato ritardi, ma con questi nuovi capitali promette di recuperare terreno. Se dovesse riuscirci, tornerebbe protagonista in un settore multimiliardario.
Infine, Intel non è un’azienda qualsiasi: è un simbolo della Silicon Valley, fondata nel 1968 e protagonista della rivoluzione dei microprocessori. Lasciarla soccombere alla concorrenza non rappresenterebbe solo un disastro industriale, ma anche un colpo simbolico devastante per l'innovazione americana.
Governance e influenza: cosa cambia davvero
Quando un governo diventa azionista di un'azienda, la prima domanda riguarda i poteri che può esercitare. Con una quota del 9,9%, la risposta sta nei meccanismi della normativa americana e nei limiti dell'accordo. Rimanendo appena sotto la soglia del 10% fissata dalla SEC, il governo si posiziona come un investitore con un enorme peso simbolico ma formalmente "passivo". Sulla carta, quindi, non avrà un posto nel CdA né accesso a informazioni riservate.
La realtà, però, è più sfumata. Un azionista di queste dimensioni, specialmente se si tratta dello Stato, esercita una forma di pressione "soft" che va oltre i numeri. L'influenza di Washington passa attraverso altre leve: contratti pubblici, agevolazioni fiscali, licenze di export e regolamentazioni. La partecipazione azionaria rende questa relazione ancora più stretta.
Il warrant quinquennale, inoltre, agisce come una sorta di "golden share" implicita: se Intel tentasse di cedere il controllo delle sue fabbriche, lo Stato potrebbe rafforzare la sua quota per difendere la proprietà nazionale.
Insomma, sulla carta le regole del gioco non cambiano, ma la dinamica è profondamente modificata. La situazione è paragonabile a un arbitro che indossa la maglietta di una delle due squadre: ufficialmente non gioca, ma la sua sola presenza in campo condiziona ogni movimento.
I precedenti storici: dai salvataggi alla politica industriale
La storia offre diversi esempi di interventi statali. Nel 2009, durante la crisi finanziaria, il Tesoro americano salvò General Motors acquisendo il 60,8% per evitare il collasso dell'industria automotive. Interventi simili furono fatti per il colosso assicurativo AIG e per CitiGroup, in una logica "too big to fail". Anche in Europa si sono visti casi simili, come il salvataggio di Lufthansa da parte del governo tedesco durante la pandemia o la nazionalizzazione completa di EDF in Francia, considerata strategica.
Tuttavia, il caso di Intel è diverso. L'azienda non è sull'orlo del fallimento e non necessita di un salvataggio. L'ingresso dello Stato non è motivato da una crisi sistemica, ma da un disegno di politica industriale: garantire che gli Stati Uniti non perdano la capacità di produrre chip avanzati sul proprio territorio.
Pro e contro dell'operazione
L'operazione attuata dall'amministrazione Trump presenta evidenti vantaggi e altrettanti rischi. Da un lato, l'iniezione di capitale fresco offre a Intel le risorse necessarie per finanziare la sua complessa roadmap tecnologica, aumentando al contempo la sua credibilità verso clienti e partner. L'intervento garantisce inoltre la sicurezza nazionale, mantenendo una parte critica della catena di approvvigionamento dei chip sul suolo americano, con un potenziale guadagno futuro per i contribuenti in caso di successo.
D'altra parte, esiste il concreto pericolo di una politicizzazione del business, in cui le decisioni potrebbero privilegiare obiettivi politici anziché l'efficienza di mercato. Inoltre, il ruolo formalmente "passivo" dello Stato potrebbe tradursi in un'influenza indiretta e poco trasparente, e resta il dubbio fondamentale che il solo capitale possa non bastare a risolvere i ritardi tecnologici strutturali che affliggono l'azienda.