Prima che il Compact Disc arrivasse a cambiare tutto, la musica si ascoltava solo in due modi: su vinile o su musicassetta. Entrambi analogici, entrambi limitati, entrambi, in modi diversi, poco duraturi.
Il disco in vinile funzionava secondo un principio tanto semplice quanto geniale: un solco inciso sulla superficie del disco veniva letto da una puntina, che ne traduceva le variazioni fisiche in un segnale elettrico. La musicassetta, invece, sfruttava un nastro magnetico: un sottile nastro di plastica rivestito da materiale ferromagnetico che registrava le variazioni di campo prodotte dal suono. Il vantaggio era la portabilità e la possibilità di registrare in casa, ma la qualità audio lasciava a desiderare: fruscio costante, distorsione nei bassi, degrado progressivo e una durata limitata.
Il fenomeno del “nastro arrotolato” era un classico di quegli anni: chi li ha vissuti ricorda bene le matite e le penne BIC usate per riavvolgere manualmente le cassette. Anche la gestione delle tracce era un problema: sul vinile bisognava spostare la puntina a mano, sulla cassetta si avanzava o si tornava indietro “a orecchio”.
Da queste limitazioni nacque l’esigenza di una rivoluzione digitale: un formato capace di garantire qualità costante, durata nel tempo, accesso diretto alle tracce e dimensioni ridotte.
È da qui che inizia la storia del Compact Disc.
L’alleanza Sony-Philips e la nascita dello standard digitale
Alla fine degli anni Settanta, le tecnologie digitali stavano iniziando a espandersi in diversi settori: telecomunicazioni, calcolo elettronico, strumenti musicali. L’audio, però, restava ancorato all’analogico.
Nel 1974, Philips iniziò a lavorare su un disco ottico per l’audio digitale, chiamato “Audio Long Play Disc”: un vinile digitale leggibile con un raggio laser. Il prototipo era grande 30 centimetri e conteneva solo 60 minuti di musica, ma risultava troppo ingombrante per un uso quotidiano. Nel frattempo, Sony in Giappone seguiva una strada parallela, puntando su miniaturizzazione, compressione senza perdita di qualità e massima precisione nella lettura digitale.
Nel 1979 le due aziende unirono le forze per creare uno standard unico e universale: nacque così il Compact Disc Digital Audio (CD-DA), il cui standard fu formalizzato nel 1980 nel celebre Red Book, la “bibbia” del formato digitale. Le specifiche tecniche del Compact Disc erano le seguenti:
- Diametro: 120 mm
- Spessore: 1,2 mm
- Durata massima: 74 minuti
- Capacità dati: 650 MB
- Codifica audio: PCM lineare
- Frequenza di campionamento: 44,1 kHz
- Risoluzione: 16 bit
- Canali: 2 (stereo)
La frequenza di 44,1 kHz fu scelta per rappresentare tutte le frequenze udibili dall’orecchio umano (20 Hz – 20 kHz), in linea con il teorema di Nyquist: per riprodurre fedelmente un segnale, serve campionarlo almeno al doppio della sua frequenza massima. La cifra fu arrotondata per garantire compatibilità con i registratori video professionali dell’epoca, basati sugli standard NTSC e PAL.
Anche la risoluzione di 16 bit rappresentava un compromesso ideale: offriva un rapporto segnale/rumore teorico di 96 dB, superiore a qualunque formato consumer del tempo.
Quanto ai 74 minuti di durata, la leggenda vuole che Norio Ohga, dirigente Sony, volesse un disco capace di contenere l’intera Nona Sinfonia di Beethoven. Secondo altre fonti, invece, la scelta fu più pragmatica: aumentando il diametro del disco da 115 a 120 mm, gli ingegneri di Philips ottennero una capacità massima di 74 minuti e 33 secondi.
Infine, la scelta del laser a infrarossi da 780 nm fu cruciale per ridurre i costi di produzione. Sul CD, i dati non erano solchi ma minuscoli avvallamenti letti dal laser e convertiti in sequenze binarie. Il segnale veniva poi trasformato in audio analogico da un convertitore DAC.
Un avanzato sistema di correzione degli errori permetteva al disco di funzionare anche in presenza di graffi o polvere: da qui nacque la fama del CD come supporto “indistruttibile”.
Il debutto ufficiale: il primo lettore e il primo album
Dopo quasi dieci anni di sviluppo, il 1° ottobre 1982 Sony lanciò in Giappone il Sony CDP-101, ovvero il primo lettore di Compact Disc della storia. Il nome non era casuale: “101”, ovvero un breve codice binario, rappresentava infatti quella che era la natura digitale del segnale audio del disco, identificando il nuovo formato come qualcosa di tecnologico e distante dai supporti analogici precedenti.
Ora che lo standard era creato, ed era stato creato anche un lettore per permetterne la lettura, quello che servica era, per l'appunto, un "disco" da leggere. Un album, che potesse essere messo in commercio sul nuovo formato, e il primo album ad essere inciso fu 52nd Street di Billy Joel, che in realtà non era al suo debutto sul mercato, ma che fu scelto per le sue sonorità moderne e contemporanee, ed anche per l'ottima qualità con cui era stato registrato, ideale per mettere in bella mostra le potenzialità del nuovo formato digitale.
Al netto di questo, va detto che il primo CD in assoluto mai inciso, fu una registrazione test del Trio for Violin, Cello and Piano di Richard Strauss, usata da Sony nel 1979 come test interno per la masterizzazione, e per puro scopo dimostrativo.
In questa prima fase, Sony e Philips lanciarono sul mercato una prima collezione composta da circa 50 titoli che includeva artisti dell'epoca come ABBA, The Police, Pink Floyd e Herbie Hancock.
Considerando l'epoca, il lettore CDP-101 era un gioiello tecnologico: integrava un laser a infrarossi da 780 nanometri per leggere la traccia, un sistema di decodifica IFM e di correzione degli errori, un DAC integrato a 16 bit, che trasforma tutto il nostro flusso digitale in un segnale audio analogico che veniva inviato all'amplificatore e poi agli altoparlanti. Dal punto di vista estetico, invece, non appariva come un prodotto entusiasmante. Si trattava sostanzialmente di blocco grigio con un display LED verde, e un vassoio estraibile motorizzato.
I tasti frontali erano pochi, non c'era nessuna uscita digitale, solo RCA stereo analogiche, ed aveva un prezzo che era fuori scala per l'epoca, ben 1000 dollari, il che lo collocava come un lusso per pochi, se non pochissimi acquirenti. Tant'è che, all'inizio, venne percepito come un prodotto per meri audiofili, ma chi lo provava rimaneva stupito dalla qualità del suono, specie considerando che i supporti precedenti, come dischi e cassette magnetiche, avevano sempre un qualche rumore di fondo, che sporcava la traccia. Con i CD, invece, le tracce erano pulite, le tracce non "saltavano" e c'era persino la possibilità di selezionare canzoni specifiche.
Tant'è che, nel giro di pochi anni, con il calo dei prezzi, altri produttori entrarono nel mercato e il CD cominciò a diffondersi su scala mondiale, e nel 1985, ovvero ad appena tre anni dopo il debutto della nuova tecnologia, si erano già venduti oltre 25 milioni di dischi.
Gli anni ’80 e ’90: la rivoluzione digitale
Per l’utente medio degli anni ’80, passare da una musicassetta a un CD significava fare un balzo tecnologico impressionante. Anzitutto, il CD garantiva una gamma dinamica (l'intervallo tra il suono più debole e quello più forte all'interno di un brano musicale o di un segnale audio, misurato in decibel) di circa 96 dB, di molto superiore a quella delle musicassette. Inoltre la risposta in frequenza da 20 Hz a 20 kHz, coprendo così tutta la gamma dello spettro uditivo umano, e con una distorsione praticamente nulla.
Inoltre, un altro fattore chiave, fu quello dell'abbassamento progressivo dei prezzi. Se consideriamo i circa 1000 dollari dei primi modelli, dal prezzo decisamente proibitivo per i più, nel giro di 5 anni apparvero sul mercato anche lettori da poche centinaia di dollari, e da lì la progressiva integrazione in stereo compatti, autoradio, sino alla nascita dei primi dispositivi portatili. Un trend che fu inaugurato dalla stessa Sony, che debuttò nel 1984 con il leggendario Discman, portando l’ascolto digitale fuori casa.
Di pari passo, anche la produzione dei CD divenne più economica, e i dischi iniziarono a comparire ovunque: nei negozi, nei supermercati, persino allegati alle riviste. E qui le cifre parlano da sole: nel 1983 si vendono circa 800.000 CD a livello mondiale. Nel 1985 si superano già i 10 milioni, e dopo appena 3 anni, nel 1988, il formato supera le musicassette per la prima volta. A partire dal 1991, i CD superano poi anche i vinili, ed è qui che si impongono definitivamente, diventando il formato audio più venduto al mondo!
Il picco assoluto si raggiunge però nel 1996, con oltre 940 milioni di CD venduti in un solo anno! E qui non parliamo solo di album musicali, perché cominciarono a diffondersi anche i CD dei singoli, ovvero CD contenenti uno o due brani, utilizzati per la promozione radiofonica o per le anticipazioni discografiche.
L’evoluzione del formato
A metà anni ’90, con il successo dei CD in campo musicale, anche l'industria informatica comincia a farsi qualche domanda. Del resto, il CD può contenere fino a 650 MB di dati e, pertanto, può facilmente trovare un suo utilizzo anche nel mondo informatico.
Ed è su questa domanda che il CD riceverà un'ulteriore spinta verso la sua naturale evoluzione, con la nascita di un'intera famiglia di formati derivati che, ovviamente, avrà nel suo primo membro il CD-ROM (ovvero Compact Disc Read-Only Memory), sviluppato da Sony, Philips e Microsoft nel 1985: stesso formato fisico del CD audio, ma stavolta organizzato in file, e quindi leggibile dai computer.
Utilizzava il file system ISO 9660, un formato pensato per essere compatibile su diversi sistemi operativi, così da avere uno standard che potesse essere utilizzato su DOS e Windows, ma anche su Macintosh e UNIX, con dati erano organizzati in settori da 2048 byte, con correzione degli errori e una struttura simile a quella del CD audio, però ottimizzata per l'accesso randomico al ai dati. Fu una rivoluzione nel modello di distribuzione del software, basti pensare a programmi e videogame che, fino a qualche tempo prima, richiedevano anche decine di floppy per essere installati, e che con i CD richiedevano invece un unico disco, velocizzando così anche l'intero processo di installazione.
Ne nacque anche una nuova generazione di applicazioni, complice l'arrivo dei primi PC con multimediali, come ad esempio le famose enciclopedie interattive, i videogiochi narrativi o i tutorial multimediali.
Nel 1990 arrivò il CD-R, ovvero il compact disc "recordable", che permetteva all’utente di scrivere i propri dischi, creandoli da zero. Per la prima volta, dunque, un consumatore può produrre delle copie identiche a quelle dei cd originali. Il supporto CD-R funziona grazie a uno strato organico e fotosensibile che viene inciso da un laser a potenza elevata durante la fase di scrittura.
Il problema, qui, è solo il costo. Perché i primi masterizzatori arrivano sul mercato con prezzi elevati, ed anche la velocità di scrittura è un limite, essendo limitati a 1X o 2X, ma con l'avvento di Windows 95 e software come Nero Burning ROM, la masterizzazione domestica esplose, trasformando i CD-R nello standard per backup, compilation musical, archiviazione dei dati e, inevitabilmente, per la pirateria.
Nel 1997 arrivò il CD-RW, ovvero il compact disc riscrivibile fino a 1.000 volte. Un ulteriore passo avanti, possibile grazie ad un nuovo stato scrivibile, ora composto da un materiale a cambiamento di fase, ovvero capace di modificare la propria riflettività in base al colore del laser. Questo consente al disco di essere cancellato e riscritto, seppur con alcuni limiti, uno su tutti la compatibilità che, almeno agli inizi, era molto ridotta.
Anche velocità di scrittura e prezzo erano, almeno al tempo, dei limiti. La prima, infatti, era la più bassa in assoluto rispetto al resto dei dispositivi di scrittura, mentre il costo al lancio era decisamente elevato rispetto ai lettori standard.
Nello stesso periodo, in quella che possiamo considerare un'era pre-DVD, si diffonde anche il VCD, ovvero il Video CD, una variante pensata per contenere film o video digitali. In questo caso lo standard utilizzava una compressione MPEG-1 (352×288 pixel, con un bitrate di circa 1.150 kbps). Il risultato è una qualità simile a quella che si poteva avere con un le VHS, ma su di un formato completamente digitale, dunque senza usura e con la possibilità di integrare dei menù interattivi.
In Asia il formato ebbe un enorme successo, mentre in occidente rimase un formato di nicchia, frenato per lo più dalla scarsa qualità dell'immagine e dalla concorrenza emergente del DVD.
Il declino del Compact Disc
Per comprendere il declino del CD bisogna analizzare un fenomeno che non riguarda la qualità audio, tantomeno problemi produttivi o di usura. Insomma, il crollo del CD non fu causato da un limite tecnico, ma semmai da un problema culturale.
Con l’arrivo dell’MP3 e delle reti peer-to-peer, la musica smise di essere legata a un supporto fisico. In tal senso il CD cominciò a essere percepito come un ostacolo, più che un vantaggio, in quello che fu un cambiamento cardine, sviluppatosi tra l'inizio e la fine degli anni '90.
La nascita di formati compressi, come appunto l'MP3, e la diffusione dei dispositivi portatili, avviò un processo di distacco dal supporto fisico. Il formato MP3, nato nei primi anni ’90, permetteva di comprimere un brano da 40 MB a 4 MB senza una perdita eccessiva di qualità. Quando poi nel 1999 arrivò Napster, il primo servizio di file sharing musicale, a quel punto bastava una connessione per scaricare qualsiasi album o compilation gratuitamente, senza più il bisogno di dover trasferire la musica su di un supporto fisico.
Certo, Napster durò poco, e già nel 2001 la piattaforma venne chiusa, lasciando però spazio ad un'intera galassia di piattaforme simili, come eMule, Kazaa, LimeWire e BitTorrent. A consolidare questa trasformazione, come detto, ci furono poi i lettori MP3: dispositivi piccoli, portatili, senza parti meccaniche e dotati di memorie interne per immagazzinare la musica. Questi sono anche gli anni del lancio dell'iPod da parte di Apple, che consolidò la rivoluzione portatile.
E così, dopo l'anno 2000, quando il mercato dei CD aveva toccato il suo picco massimo con 2,5 miliardi di copie vendute, iniziò un declino inesorabile, al punto che nel 2005 il calo era già molto visibile, mentre nel 2010 il declino fu vertiginoso. Arrivati al 2020, il CD rappresenta meno del 5% del mercato discografico globale.
I CD oggi: tra collezionismo e sopravvivenza
Quando si parla di Compact Disc nel 2025 si è portati a pensare a un formato ormai obsoleto. In realtà non è del tutto così. Uno dei settori in cui il CD ha trovato una nuova vita è quello del collezionismo e dell’hi-fi per audiofili. Dopo il ritorno del vinile, anche il CD sta riscoprendo una sua dignità, non più come oggetto tecnologico portatore di vantaggi concreti, ma come bene da possedere e collezionare.
Un altro ambito in cui il CD non è scomparso è quello della distribuzione fisica nel mondo indipendente. Molti musicisti emergenti, che non hanno accesso ai canali digitali principali o che desiderano offrire qualcosa di tangibile durante i concerti, continuano a produrre e vendere dischi.
Per anni, inoltre, il CD è stato il formato principale per l’ascolto musicale in auto. Oggi le vetture di nuova generazione non includono più i lettori CD di serie, sostituiti da porte USB, Bluetooth, Android Auto e Apple CarPlay. Tuttavia, circolano ancora milioni di automobili che utilizzano il CD come principale supporto musicale.
Paradossalmente, uno dei motivi per cui il Compact Disc non è ancora del tutto scomparso è la sua semplicità: funziona senza internet, senza applicazioni, senza login, aggiornamenti o pubblicità. Nonostante ciò, resta un sopravvissuto destinato a un lento declino. Ma la sua eredità è profonda. Il CD ha introdotto nella vita quotidiana concetti come bitrate, frequenza di campionamento, DAC e riproduzione casuale dei brani: basi che hanno preparato il terreno per tutto ciò che è venuto dopo, dagli MP3 ai DVD.