Oltre la cronaca, la notizia vista da vicino

Un lungo reportage del NYT mette a nudo i retroscena sul perché Apple e i colossi della tecnologia hanno scelto la Cina per la produzione. Il costo del lavoro è solo una parte di un'equazione complessa, che svela le debolezze del sistema produttivo occidentale.

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a cura di Valerio Porcu

Senior Editor

Oltre la cronaca, la notizia vista da vicino

Quindi non è una questione di denaro, ma di competitività in generale? Così sembrerebbe, almeno a giudicare dal freddo e preciso testo dei due reporter del NYT, dalle affermazioni della stessa Apple, dalle statistiche sul numero d'ingegneri laureati, dal fatto che sul costo finale pesa più il costo dei macchinari che quello delle persone, e da tutti i fattori citati da Duhigg e Bradshers.

Sarebbe utile però fare un piccolo esercizio di riflessione, e andare un po' più in là della semplice cronaca, o dei racconti che arrivano dalle aziende coinvolte - perché è giusto chiedere all'oste se il vino è buono, ma poco saggio fidarsi ciecamente.

La manager Lina Lin non lavora per Apple, almeno non direttamente

C'è il ruolo dello stato. La Cina sarà sì un regime autoritario ma, dal punto di vista dei progetti per lo sviluppo del PIL ha un governo illuminato. Per l'Occidente competere è però impossibile: Pechino se lo può permettere, Washington probabilmente no. E anche se fosse ci sarebbe un problema di legalità perché si tratterebbe d'intervento pubblico nel settore privato: Obama può al massimo prestare, non certo regalare, Hu Jintao può fare praticamente quello che gli pare.

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Poi ci sono le condizioni di lavoro. Per Foxconn (uno dei principali fornitori di Apple e dell'industria tecnologia in generale) lavora un milione di persone. La maggior sono parte ingegneri, frutto di sistemi formativi e di una demografia con cui l'Occidente non può competere. A loro l'azienda offre condizioni lavorative migliori che nella maggior parte della Cina, ma che sarebbero illegali o quasi in Europa e negli Stati Uniti.

Forse il cuore della questione è che per un giovane cinese una laurea e un lavoro nella catena di produzione sono la migliore delle opzioni, mentre i "nostri" giovani non devono affrontare una pressione così grande - un discorso altrettanto complesso che chiama in causa altri argomenti.

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Forse però i nostri governanti potrebbero intervenire e fare in modo che i posti di lavoro possano "tornare a casa". Si tratterebbe di detassare, rinforzare la formazione di personale specializzato, importare i lavoratori che non si riescono a creare nazionalmente (leggi sull'immigrazione). Difficile prevedere gli effetti a lungo termine, però.

L'ultimo pensiero va al concetto di "ingegnere". Guardando ai numeri della Cina, e all'impiego che fa dei propri laureati viene il sospetto che si tratti di persone con una formazione molto specifica. Magari non ingegneri come li intendiamo noi, ma persone capaci di fare quello che gli si chiede, e formati in tempi relativamente brevi. Forse i "nostri" sono migliori (non è detto), ma di certo le università cinesi danno al mercato quello che serve. Anche questo è un discorso amplio e complesso, che tira in ballo tante voci e idee diverse, ma è doveroso prenderlo in considerazione.