Al di là delle complesse dinamiche politiche e commerciali legate alle terre rare e ad altri minerali strategici, è fondamentale comprendere il vero costo ambientale e sociale della nostra tecnologia. Cosa si cela dietro questa industria? Dove si trovano le terre rare, come vengono estratte e quali problemi generano per i territori, le popolazioni e la salute? In altre parole, qual è il prezzo della nostra tecnologia, e quale danno al pianeta e alle persone ha causato – e continua a causare – anche un semplice smartphone nel suo piccolo?
Queste informazioni sono il risultato di una ricerca approfondita. È importante sottolineare che non sono un chimico, quindi potrebbero esserci delle inesattezze nella terminologia specifica della produzione delle terre rare, ma il quadro generale non ne risentirà. Ogni integrazione o correzione è ben accetta.
Cosa sono le terre rare
Le terre rare costituiscono un gruppo di 17 elementi chimici, tra cui scandio, ittrio e i 15 lantanidi (dal lantanio al lutezio). Contrariamente a quanto il nome possa suggerire, questi elementi sono relativamente abbondanti nella crosta terrestre, ma la loro "rarità" deriva dalla difficoltà di trovarli concentrati in depositi economicamente sfruttabili e, soprattutto, dalla complessità dei processi estrattivi e di separazione. I 17 elementi sono spesso presenti in minerali insieme ad altri elementi chimici molto simili, rendendo estremamente complicato l'isolamento dei metalli rari nella loro forma pura.
Le applicazioni delle terre rare sono estremamente vaste e strategiche, spaziando dall'elettronica di consumo alla difesa avanzata. Il neodimio e il disprosio, ad esempio, sono cruciali per i magneti permanenti usati nei motori dei veicoli elettrici e nelle turbine eoliche; un'auto elettrica può richiedere fino a 5kg di terre rare, mentre una turbina eolica offshore ne necessita oltre 600kg. L'erbio amplifica i segnali nelle fibre ottiche, l'europio conferisce il colore rosso agli schermi LCD, e il cerio catalizza reazioni nei convertitori catalitici. Nel settore medico, il gadolinio è essenziale per gli agenti di contrasto nelle risonanze magnetiche, e il lantanio è impiegato nei catalizzatori per le raffinerie di petrolio. Lo scandio, uno degli elementi più rari del gruppo, è utilizzato nelle leghe di alluminio per l'industria aerospaziale, conferendo leggerezza e resistenza.
I dispositivi elettronici di uso quotidiano, come uno smartphone moderno, contengono in media almeno otto e fino a dieci differenti terre rare, impiegate ad esempio nei LED colorati (cerio, europio, terbio), nei motori che creano la vibrazione (neodimio) e negli altoparlanti (praseodimio). Questa onnipresenza rende le terre rare materiali altamente strategici per qualsiasi economia avanzata.
Dove si trovano nel mondo
Il mercato delle terre rare è dominato dalla Cina, che detiene il 70% della produzione globale e il 34% delle riserve note. Seguono il Vietnam (17%), e poi Brasile e Russia, entrambi con il 16% delle riserve. Il giacimento di Bayan Obo in Mongolia Interna da solo fornisce il 45% dell'offerta mondiale. Negli ultimi tempi, la Groenlandia e l'Africa stanno emergendo come nuovi fronti estrattivi.
Nonostante gli Stati Uniti posseggano riserve significative (14% della produzione mondiale), la mancanza di raffinerie li rende dipendenti dalle esportazioni cinesi. La Repubblica Democratica del Congo, con il 64% del cobalto globale, e il Madagascar, ricco di nichel, sono esempi emblematici di come il controllo di queste risorse alimenti dinamiche neocoloniali, basate su accordi commerciali tra nazioni piccole o deboli e le superpotenze mondiali. L'Europa, invece, può contare quasi esclusivamente sul giacimento di Kiruna in Svezia, affrontando numerose normative ambientali.
La provincia cinese di Jiangxi ospita il più grande deposito di terre rare pesanti al mondo, un sottogruppo dei 17 elementi chimici. L'Australia sta intensificando l'estrazione dal giacimento di Mount Weld, che contiene alcune delle concentrazioni più pure di lantanidi. Il Brasile, con il giacimento di Serra Verde nello stato del Goiás, rappresenta una delle riserve più promettenti al di fuori della Cina, con una concentrazione particolarmente elevata di neodimio. Recenti esplorazioni geologiche hanno rivelato depositi significativi anche nei fondali marini, specialmente nell'Oceano Pacifico, con concentrazioni che possono essere fino a dieci volte superiori a quelle delle miniere terrestri.
Come vengono estratte le terre rare
Nonostante la loro diffusione, il vero problema delle terre rare risiede nei processi di estrazione e raffinamento. L'estrazione tradizionale si articola solitamente in tre fasi: l'apertura di miniere a cielo aperto, la frantumazione della roccia contenente gli elementi e la separazione chimica tramite lisciviazione acida. Questo processo prevede l'uso di sostanze chimiche per sciogliere i metalli dai minerali e poi isolare l'elemento desiderato. Pur essendo economica e spesso efficace, questa procedura è estremamente inquinante, a causa dell'uso di acidi che possono contaminare il suolo e le acque, comprese le falde acquifere e i bacini idrici.
Ad esempio, minerali comuni come la gadolinite e la monazite vengono trattati con acido solforico a temperature altissime, seguito da un'estrazione con solventi per isolare i singoli elementi. Questo processo genera anche scorie radioattive, dato che molti minerali di terre rare contengono torio e uranio.
La raffinazione avviene spesso in impianti obsoleti, soprattutto in Cina, dove l'acido fluoridrico e il solfuro di idrogeno contaminano le falde acquifere. Sebbene esistano progetti pilota, come in Australia e Canada, che sperimentano tecniche a minore impatto ambientale (ad esempio la bioestrazione con batteri acidofili), queste soluzioni sono ancora difficilmente scalabili.
I metodi tradizionali di separazione richiedono fino a 200 cicli di estrazione con solventi organici, producendo volumi enormi di acque reflue contaminate. Nelle regioni cinesi di Ganzhou e Longnan, alcuni imprenditori locali hanno sviluppato metodi di estrazione che prevedono l'iniezione diretta di soluzioni chimiche nel terreno per dissolvere le terre rare, che vengono poi recuperate, causando un forte inquinamento del suolo e delle falde acquifere.
In generale, le tecniche di raffinamento sono varie e in continua sperimentazione, ma rimangono procedure difficili e mediamente molto inquinanti. Per ottenere ossidi di terre rare con la purezza necessaria per applicazioni high-tech, spesso si richiede una purezza del 99,999%, i concentrati minerali devono subire fino a 15 diverse fasi di purificazione.
L'impatto ambientale dell’estrazione
L'estrazione convenzionale di terre rare lascia profonde cicatrici ambientali. A Baotou, in Cina, esistono laghi artificiali di rifiuti tossici che coprono fino a 10 km², con concentrazioni di torio dieci volte superiori ai limiti di sicurezza. In Madagascar, la deforestazione legata all'apertura di miniere di nichel ha distrutto l'habitat di diverse specie endemiche, mentre nella Repubblica Democratica del Congo, le acque acide dei bacini di decantazione uccidono costantemente la fauna fluviale.
L'impronta ecologica è impressionante: ogni tonnellata di terre rare prodotta genera 2.000 tonnellate di scorie radioattive e 1,4 tonnellate di rifiuti acidi, con emissioni di anidride solforosa e CO₂ equivalenti a quelle di un'acciaieria. L'impronta idrica è altrettanto critica: raffinare una tonnellata di terre rare richiede ben 200.000 litri d'acqua, spesso sottratta all'agricoltura locale. Nella provincia di Jiangxi, a Ganzhou, l'estrazione incontrollata ha causato la contaminazione da metalli pesanti del 69% dei terreni agricoli circostanti, con concentrazioni di cadmio fino a dodici volte superiori ai limiti di sicurezza.
In Malesia, nel distretto minerario di Bukit Merah, l'attività estrattiva ha lasciato un'eredità di radiazioni che ha richiesto un programma di bonifica da 100 milioni di dollari, e le acque di falda mostrano concentrazioni di solfati trecento volte superiori allo standard potabile. Anche l'impronta di carbonio è significativa: per produrre una tonnellata di ossidi di terre rare, si rilasciano in atmosfera circa 12 tonnellate di CO₂, contraddicendo paradossalmente i benefici ambientali delle stesse tecnologie "verdi" (come veicoli elettrici o turbine eoliche) che questi materiali abilitano.
Conseguenze sulle popolazioni locali
L'impatto del mercato delle terre rare non si limita al pianeta, ma si estende drammaticamente anche a chi lavora o vive nelle zone di estrazione e raffinazione. Nella Repubblica Democratica del Congo, circa 40.000 bambini lavorano in miniere artigianali per l'estrazione del cobalto, esposti a polveri tossiche e al rischio di crolli. Le loro paghe giornaliere sono irrisorie: $2 per i minatori adulti e appena $0,75 per i bambini, mentre i profitti globali dell'industria del cobalto superano i 7 miliardi di dollari annui.
In Madagascar, intere comunità rurali vengono sfollate senza adeguata compensazione per far spazio a concessioni minerarie cinesi, spesso frutto di accordi opachi che eludono le leggi nazionali. Le statistiche sanitarie della provincia cinese di Baotou, un centro chiave per la raffinazione delle terre rare, rivelano un aumento del 230% dei tassi di patologie respiratorie nelle comunità vicine alle raffinerie, e l'aspettativa di vita in queste aree è diminuita di circa sette anni rispetto alla media nazionale cinese. Studi epidemiologici hanno documentato un aumento del 60% delle malformazioni congenite nelle comunità che vivono vicine alle raffinerie di terre rare.
In Myanmar, dove l'estrazione illegale è spesso controllata da gruppi paramilitari, l'ONG Global Witness ha documentato come oltre 9.000 ettari di foresta siano stati rasi al suolo in soli tre anni, distruggendo l'habitat di specie endemiche come il rarissimo langur di Shortridge, un primate già in via di estinzione. Nello stato di Kachin, sempre in Myanmar, l'estrazione illegale gestita da milizie armate ha trasformato le foreste in veri e propri paesaggi lunari, con laghi tossici che rilasciano acido solforico nei fiumi.
Un esempio di come la questione economica prevalga sulla salute pubblica si è verificato in Malesia, dove la società australiana Lynas, aprendo la sua raffineria di terre rare, ha ottenuto un'esenzione di 12 anni dalle normative ambientali. Questo ha generato massicce proteste da parte della comunità locale, preoccupata soprattutto per l'impatto sulla pesca, la principale fonte di sostentamento della regione.
Alternative alle terre rare
È evidente che, per quanto le situazioni possano migliorare, è praticamente impossibile pensare che questa estrazione possa avvenire senza la devastazione di ampie porzioni del pianeta, senza inquinamento e senza gravi conseguenze per le popolazioni locali. Nonostante questa realtà sia sotto gli occhi di tutti, i governi, spinti dalla necessità di mantenere la competitività economica, sembrano intrappolati in una morsa: da una parte dovrebbero prevenire tali situazioni, ma dall'altra sembrano disposti a pagare il prezzo per rimanere rilevanti nel mondo attuale.
Ci sono alternative complete alle terre rare? La risposta è "no, non ancora e non a tutte". Tuttavia, la risposta a "ci sono soluzioni che possano limitare questi danni?" è "sì, forse qualcosa si può fare".
Una delle soluzioni più promettenti è il riciclo dei RAEE (Rifiuti di Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche). Un riciclo più aggressivo potrebbe coprire fino al 20% della domanda di metalli rari entro il 2030. Purtroppo, oggi solo l'1% delle terre rare presenti nei dispositivi viene recuperato. La mancanza di standardizzazione nei prodotti complica il disassemblaggio e rende i costi del riciclo proibitivi, impedendo lo sviluppo di un'economia circolare. I numeri sono eloquenti: in Europa si riciclano ogni anno 12 milioni di tonnellate di RAEE, ma le terre rare recuperate ammontano ad appena 1.000 tonnellate, con un tasso di recupero effettivo inferiore al 10% per la maggior parte degli elementi.
Questo è un vero peccato, poiché esistono molte tecniche di recupero efficienti.
Una tecnica sviluppata dall'Università di Birmingham può recuperare fino al 90% del neodimio dai magneti permanenti dismessi e richiede il 70% di energia in meno rispetto all'estrazione in miniera. Un’azienda in Texas ha brevettato un processo per recuperare terre rare dai magneti usati nei motori di hard disk, riducendo i costi fino al 25% rispetto al materiale vergine. In Giappone, Honda, assieme a un’azienda chimica, ha sviluppato il primo processo commerciale per riciclare terre rare dalle batterie recuperando fino all'80% del lantanio e del cerio.
Parallelamente, in Iowa, c’è un impianto che ricicla terre rare dai dischi rigidi mediante sali di rame, processo che dimezza l'impronta di carbonio rispetto all'estrazione primaria. Stanno evolvendo anche delle tecniche di estrazione e raffinamento: il processo Direct Extraction Technology (DET) sviluppato in California utilizza soluzioni acquose non tossiche per estrarre terre rare dalle argille con un impatto ambientale ridotto del 60%. L'estrazione con fluidi supercritici, sperimentata in Cina, potrebbe eliminare completamente l'uso di acidi e solventi organici nei processi di separazione.
La tecnica di elettrolisi in sali fusi, sviluppata dai ricercatori del MIT, potrebbe ridurre del 95% i rifiuti liquidi rispetto ai metodi convenzionali di separazione delle terre rare, con un consumo energetico dimezzato. Sul fronte scientifico, il Pacific Northwest National Laboratory (USA) ha sviluppato un sistema a doppio flusso liquido su idrogel che separa disprosio e neodimio in un singolo passaggio, raggiungendo il 98% di purezza.
Nonostante queste nuove tecnologie emergenti, molta della produzione e raffinazione attuale è ancora fatta con tecniche più vecchie e inquinanti, semplicemente perché consolidate, meno costose e soprattutto perché possono usare la manodopera locale, molto meno costosa.
Tecnologia, ma a quale prezzo
Cosa si può dedurre da queste informazioni? Probabilmente, la maggior parte delle persone non si preoccupa di queste problematiche e, anche se ne viene a conoscenza, ciò non cambia la vita quotidiana. Questa è un'opinione personale, non una conclusione oggettiva, la situazione è però sotto gli occhi di tutti e ognuno può farsi la propria idea.
Come esseri umani, siamo tutti vittime di una chiara dissonanza cognitiva. Questo termine descrive una sorta di tensione che proviamo quando c'è una discrepanza tra ciò in cui crediamo – i nostri valori – e ciò che effettivamente facciamo – i nostri comportamenti. Se si chiedesse alle persone se è giusto devastare il pianeta, sfruttare i lavoratori, inquinare, la maggior parte delle risposte sarebbe "no, non è giusto". Eppure, nonostante questa consapevolezza, si continua a desiderare l'ultimo modello di smartphone, a guidare veicoli inquinanti e a compiere azioni che contraddicono i nostri valori.
Il fatto è che siamo umani e, pur sapendo che queste azioni sono sbagliate, le compiamo comunque. In un certo senso, nella nostra intelligenza siamo un po' tutti "poco lucidi", o forse decidiamo di essere un po' meno lucidi su determinate tematiche. Il motivo di questo comportamento è semplice: ci conviene fare finta di nulla, perché altrimenti dovremmo rinunciare a troppo, e non siamo disposti a farlo.