C'è stato un lasso di tempo, sospeso tra il tramonto di Command & Conquer e l'alba di StarCraft, in cui il genere degli strategici in tempo reale era un territorio selvaggio, una vera e propria corsa all'oro. Il 1997, in particolare, fu un anno davvero ricco di produzione decisamente peculiari.
Se oggi ci lamentiamo dell'abbondanza, non abbiamo idea di cosa significasse guardare gli scaffali dei negozi di videogiochi in quell'anno: Total Annihilation ridefiniva il concetto di portata strategica, Age of Empires portava la storia sui nostri desktop e Myth: The Fallen Lords ci mostrava cosa significasse la tattica pura.
E poi, in mezzo a questi colossi, c'era lui. Dark Colony.
A nominarlo oggi, molti appassionati di strategia reagiranno con un vago cenno di assenso, forse confondendolo con Dark Reign (un altro RTS di quell'anno, altrettanto valido). Ma per quelli che, in quel preciso momento, cercavano qualcosa di diverso, Dark Colony fu il B-movie perfetto nell'era dei blockbuster.
Sviluppato da Strategic Simulations, Inc. (SSI), un nome che fino ad allora associavo a simulazioni strategiche complesse e wargame quasi accademici, Dark Colony fu una netta sterzata verso l'azione immediata. Non cercava l'eleganza di Warcraft II, né la complessità geostrategica di C&C. Cercava qualcos'altro.
L'Estetica del Pessimismo
La prima cosa che mi catturò, prima ancora di capire le meccaniche, fu il tono. Dark Colony era intriso di quel pessimismo sci-fi che definì gli anni '90. Se StarCraft era l'opera spaziale con fazioni complesse e una trama epica, Dark Colony era Aliens di James Cameron incrociato con Starship Troopers (che, non a caso, uscì nelle sale proprio in quel 1997).
Noi eravamo i Marines Coloniali, spediti su Marte (ribattezzato Petra-IV) per terraformarlo e renderlo abitabile. I "cattivi" erano i Taar, una razza aliena che rivendicava il pianeta come proprio. La trama non era un romanzo di Asimov; era la sceneggiatura di un film d'azione che sapeva esattamente cosa voleva essere (un po' come Commando, alla fine lo guardavamo tutti perché era ignorante nel modo di fare).
I filmati in FMV, oggi giustamente derisi per la loro recitazione amatoriale e la CGI primitiva, all'epoca erano il nostro pane quotidiano. E quelli di Dark Colony erano perfetti nel loro essere sopra le righe. Ufficiali che urlavano ordini, soldati terrorizzati, alieni che facevano cose aliene e inquietanti. Tutto contribuiva a creare un senso di urgenza e di disperazione.
E poi c'era la violenza su cui il gioco puntava molto per distaccarsi dagli altri cloni. Dark Colony era gore e no, non in modo esagerato o farsesco, ma in modo più cupo e particolare. Quando un soldato moriva, non cadeva semplicemente a terra. Esplodeva in una pozza di sangue, lasciando brandelli e un urlo che si sentiva distintamente sopra il caos della battaglia. Le unità aliene, quando colpite, invece, si liquefacevano.
Capite bene che per un adolescente cresciuto con i "pixel" più astratti di Dune II, vedere quel livello di dettaglio crudo era decisamente scioccante ed esaltante. Era un gioco che si prendeva sul serio nel suo non prendersi troppo sul serio.
L'Innovazione nell'Ombra
Se l'atmosfera era il gancio, la meccanica principale era senz'altro la lenza. Dark Colony non si accontentava di essere un clone di C&C con una skin diversa. Introdusse un elemento che, ancora oggi, deve molto a molti videogiochi, seppur sia piuttosto banale: il ciclo giorno/notte.
Giocando come Umani, il giorno era il nostro alleato. Le nostre unità avevano un raggio visivo e di fuoco maggiore. Eravamo i padroni del campo di battaglia, aggressivi, capaci di colpire da lontano. La notte, invece, diventava un vero e proprio incubo. La visibilità crollava e il buio diventava un nemico tangibile, una nebbia di guerra che ci rendeva ciechi e vulnerabili.
Giocando con gli alieni, la situazione era diametralmente opposta. Di giorno eravamo deboli, miopi, costretti a rintanarci nelle nostre basi organiche e pulsanti. Ma quando calava l'oscurità... ah, quando calava l'oscurità, c'era ben poco che le unità umane potevano fare. Il nostro raggio visivo si espandeva e le nostre unità diventavano più letali.
Questa dinamica trasformava inevitabilmente ogni partita e il tutto non si riduceva solo a "costruire più veicoli". Si trattava di quando e come attaccare. Giocando da Umano, dovevamo massimizzare i danni durante il giorno e preparare difese disperate per sopravvivere alla notte, sperando che le nostre torrette e i soldati trincerati bastassero a respingere l'ondata di creature chitinose che sapevamo sarebbe arrivata.
Giocando da Alieni, la partita era una corsa contro il tempo per sopravvivere all'alba, per poi scatenare l'inferno al crepuscolo.
Ricordo distintamente la paura quando ero più piccolo. Il cielo che lentamente si scuriva, i suoni ambientali che cambiavano. La musica si faceva più sinistra. Sapevamo che stavamo per perdere il vantaggio.
Dovevamo ritirare le unità di scouting e rinforzare il perimetro. Nel suo piccolo era senz'altro una meccanica che generava una tensione narrativa emergente, cosa che pochissimi RTS riuscivano a fare.
Due facce della stessa medaglia
Le due fazioni, pur seguendo gli archetipi classici (tecnologia umana contro biotecnologia aliena), erano uno spasso da giocare.
Gli Umani erano tutto ciò che amavamo di Aliens. Soldati con fucili a impulsi, veicoli corazzati che sembravano usciti da un set cinematografico, e unità avanzate come il cecchino o il devastante "Exterminator" (un mech che sembrava un cugino arrabbiato dell'ED-209). Le loro strutture erano prefabbricati metallici, funzionali e freddi. La loro risorsa, il Petra-7, veniva estratta da geyser fumanti. Tutto era industriale, sporco, disperato.
I Taar, d'altro canto, erano meravigliosamente alieni. Le loro strutture erano organiche, pulsavano. Le loro unità sembravano insetti evoluti. Avevano i "Reapers", creature massicce che lanciavano acido, e i "Xenodog" (un nome che è tutto un programma), unità veloci da ricognizione. Ma la cosa che più mi affascinava erano le loro unità psioniche. Potevano creare illusioni, spaventare le unità nemiche o, la mia preferita, prendere il controllo di un'unità umana e rivoltarla contro i suoi stessi compagni.
In un'epoca in cui "asimmetria" significava semplicemente che un carro armato costava un po' di più ma aveva più corazza, Dark Colony offriva comunque due esperienze di gioco genuinamente diverse, legate a doppio filo al ciclo giorno/notte.
Il fascino dell'imperfezione
Ora, siamo onesti. È un editoriale nostalgico, ma non sono cieco. Dark Colony era tutt'altro che perfetto.
L'intelligenza artificiale era, per usare un eufemismo, rudimentale. Il pathfinding era spesso comico, con unità che decidevano di fare il giro del pianeta per raggiungere un obiettivo a dieci metri di distanza. Il bilanciamento era... creativo. Alcune strategie, come il "rush" di unità base, erano fin troppo efficaci, portando a partite che finivano in cinque minuti.
Le mappe, sebbene molto particolari, non avevano la complessità tattica o i punti di interesse strategici che StarCraft avrebbe introdotto l'anno successivo (come il terreno sopraelevato o le zone distruttibili). La gestione delle risorse era basilare: costruisci il raccoglitore, mandalo al geyser, difendilo. Fine.
Eppure, queste imperfezioni contribuivano molto al suo fascino da B-movie. Non era un gioco che richiedeva una pianificazione strategica degna di un Grande Maestro di scacchi. Era un gioco di reazioni istintive, di attacchi brutali e difese disperate. Era veloce, era sporco, era incredibilmente divertente. Era l'equivalente videoludico di un panino unto mangiato a tarda notte: sapevi che c'era di meglio, ma in quel momento era esattamente ciò di cui avevi bisogno (e ci andava bene lo stesso eheh)
L'eredità dell'eclissi
Poi, nel 1998, arrivò StarCraft e cambiò tutto.
Blizzard prese il concetto delle tre fazioni asimmetriche e lo elevò a forma d'arte. Introdusse una trama che ancora oggi fa scuola, un bilanciamento così raffinato da diventare uno sport nazionale in Corea e un livello di pulizia tecnica che fece impallidire quasi tutto il resto.
Di colpo, Dark Colony sembrò obsoleto. Le sue meccaniche sembrarono sempliciotte, il suo pathfinding intollerabile, la sua estetica "sporca" venne sostituita da quella "epica" di Blizzard. Insieme a Total Annihilation e Age of Empires, StarCraft definì la Santissima Trinità degli RTS, e titoli come Dark Colony (o Dark Reign, o KKND) vennero relegati nelle note a piè di pagina della storia videoludica.
Eppure, a quasi trent'anni di distanza, quando penso a quell'epoca d'oro, il mio ricordo non va solo ai Protoss e agli Zerg. Va anche a quelle notti su Marte e al panico che provavo quando il cielo diventava viola e sapevo che i Taar stavano arrivando.
Dark Colony non sarà certamente ricordato come il miglior strategico del suo tempo. Non ha definito un genere e non ha creato una scena competitiva multimilionaria. Ma ha fatto qualcosa che, forse, è altrettanto importante: ha avuto coraggio. Ha preso un'idea (il ciclo giorno/notte) e l'ha messa al centro della sua esperienza, senza paura di risultare sbilanciata o strana. Ha catturato alla perfezione lo spirito "pulp" della fantascienza militare, senza prendersi per un'opera shakespeariana.
Oggi viviamo in un'era di giochi rifiniti fino all'ossessione, di bilanciamenti perpetui e di estetiche spesso omologate. Rigiocare (o anche solo ricordare) Dark Colony è un promemoria di quando il mercato era abbastanza particolare da permettere a un B-movie di grosso budget di esistere. Non era perfetto, ma era dannatamente memorabile. E a volte è l'unica cosa che conta davvero.