La docu-serie di Xbox è il perfetto esempio di come fare corporate storytelling

Ripercorriamo la docuserie su Xbox recentemente uscita; un vero e proprio esempio di come fare corporate storytelling.

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a cura di Alessandro Tonoli

“Rivivi la storia Xbox (anche dei giorni più complicati!) con Power On.” Questo è uno dei post che potete trovare sulla pagina Facebook di Xbox Italia, con cui l’azienda invita a vedere la serie documentario appositamente creata per festeggiare un compleanno decisamente importante per la compagnia. Il brand Xbox ha da poco spento un ventennio di candeline e per celebrare degnamente questo traguardo che, soprattutto nel mondo della tecnologia, non è proprio roba scontata, ha avviato una campagna di comunicazione in pompa magna, composta di regali per l’utenza ed eventi speciali, tra cui spicca una docu-serie gratuita visibile per tutti sul canale YouTube della macchina da gioco americana.

Una docuserie che (come recita il testo del post che abbiamo citato) si impegna nel ripercorrere tutti i vent’anni di vita di questo brand, dalle origini ai giorni nostri, celebrandone i traguardi e ripercorrendo, soprattutto, anche i suoi momenti più cupi. Un’occasione per l’azienda di mettersi in luce, in un monologo lungo sei episodi la cui produzione è stata affidata nientemeno che all’occhio esterno della casa di produzione ten100.

Un regalo sicuramente meraviglioso per la sua affezionata utenza. Per noi un momento importante invece per riflettere su alcuni elementi. Su tutti, ovviamente, la bontà dell’operazione. Ma anche per curiosare fra tutti i retroscena, le informazioni sibilline che come stampa ci siamo trovati a osservare e interpretare negli anni, seguendo un’azienda che in questo settore ci ha abituati a non stare mai tranquilli, grazie alla sua introduzione forzata nel mercato e alla sua evoluzione antilineare. Oltre questo, un’occasione utile anche per capire come un’operazione del genere possa inserirsi nel contesto di comunicazione aziendale moderno, in cui le società cercano nuove vie per entrare in relazione con i propri stakeholder, catturare la loro attenzione (e la loro fidelity) tramite il mezzo più antico ed efficiente del mondo: raccontare una storia in grado di far emozionare.

Power on corporate storytelling

Partiamo con un presupposto fondamentale: per narrare una storia ci sono molti modi e, soprattutto nel momento in cui si parla di corporate storytelling, ce ne sono almeno uno buono e uno invece decisamente molto cattivo. Una delle possibilità che si offre alla nostra compagnia narratrice sta nello snocciolare uno in fila all’altro gli episodi salienti della ‘vita’ del brand, rimarcando ovviamente maggiormente la parte dei traguardi, sotterrando più possibile spazio ai passi falsi, sviolinando qua e là i presunti valori che connotano da sempre l’azienda, il tutto inframezzato da video eccessivamente empatici dove il proprio personale inscena una perfezione rigidissima, ai limiti del disumano, e pertanto poco credibile.

Questo tipo di racconto, neanche a dirlo, si connota come il modo peggiore per raccontarsi, ed è praticamente la trasposizione mediale del povero bambino che a Natale si mette in piedi sulla sedia e pretende l’attenzione di tutti per recitare la bellissima poesia imparata a memoria per la duecentesima volta, pensando di prendersi qualche mancetta in più. Insomma, bene che vada l’effetto che sortisce è quello di un gas soporifero, male che vada quel bambino finisce invece per starti pure un po’ sulle palle.

C’è anche un modo per uscirne bene però, ed è proprio la strada a cui si è affidata Microsoft affiancandosi a ten100 per la creazione di questa serie: prendere la propria biografia, affidarsi a un occhio esterno che la sappia sviscerare per creare un racconto vero e proprio dove emergano alcune delle caratteristiche che hanno le storie che più ci appassionano. Quali? Ad esempio: situazione oppressiva di partenza, nascita di un gruppo insubordinato che sovverte lo status quo, il successo inaspettato, le difficoltà successive, la sfida impossibile, il crollo, la rinascita finale. Niente di più, niente di meno, per arrivare al massimo dei risultati. Eccovi servita la formula magica di Power On.

Rinnegati in corsa contro il tempo

Partendo dalla puntata “I rinnegati” (titolo abbastanza eloquente sulle premesse di questa storia), la serie demanda a ogni successivo episodio un compito specifico per tenere lo spettatore incollato, con tanto di finale in cliffhanger per dare alla narrazione seriale maggiore efficacia.

La narrazione in over voice è costantemente spezzata dalle interviste di tutti i protagonisti principali della storia del brand, dai primi reazionari fondatori capaci di raccontarci cosa volesse dire per quegli anni proporre internamente a Microsoft l’idea di una console da gaming, fino ai nomi illustri della storia più recente, come Don Mattrick e, in ultimo, ovviamente la star caduta dal cielo, Phil Spencer.

I contenuti sono praticamente infiniti, e sapientemente diluiti nel minutaggio: attraverso il racconto, oltre a conoscere la storia del brand sin nei minimi dettagli (sapevate che uno dei nomi presi in considerazione era ‘Magic Carpet’?) si ripassano le evoluzioni tecnologiche di 20 anni di industria, si capiscono gli obiettivi aziendali sempre in costante mutamento con il variare del contesto sociale, e si empatizza con i personaggi principali del racconto che sgomitano da una parte all’altra, non mancando mai di sottolineare quanto l’azienda fosse assolutamente impreparata per tutto questo, e si dovesse costantemente inventare soluzioni di recovery per vincere la sempre stringente battaglia contro le scadenze di un mercato che aveva già competitor con esperienze anche decennali nella costruzione diretta dell’hardware, e che viaggiavano a una velocità difficile da eguagliare, con zero background sul tema. Sì, anche per la compagnia di software più potente del mondo.

La forza di essere imperfetti

La forza del documentario sta proprio qui. Nel far percepire chiaramente, e senza mezzi termini, la voglia genuina di Microsoft di mettersi a nudo come azienda, palesando in maniera anche a tratti un po’ imbarazzante tutta la serie di magagne interne che scaturiscono nel tentare di proporre un’idea all’interno di un colosso che dell’avanguardia aveva fatto il suo claim, ma che in quel momento stava puntando in tutt’altra direzione. Nulla è scontato al mondo, e quando ci si trova di fronte ad aventi come una presentazione mondiale in cui l’hardware clamorosamente non ne vuole sapere di accendersi (e ci si domanda come sia possibile) il motivo sta tutto in questo documentario, ed è il più naturale possibile: anche se ti chiami Microsoft, o Apple, o Google, la tua azienda sarà sempre fatta di persone, e se le timeline sono troppo strette le persone, semplicemente, sono portate a sbagliare.

C’è tanta voglia di far vedere cosa non è andato, con la giusta capacità di ironizzare (a posteriori) sui clamorosi errori del passato (una puntata intera sul celebre red ring of death). E c’è, soprattutto, la voglia di comunicare la passione che permea l’ambiente, insieme alla capacità di volgere quelle situazioni drastiche a proprio favore, mostrando tutti gli sforzi fatti per aggiustare la rotta. Ci sono fattori fondamentali come le lezioni apprese, e c’è spazio anche per la migliore delle autocelebrazioni: far ripetere costantemente a chiunque le proprie intenzioni nei confronti del mondo del gaming.

Il profondo amore per i legami creati dal videogioco, che si aveva intenzione di sostenere, di rivoluzionare, con questo progetto partito per contrastare in origine la presenza di Sony nei salotti. Si sente la voglia genuina di creare inclusione, con la missione ancora più ambiziosa di connettere tutti giocando (quando essere sul web era ancora considerato semplicemente ‘trendy’). Tutte intenzioni e valori che, tramite le persone che le raccontano, finiscono per essere attribuite al brand, in un cortocircuito piacevolissimo. L’equilibrio che si raggiunge è quindi praticamente perfetto, l’idea che passa è quella di avere di fronte un narratore sincero che non ci vuole vendere niente, ma che vuole sinceramente raccontare al mondo come sono andate le cose, non nascondendo nemmeno le riunioni dove tutti si urlano addosso faccia a faccia (e si puliscono gli occhiali dagli sputi) con un Bill Gates fuori di sé per l’estromissione di Windows dal progetto, e l’ossessione unica verso il nemico più acerrimo, Sony, compagnia rea di aver messo a repentaglio la presenza dei pc nelle case delle persone.

Siamo di fronte ad un’operazione di marketing assolutamente funzionale, perfettamente in linea con quello che ci si aspetta dalle aziende oggi: un linguaggio da persona reale. Finalmente i brand stanno imparando a mostrarsi come entità credibili, dove l’imperfezione non viene cancellata, anzi. E il legame che così si instaura con lo spettatore diviene altrettanto sincero. La perfezione è stata la malattia del marketing fino al più recente periodo, i brand ci hanno raccontato storie così patinate da far perdere parzialmente la loro credibilità. Il contesto sociale odierno fortunatamente permette di cambiare rotta.

Un momento storico dove addirittura l’imperfezione diventa un prodotto (le avete viste le patatine brutte?) offre un assist perfetto a tutte quelle compagnie che si muovono in un modello di business favorevole, che si può permettere di trattare alcuni argomenti anche in maniera più leggera (come quello della tecnologia). Si può essere divertenti, ironici, anche sul proprio passato, e uno ‘scusa’, in termini di efficacia comunicativa, vale quasi quanto il miglior progetto di sostenibilità ambientale. Questa serie di elementi consente di fare della storia aziendale un vero e proprio contenuto da capitalizzare al meglio: un gruppetto di ‘improvvisati’ che decide di risalire la scala gerarchica per proporre a Bill Gates il loro progetto tenuto in piedi praticamente con lo scotch arriva a colpire decisamente di più, rispetto all’idea di una compagnia che aveva già in serbo la macchina perfetta con cui travolgere il mercato.

Una brand identity che arriva a colpire

La gestione del racconto, così impostata, riesce a non far scadere mai il documentario, neanche nei momenti chiaramente più Xbox oriented, in cui si percepisce forse un po’ troppa marcatura sui propri successi e, soprattutto, sulla reazione del mondo esterno ad essi (guardando una docu-serie comunque prodotta per stessa commissione di Microsoft è ovviamente il minimo che potevamo aspettarci).

Anche visivamente il tutto procede che è un piacere: le interviste in presa diretta si susseguono a filmati aziendali interni originali, pubblicità ritirare dal mercato, presentazioni storiche e, soprattutto, ad alleggerire il racconto, arrivano brevissimi cut di scene tratte dai più disparati giochi, che sottolineano visivamente quanto raccontato dalla voce narrante. Per raccontare una macchina da gioco ventennale non si può fare a meno di usare il linguaggio del media stesso che la rappresenta.

Con questo tassello, insomma, Microsoft consegna chiavi in mano la sua storia al mondo, e aggiunge un ulteriore elemento alla rivoluzione della sua brand identity, percorso intrapreso da anni e che sembra procedere nel migliore dei modi (qui ne abbiamo parlato) sulla strada del ‘love brand’.

E le altre? Sony e Nintendo con i loro documentari si sono mosse in maniera invece più laterale, evitando una pubblicazione diretta, gratuita e soprattutto in poma magna, con i rispettivi “The PlayStation Revolution” e “Playing with Power: The Nintendo Story”. Si può dire che al momento forse non ve ne sia così bisogno, dato il forte predominio di settore dei due colossi, nei rispettivi ambiti. Ma qualunque azienda che voglia continuare a giocare ad alti livelli si troverà sempre di più a confronto con l’esigenza di comprendere come tradurre la propria vita aziendale in una storia che esca dalla retorica e sia capace di far appassionare realmente il pubblico al proprio nome, e al proprio logo.

Ed è proprio questo quello che succede guardando ora, dopo il documentario, la grande X che capeggia al centro del pad di Xbox. Improvvisamente non si vede più un semplice (per quanto curatissimo) marchio. Il logo inizia a funzionare esattamente come il marketing vorrebbe che tutti i ricercatissimi nomi, monogrammi e ideogrammi funzionassero: svolgendo il loro compito di rappresentazione. Una rappresentazione che in uno sguardo, istantaneamente, richiama tutta la storia, la vision e la mission del brand, rimandando sia al passato quanto al futuro che si prospetta per la società, che in questo preciso momento storico si trovano, tra l’altro, a coincidere.

Microsoft è nata come una compagnia di software che, in vent’anni di presenza sul mercato dell’hardware console, torna a puntare tutto sui servizi, con il suo Game Pass. E lo scettro del comando torna anch’esso nelle mani di un appassionato di gaming, che vede in quella X la possibilità reale di dare alle persone esperienze videoludiche diverse, di valore, e un nuovo modo di intendere il gaming. Esattamente come fecero quattro giocatori, rinchiusi nell’area DirectX, vent’anni prima di lui. Vincendo, clamorosamente, quella folle scommessa da un miliardo di dollari.