L'improvvisa ascesa e il rapido declino degli FPS tattici

Tra la fine degli anni '90 e i primi del 2000 gli FPS tattici impazzavano, ma con la stessa velocità con cui si imposero sparirono

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a cura di Fabio Canonico

Lo sparatutto in prima persona è uno dei generi che maggiormente vengono associati al medium, tanto tra coloro che ne fruiscono con regolarità quanto tra quelli che ne sono a digiuno. È un genere iconico, che se la passa piuttosto bene, perché nel corso degli anni è riuscito a seguire piuttosto agevolmente l'evoluzione del medium, a differenza di altri ugualmente classici, come la versione più pura del platform. Certo, c'è stato un periodo, attorno al 2010, nel quale la componente singolo giocatore sembrava quasi fosse diventata un inutile orpello, che da lì a poco sarebbe stata abbandonata o, al più, sarebbe stata cosa di pochi appassionati; ma negli anni immediatamente successivi produzioni come i primi  Metro, Wolfenstein: The New Order, Titanfall 2, DOOM e altri ancora avrebbero provato che no, non sarebbe successo.

Eppure nella storia decennale del genere, costellata di successi che ne hanno scolpito l'immaginario e l'iconografia, si registra una vittima eccellente. Un caduto in azione, verrebbe da dire, visto che si sta parlando del sottogenere dell'FPS tattico, per forza di cose inserito nel contesto poliziesco/militare. Tra la fine degli anni '90 e i primi 2000 era quello di maggior richiamo e fa veramente strano pensare che oggi, con la sola eccezione del promettente Ready or Not di VOID Interactive (ancora però in accesso anticipato), sia praticamente sparito. Che il gusto degli appassionati di FPS sia cambiato è innegabile, ma davvero non c'è spazio, in un mercato che in vent'anni è cresciuto in maniera esponenziale, anche solo per una nicchia dedicata a questa interpretazione così peculiare del genere, per certi versi antitetica rispetto ai suoi canoni e proprio per questo motivo così affascinante? Pare di no, per ora.

Non si può quindi guardare con un po' di nostalgia a quel periodo in cui FPS non era necessariamente sinonimo solo di kill da inanellare, orde di nemici da abbattere o movimenti ben oltre i limiti dell'umano. C'era anche quello, intendiamoci, e andava benissimo; ma l'FPS tattico aveva indubbiamente qualcosa in più. Differentemente da tutti i congeneri si ancorava alla realtà; nelle ambientazioni, nella storia (il primo Ghost Recon era addirittura profetico, visto che raccontava eventi scaturiti dall'invasione dell'Ucraina – ma anche della Bielorussia e del Kazakistan – da parte della Russia), nelle armi e, soprattutto, nella natura degli scontri a fuoco. Prendere una pallottola significava nella stragrande maggioranza dei casi morire, pertanto ogni singola azione andava accuratamente pianificata e un approccio a fucile spianato era, semplicemente, non attuabile.

In principio fu Rainbow Six. Mentre Tom Clancy scriveva il romanzo, Red Storm Entertainment sviluppava il videogioco: entrambi ottennero un successo strepitoso, ma se il primo fu solo uno dei tanti dello scrittore statunitense (che aveva già firmato libri come La grande fuga dell'Ottobre Rosso e Pericolo imminente, dai quali erano stati tratti i film Caccia a Ottobre Rosso e Sotto il segno del pericolo), il secondo di fatto segnò un punto di svolta per l'FPS, diventandone una pietra miliare.

Rainbow Six cambiava totalmente i paradigmi, imponendo un approccio metodico e ragionato a un genere basato esattamente sull'opposto, ovvero sull'intensità e sulla velocità dell'azione. Funzionava, eccome. Il fatto che si potesse morire praticamente in un nonnulla, anche per la minima distrazione, per non aver coperto bene un angolo al momento dell'ingresso in una stanza, o per aver tenuto troppo a lungo il dito sul grilletto, vanificando la precisione dell'arma, connotava ogni singola missione di una tensione pazzesca, dal primo all'ultimo secondo.

Non solo: alla fase attiva si arrivava da una di preparazione, nella quale si poteva pianificare praticamente ogni singola azione delle squadre in campo: il percorso, l'utilizzo di granate abbaglianti e altri dispositivi tattici, i punti dove aspettare segnali specifici. Praticamente una manna per i fissati della tattica, ma anche un problema non da poco per coloro un pelo meno pazienti, soprattutto quando costretti a cambiare i piani nel bel mezzo dell'azione, causa la perdita dei propri effettivi.

Eppure, anche a fronte di un impianto di gioco ostinatamente rigido in ogni sua componente, Rainbow Six fu un successo epocale, spalancando la via per titoli simili e inaugurando una serie storica, la cui vetta è sicuramente rappresentata dal terzo capitolo, Raven Shield. Apprezzabili, ma nulla di più, i due Vegas, mentre quella di Siege è storia piuttosto recente, e assai differente da quella del glorioso passato. Riguardo Extraction, meglio stendere un velo pietoso.

Come Rainbow Six è del 1998 anche Delta Force, il primo capitolo della serie Novalogic. Privo della complessità tattica del gioco di Red Storm Entertainment, aveva però dalla sua il fatto di collocare l'azione negli spazi aperti, e non in quelli prevalentemente chiusi del congenere. Delta Force era sicuramente più permissivo, anche grazie a un'intelligenza artificiale dei nemici decisamente scarsa, ma non per questo era facile e richiedeva comunque un approccio metodico: sparare da sdraiati, trovare ripari, ripulire le aree, utilizzare le armi adatte alla missione.

In Delta Force si percepisce sottilmente una questione che assumerà contorni anche imbarazzanti per la serie e che probabilmente è uno dei motivi per i quali oggi lo sparatutto tattico non esiste: quella morale. Se le storie concepite da Tom Clancy per i Rainbow Six imbastivano una complessità che quantomeno faceva finta di andare oltre la dicotomia soldati buoni/terroristi cattivi i giochi di Novalogic nemmeno ci provavano. Pochi problemi nel caso dei primi due, quasi asettici dal punto di vista narrativo; già il terzo alzava il vessillo del militarismo dei buoni, ma fu con la sua espansione che le cose presero una piega problematica.

Nel 2002, a pochi mesi dall'inizio in Afghanistan dell'operazione Enduring Freedom, volta a sradicare i talebani e a distruggere le cellule terroristiche guidate da Osama Bin Laden, Delta Force: Task Force Dagger proponeva una campagna ambientata nel paese asiatico, mettendo il giocatore al controllo di unità della coalizione internazionale realmente impegnate sul terreno. Mentre si combatteva una guerra vera Novalogic ne aveva già realizzato la sua versione videoludica, con tanto di missione finale ambientata tra le caverne di Tora Bora, lì dove si riteneva fosse nascosto il cosiddetto sceicco del terrore. Pensate fare una cosa del genere oggi, verrebbe giù il mondo; vent'anni fa fu possibile.

E abbastanza simile è quello che il team di sviluppo fece con il capitolo successivo della serie, Black Hawk Down, ispirato a fatti reali, ovvero la Battaglia di Mogadiscio del 1993, già raccontata dall'omonimo film di Ridley Scott del 2001. Un buon gioco, il migliore della serie, curato tanto nel gameplay quanto nella tecnica e connotato da un'atmosfera pesante, tragica: ancor oggi è capace di trasmettere l'opprimente sensazione dell'essere un uomo di fanteria in un ambiente ostile. Eppure basta anche solo quella missione finale nella quale uccidere il signore della guerra Mohamed Farrah Aidid, vendicando i compagni morti sul campo, totalmente alternativa alla realtà (Aidid venne colpito in uno scontro a fuoco con una fazione rivale e morì una settimana dopo per le ferite riportate) per dare una rappresentazione dell'identità valoriale del gioco. La serie Delta Force sarebbe poi proseguita con l' apprezzabile espansione Team Sabre, e con i due Xtreme, ormai fuori dal tempo, prima di sparire con la chiusura del suo team di sviluppo.

A unire le ambientazioni aperte di Delta Force con l'impianto di gioco di Rainbow Six fu proprio Red Storm Entertainment, che passò dalle missioni della squadra Rainbow a quelle dei Ghost, berretti verdi impegnati in una guerra scatenata dagli ultranazionalisti russi. A oggi Ghost Recon (2001) è probabilmente il miglior FPS tattico di sempre, capace di unire un gameplay ancora arcigno alla flessibilità portata in dote dagli ampi teatri di scontro. A tracciare il percorso che le squadre non controllate direttamente dal giocatore devono seguire ci si impiega un attimo, perché non occorre lottare con le complessità delle fasi analoghe dei Rainbow Six; i conflitti a fuoco sono rapidi, feroci, esplodono e si risolvono in pochi secondi, e uscirne senza danni con la tattica, prima ancora che con la mira, è fonte di grande soddisfazione.

Peccato che Ghost Recon come serie si sia perso quasi subito: tre espansioni per il primo gioco (apprezzabili le prime due, meno la terza), due discreti seguiti (gli Advanced Warfighter) ma già piuttosto lontani e diversi dal concept del primo capitolo. Sul recente passato, tra Wildlands e Breakpoint, meglio soprassedere. Ma che sia Rainbow Six che Ghost Recon siano in mano a Ubisoft e che ormai non siano nemmeno lontani parenti dei loro primi capitoli qualcosa dice sull'utilizzo delle proprie IP da parte del publisher.

L'ultima grandissima produzione che segnò il periodo d'oro degli FPS tattici fu SWAT 3, anno 1999, e assai rimpolpato di contenuti da due aggiornamenti, nel 2000 e nel 2001. Il gioco di Sierra Northwest portava il combattimento a distanza ravvicinata a un livello ben superiore rispetto a quello di Rainbow Six: meno rigido, estremamente più fluido e rapido, con una fisica al tempo avanzata e con un sistema di comandi capace di interpretare diverse situazioni. Distribuire le due diverse unità della squadra d'assalto comandata dal giocatore era questione di un attimo, per irruzioni efficacissime; e poi ammanettare sospetti, chiamare i paramedici, ordinare l'utilizzo di equipaggiamento tattico, tutto con pochi tasti. Non solo: l'uso indiscriminato della forza non era consentito, occorreva rispettare le procedure, per esempio intimare a un sospetto di buttare l'arma prima di ricorrere alla forza letale. Sulle stesse fondamenta era costruito il seguito, del 2005, un altro ottimo gioco, ma già tra gli ultimi del genere.

In praticamente cinque anni l'FPS tattico aveva esaurito la sua spinta. Di Operation Flashpoint va ricordato il buon primo capitolo (2001), ma quando la serie passò in mano a Codemasters di fatto perse molto del suo appeal; Bohemia Interactive, dietro l'originale, proseguì poi con ARMA, forse l'unica nicchia rimasta per gli appassionati del genere, ma ferma al 2013; degli altri, tra SOCOM, Hidden & Dangerous, Brother in Arms e simili si son perse le tracce.

Il motivo? Come detto, il cambiamento nei gusti dei giocatori, già proiettati verso quella frenesia che oggi contraddistingue l'FPS multigiocatore (basti pensare agli hero shooter, o al time to kill dei Call of Duty), e quindi la conseguente difficoltà da parte degli sviluppatori e dei publisher nel proporre qualcosa di affine all'FPS tattico e allo stesso tempo in grado di incontrare i gusti del grande pubblico. Chi, oggi, rischierebbe nell'investire su di un genere ostico, rigido, capace di schiantare anche il giocatore più paziente? Eppure era proprio quello il fascino di missioni al fulmicotone, di tattiche a lungo ponderate e di necessarie improvvisazioni, di una ludica nella quale lo sparo non era tutto.